La popolazione tibetana ha un nuovo leader. Si chiama Lobsang Sangay, è nato nel 1955 in India, quella che definisce la sua “seconda patria”, dopo il Tibet dove non si è mai recato. Dopo due turni di votazioni, è stato eletto grazie alla scelta del 55% dei votanti, in tutto quasi ventisettemila, sugli ottantaquattromila degli aventi diritto.
L’elezione aveva un valore particolare: in seguito alla decisione presa dal Dalai Lama di abbandonare i propri incarichi politici, il voto dei tibetani era stato chiamato a indirizzare una vera e propria transizione politica con pochissimo tempo di anticipo. Il Dalai Lama, oltre a essere a capo della chiesa buddhista tibetana, è anche il principale detentore del potere politico in Tibet. Dopo l’inizio dell’esilio aveva intrapreso un processo di democratizzazione, che ha avvicinato il suo ruolo politico a quello presidenziale nel modello americano, dove il presidente riunisce le funzioni di capo dello stato e di capo del governo. Secondo molti osservatori il suo ritiro potrebbe implicare un allontanamento da entrambe le funzioni; in alternativa egli potrebbe mantenere la funzione di capo dello stato e lasciare quella di capo del governo.
In ogni caso la posizione di primo ministro assumerà probabilmente un valore del tutto nuovo, vedendo crescere a dismisura i suoi poteri, precedentemente subordinati al consenso del Dalai Lama. Secondo il Consiglio editoriale della Tibetan Political Review, l’allontanamento dalla vita politica da parte del Dalai Lama rappresenta solo il primo passo di una più radicale evoluzione politica, che determinerà un riequilibrio dei poteri tra Parlamento e primo ministro, a oggi decisamente sbilanciati a favore di quest’ultimo. Ad ogni modo il valore della transizione non è limitato a una questione interna alla comunità esule.
A essere chiamata in causa è la stessa legittimità dell’amministrazione esule di fronte al governo cinese e al popolo tibetano residente in Tibet. Di fronte al governo cinese è lecito quantomeno chiedersi quanta credibilità potrà avere la nuova autorità politica, dal momento che dal 1959 a oggi il governo tibetano in esilio non è stato riconosciuto dalle autorità cinesi. In Cina, i negoziati intrapresi con il Dalai Lama sono stati fino a oggi sì infruttuosi, ma se sono stati avviati lo si deve al fatto che a negoziare ci fosse il Dalai Lama.
Il governo comunista cinese ha sempre preteso che a trattare ci fossero rappresentanti personali del Dalai Lama e non del governo in esilio, che di fatto non riconosce. Particolare non da poco, i negoziati sono sempre stati riconosciuti ufficialmente perché volti al ritorno del Dalai Lama e non alla ridefinizione dello status politico del Tibet, su cui il governo cinese non ha mai messo in discussione la propria posizione. Come dire: ad essere in questione è la posizione individuale del Dalai Lama e non di uno stato rappresentato da proprie istituzioni. È dunque ipotizzabile che nel caso di un completo allontanamento del Dalai Lama dalla scena politica, il nuovo Kalon Tripa, o primo ministro, dovrà individuare un nuovo espediente formale per rendere accettabile agli occhi del governo cinese l’avvio di nuovi negoziati per il destino del Tibet.
Se il governo cinese poteva nutrire un interesse per il ritorno del Dalai Lama, non è detto che sia interessato a riconoscere, seppure indirettamente, una figura politica in tutto e per tutto aliena al sistema comunista vigente e a più riprese rinnegata nella sua legittimità. Inoltre, Lobsang Sangay avrà il dovere politico di apportare uno sviluppo della politica tibetana in esilio in rapporto alla questione tibetana, in virtù del fatto che la politica della via di mezzo del XIV Dalai Lama –incentrata sul riconoscimento della sovranità cinese in cambio di un’ampia autonomia- è stata incapace di produrre alcun risultato nei negoziati. Nel 2008, mentre le trattative si arenavano, in Tibet scoppiava la più ampia rivolta del periodo comunista, di cui ancora oggi si osservano gli strascichi: proprio in questi giorni il Tibet è tornato a fare capolino sulle pagine dei giornali occidentali, per via dell’ardita resistenza all’interno del monastero di Kirti (nel Tibet orientale) scoppiata in seguito all’auto-immolazione per protesta di un monaco tibetano.
