C’era una volta in Tibet

In by Simone

Il 10 marzo è ricorso il cinquantesimo anniversario dell’esilio del Dalai Lama. Dal 1959 a oggi tante rivolte, polemiche e denigrazioni. Un breve excursus al centro del quale ci sono i tibetani e i cinesi.

Il Tibet è propaganda. A distanza di un anno dalla rivolta del marzo 2008, la regione cinese si appresta ancora una volta a commemorare o a festeggiare: dipende dalla parte in cui si sta. Il 10 marzo ricorre anche il cinquantesimo anniversario dalla rivolta del 1959, che condusse all’esilio il Dalai Lama, gran parte del governo tradizionale, dell’aristocrazia e dei ribelli. Poche settimane dopo, il 28 marzo, le autorità cinesi destituivano il governo tradizionale di Lhasa ed avviavano le riforme democratiche, il primo passo verso una società socialista. Era la fine della schiavitù, secondo i cinesi.

Il Tibet è propaganda. Radicata e persistente, che si protrae da circa un secolo rinnovando toni e accenti, ma vestendo sempre gli stessi abiti. Tibet: the facts. Tibet: the Truth. Tibet: Facts and Figures. Sono espressioni ricorrenti che a Pechino e Dharamsala vengono ripetute da almeno trent’anni. Perché ogni propaganda si appella alla verità oggettiva dei fatti e della storia. E si impossessa del sostegno della gente, si nutre delle loro vite, affidandole a una causa prefabbricata: l’indipendenza come bene supremo. O anche la stabilità e lo sviluppo sotto la bandiera dell’unione delle cinquantasei nazionalità come massima aspirazione.

Nel 1988 i monaci buddhisti in protesta a Lhasa sollevarono i cadaveri dei compagni caduti passandoli di braccia in braccia attorno al monastero di Jokhang, il luogo simbolo delle proteste nel cuore di Lhasa. Come per celebrarne l’eroismo innalzando ed esibendo i corpi al cielo. Come per renderli un tutt’uno con la pratica religiosa attraverso un’ultima e immortale deambulazione attorno al sacro tempio. Buddhismo, simbolo di identità nazionale tibetana. Buddhismo come simbolo di protesta contro i cinesi han. «Yuan Shisheng avrebbe compiuto quest’anno ventidue anni. Tibetano, era nato nella contea di Kangding, nella Prefettura autonoma tibetana di Ganzi nella provincia del Sichuan […]». Era questo l’inizio degli articoli che, nelle edizioni del 7 marzo 1988, la stampa cinese dedicava alla rivolta in corso. E poi ricostruiva, attraverso le parole di un compagno miracolosamente sopravvissuto, il tragico resoconto della violenza brutale subita dal giovane in questione, un poliziotto tibetano linciato da un gruppo di insorti. Morto in nome della difesa dell’ordine, dell’anti-separatismo e della patria. Era la stessa rivolta, quella del marzo 1988, ma con eroi diversi.

Il copione si sarebbe ripetuto vent’anni dopo, marzo 2008: i direttori e gli inviati delle testate hanno nuovi volti, ma le parole usate sono impressionanti per la somiglianza con quelle adottate nel 1988. E solo pochi giorni fa un’organizzazione pro-Tibet ha rilasciato un comunicato sull’atto di un monaco buddhista che sembra essersi dato fuoco mentre imbracciava una bandiera del Tibet e una foto del Dalai Lama. Tibetani che muoiono per mano di tibetani, assieme a cittadini han e musulmani, chi per una causa, chi per uno stipendio, chi alla ricerca di un avvenire, chi ignaro di tutto ciò. Ma tutti strumenti di quella propaganda che alza i toni e radicalizza la divisione. Perché se da una parte ci sono i fatti, dall’altra c’è l’errore e il falso.
I fatti si appellano all’oggettività della storia, ma se è vero che un evento accade e si svolge in un solo modo, la ricostruzione di quell’evento sarà sempre interpretazione, e quindi qualcosa di soggettivo. Se poi ci si mette la politica di mezzo, allora la storia diviene strumento che giustifica una posizione, quando non un mezzo per fabbricare una causa.

