Professor Brigadoi Cologna, da dove nascono I luoghi comuni che riguardano i cinesi nel nostro paese?
I luoghi comuni sui cinesi in Italia si conformano in buona misura ad uno stereotipo anti-cinese che ha una lunga storia alle spalle. Ovvero quello di una minoranza competente e capace che da un lato rassicura per il suo essere operosa e gran lavoratrice, e viene raffigurata come minoranza modello quando fa comodo alla società ospitante, ma al contempo per la sua capacità di inserirsi rapidamente all’interno del tessuto economico viene raffigurata come concorrente sleale. E diventa capro espiatorio di situazioni economicamente difficili. Ogni volta che c’è un disagio a livello degli imprenditori, di concorrenza del mercato o di posti di lavoro, ecco che emerge l’ idea della minoranza potenzialmente minacciosa.
Esistono poi una serie di stereotipi esotisti e anche razzisti che hanno radici antiche. Ci sono stereotipi legati all’idea che la minoranza cinese sia faticosa da integrare culturalmente, che sia refrattaria all’integrazione, e che la differenza somatica tradisca una non congruenza culturale. Sono stereotipi di derivazione anglosassone, come per esempio il mito del perpetual stranger, che emergono per la prima volta nelle Chinatown inglesi e americane nell’800 e poi si sono fatti strada tramite la letteratura mainstream occidentale: romanzi, fumetti e libri che hanno influenzato le generazioni successive di media popolari e di lettura pulp. La specificità della diaspora cinese in Europa in questa stereotipizzazione è emersa solo negli ultimi anni, in virtù soprattutto, nel caso italiano, di una minoranza sino-italiana che comincia ad acquisire una sua fisionomia e identità riconoscibili e che comincia a veicolare idee diverse. Questo ha creato un cortocircuito perché a quel punto l’italiano medio non riesce più a inquadrare la minoranza cinese nello stereotipo del perpetual stranger che non si integra, nel momento in cui la minoranza fa parte della partecipazione sociale e politica del paese. Fa fatica a inquadrare questi cinesi quando parlano perfettamente italiano, fanno parte delle camere di commercio, o si candidano ai consigli comunali.
Ciò nonostante quella traccia antica di derivazione anglosassone non è mai andata via del tutto. E ogni volta che si ha la possibilità di farla riemergere in chiave antagonista o politicamente spendibile ed emotiva la vediamo riaffiorare. È un discorso che emerge e riemerge come un mostro di Lochness a seconda delle esigenze. Ci sono testate che in questo senso sono un caso di studio esemplare, come Il Giornale, Libero, tutto ciò che è vicino alla Lega, ma anche riviste di profilo politicamente meno connotato come La Nazione, che utilizzano questa narrazione a seconda delle necessità politiche del momento.
Dall’altra parte però c’è un’Italia interessante come laboratorio di innovazione sociale e culturale perché contrariamente a quanto successo altrove la minoranza sino-italiana cresce e matura in un costante dialogo con persone non cinesi, italiane e non. E all’ interno di questo dialogo matura la consapevolezza di questa nuova identità. È un aspetto che andrebbe messo in evidenza perché non è successo in altri paesi europei, o negli Stati Uniti. L’Italia ha un basso tasso di segregazione etnica rispetto al nord Europa e dal punto di vista affettivo ed emotivo il tessuto italiano è molto permeabile. Lo è stato fin dall’inizio. Le origini stesse dell’immigrazione cinese in Italia si configurano come l’ancoraggio di una comunità mista, fatta di uomini cinesi che sposano donne italiane e hanno figli di sangue misto. Tutta la storia dell’immigrazione cinese in Italia, anche quella degli ultimi 40 anni, è fortemente connotata da questa costante presenza nelle biografie delle persone che si identificano come sino italiane di persone italiane che sono state i loro amici, amanti, punti di riferimento nell’istruzione. È una cosa interessante su cui porre l’accento secondo me e della quale andare anche un po’ orgogliosi.
A conti fatti quindi trova che quello italiano sia uno scenario positivo dal punto di vista dell’integrazione socio-culturale?
È positivo dal punto di vista dei fenomeni ma non dal punto di vista delle narrazioni. C’è grande discrepanza tra quello che succede nella società e il racconto mass mediatico, che fatica a tenere conto di queste dinamiche. Lo stereotipo della minoranza come “soggetto ospite temporaneo” è ancora molto presente. L’italiano medio non riconosce che i cinesi che vivono da moltissimo nel nostro paese sono a tutti gli effetti italiani. L’aspetto somatico conta ancora tanto.
Il mancato riconoscimento di cui parla si percepisce anche a livello istituzionale, come dimostrato dalla campagna per i cosiddetti “italiani senza cittadinanza”. È la politica a influenzare la narrazione dei media, o viceversa?
Credo che il rapporto tra media e politica sia più complicato di quanto non si creda. Esiste un feedback loop per cui il discorso mediatico spesso informa la narrazione politica e viceversa. La politica in Italia ragiona per bacino di voti. Il modo per definire il proprio valore politico per una minoranza è quindi accreditarsi come una minoranza che vota. E la minoranza cinese ha iniziato a dimostrare questo suo valore prima di altre. Ha capito che poteva spostare pesi e rendersi riconoscibile come soggetto politico. Un aspetto che però è anche altamente limitante, perché un soggetto politico primariamente identificato dalla sua appartenenza etnica e non da quella valoriale non è molto forte. C’è comunque il potenziale per un fronte comune, partendo per esempio dalla lotta alla discriminazione razziale, soprattutto a seguito della pandemia.
Tutto questo in un contesto come quello italiano che fa ancora molta fatica a riconoscere la sua natura di società multiculturale e multietnica. Che fatica molto a capire che abbiamo sì una percentuale di origine straniera o di nazionalità straniera inferiore al 10%, ma che nelle classi di età giovani (30-34 anni) è una fascia presente sul mondo del lavoro con maggiore capacità di azione, con un’incidenza del 15%, che si fa sentire. E questo crea cortocircuiti comunicativi e da vita a una politica che si dimentica che ci sono 5milioni di italiani senza cittadinanza….SEGUE SUL NOSTRO MINI EBOOK DI AGOSTO. SCOPRIO COME OTTENERLO
Di Lucrezia Goldin
Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.