Ad ogni modo, finora, le dichiarazioni del vincitore delle elezioni non lasciano intravedere sostanziali mutamenti nella politica di Dharamsala, avendo evidenziato a più riprese la volontà di agire nella continuità del percorso tracciato dal XIV Dalai Lama e insistendo nell’appello a una forma “genuina” di autonomia. Naturalmente non si tratta solo di un problema di inerzia politica, ma di una questione ben più complessa, che denota la posizione di debolezza del governo in esilio di fronte alla questione tibetana e anche tutte le difficoltà che un’eventuale nuova tendenza politica –maggiormente intransigente- incontrerebbe nell’allontanarsi dal principio di non-violenza buddhista che il Dalai Lama ha applicato alla politica.
Il problema dei pochi margini di iniziativa politica richiamano in causa anche la questione della legittimità politica del nuovo primo ministro tibetano tra i tibetani residenti in Tibet, ovvero la maggioranza della popolazione tibetana. Per forza di cose i tibetani residenti in Cina non hanno potuto prendere parte alle elezioni avvenute in esilio, il che ha privato il dibattito politico delle loro aspirazioni e delle loro necessità.
Non è un caso che la campagna elettorale a Dharamsala (che la propaganda del governo esule ha vantato essere la prima nella storia tibetana, a dimostrazione dell’allargamento del processo di democratizzazione tibetano) abbia denotato dei toni molto distanti dai problemi dei tibetani in Tibet, costretti a fronteggiare situazioni del tutto diverse rispetto a quelle in cui operano i tibetani in esilio, problematiche verso cui spesso gli esuli nutrono una considerazione minima per la scarsa conoscenza che hanno del peculiare contesto socio-economico in Tibet. Anche Lobsang Sangay non è mai stato in Tibet; il suo slogan elettorale recitava “unità, innovazione e fiducia in noi stessi”, un proclama che con ogni probabilità avrebbe lasciato abbastanza indifferenti gli animi dei tibetani che vivono oggi in Tibet, ma che gli ha permesso di vincere le elezioni in esilio. L’impegno politico di Lobsang Sangay non prende in minima considerazione le questioni dell’urbanizzazione, dell’emarginazione socio-economica e dell’assimilazione culturale che i tibetani si trovano a fronteggiare in Cina.
Piuttosto, Lobsang Sangay –primo tibetano ad aver ottenuto un dottorato a Harvard– pone l’attenzione su un tema –quello del cambiamento- di gran successo negli slogan politici occidentali degli ultimi anni. Si sofferma sulla questione dell’unità, centrale nel dibattito all’interno di una comunità esule tibetana molto più frammentata di quello che le apparenze lascino credere, tanto dal punto di vista politico che da quello economico, sociale, linguistico e religioso. Questo perché necessariamente i leader esuli devono per prima cosa confrontarsi con la comunità esule, dove operano, mentre sono impossibilitati a fare arrivare la propria voce nel Tibet cinese.
Tuttavia, una delle chiavi della risoluzione della questione tibetana sta nel superamento delle differenze e, in una certa misura, delle divisioni che sussistono tra i tibetani in Tibet e quelli che vivono in esilio. Uno dei principali punti di forza del Dalai Lama era proprio la sua funzione simbolo di unità, un valore tanto più importante tenendo conto della profonda distanza tra i sistemi in cui i tibetani sono costretti a crescere, dentro e fuori dal Tibet. Forte degli incontri avuti con degli studiosi cinesi a Harvard, Lobsang Samgay ha ripetuto a più riprese di sentirsi pronto a dare il proprio contributo ai negoziati con la Cina. Se egli dovesse riuscire nella sfida di ottenere un riconoscimento tra tutti i tibetani e rendersi artefice di una linea politica che non emargini la maggioranza del popolo tibetano, chissà che egli non riesca a intervenire all’interno del dibattito politico cinese, apportando in ultima analisi una svolta pragmatica alla politica nazionalista del governo in esilio.
Il prezzo di questa politica sarebbe l’allontanamento dagli ambienti politici indipendentisti intransigenti, tuttavia i tibetani in Tibet potrebbero trovare un nuovo portavoce dei loro bisogni più immediati di fronte al sordo potere del partito comunista cinese.
* Mauro Crocenzi sta svolgendo un dottorato in tibetologia presso l’università "La Sapienza" di Roma che ha per oggetto la rappresentazione dell’identità tibetana in Cina. E’ coautore di Brand Tibet, Derive e Approdi, 2010