Il Dalai Lama lasciò il Tibet il 31 marzo del 1959, dopo quasi otto anni di collaborazione con le istituzioni comuniste cinesi, durante i quali accettò e promosse l’attuazione di alcune timide riforme del sistema sociale tibetano. Era questo il Fronte Unito, un compromesso ideologico che convenne alle due parti in causa: i comunisti cinesi si impegnavano a non sconvolgere l’ordine preesistente, accettarono il Dalai Lama e il suo governo teocratico, rispettarono l’unione tra politico e religioso, nonché la posizione di preminenza delle istituzioni buddhiste e aristocratiche per non mettere a rischio la stabilità della regione. Il Dalai Lama accettava invece la presenza militare cinese e riconosceva la sovranità del potente vicino sul Tibet, avviando una cooperazione con le autorità comuniste nel tentativo di tutelare la tradizione e l’identità culturale tibetana, ma conservando anche la posizione privilegiata delle elites.

La collaborazione degli anni cinquanta si sgretolò nel tempo a causa delle tensioni etniche fra han e tibetani, il cui contatto non era mai stato così stretto fino ad allora. Le agitazioni si diffusero dalle regioni orientali del Kham e dell’Amdo. Le due zone, etnicamente tibetane, avevano subito solo per brevi periodi l’autorità del governo di Lhasa, essendo organizzate attraverso strutture politiche locali. La divisione politica prescindeva però da una condivisione più ampia, che andava dall’ambito etnico a quello culturale-religioso fino a quello sociale, con una struttura che poneva in cima le aristocrazie laiche e soprattutto l’istituzione monastica, a scapito delle condizioni di vita estremamente povere della maggioranza della popolazione.

L’Accordo in 17 punti firmato nel 1951 riconobbe ufficialmente la sovranità cinese in Tibet. Il patto tra Lhasa e Pechino poneva le basi per l’istituzione di una Regione Autonoma Tibetana, in cui però non sarebbero rientrate le due regioni orientali, incorporate ad altre province cinesi e sottoposte a una transizione immediata al sistema socialista. La transizione voleva significare la soppressione di diseguaglianze e privilegi sociali. Mirava all’emancipazione delle classi soggiogate a vincoli di servitù alle istituzioni aristocratiche e monastiche. Tuttavia fu recepita e si tradusse nella realtà come un attacco irriverente ad istituzioni consolidate nel tempo e oggetto di devozione religiosa. L’opposizione che ne scaturì non fu tra oppressori e oppressi, ma tra han e tibetani, gli uni all’attacco della identità culturale dei secondi.

La rivolta fu iniziata dalle classe privilegiate private del loro potere; a volte queste obbligarono le classi subalterne a servire la loro causa. Ma il fenomeno si sviluppò a dismisura e, tramite l’afflusso di un alto numero di rifugiati e guerriglieri dell’est nel Tibet centrale, raggiunse Lhasa. Lì la ribellione assunse il carattere di una sollevazione popolare, che metteva insieme ricchi e poveri così come sfruttatori e sfruttati, tutti in difesa del simbolo del sistema tibetano, il Dalai Lama. La gente si radunò il 10 marzo davanti alla residenza estiva dell’autorità tibetana e la assediò per diversi giorni dopo che si era sparsa la voce sulla possibilità di un rapimento da parte dei comunisti cinesi. Dopo una settimana in cui la confusione e la tensione crebbero a dismisura, le elites tibetane scelsero infine la via dell’esilio. Alla fine di marzo il Dalai Lama e le autorità tradizionali, scortate dai guerriglieri tibetani, arrivarono al confine con l’India, dove l’Accordo in 17 punti fu ripudiato e il Tibet fu decretato un paese occupato. Quasi contemporaneamente, il 28 marzo, le autorità comuniste destituirono il governo di Lhasa, affidando i poteri al comitato preparatorio per l’istituzione della Regione Autonoma Tibetana e avviando le riforme socialiste. La sollevazione era stata stroncata in pochi giorni e finì in un bagno di sangue, le cui stime sono divenute uno degli infiniti oggetti di contesa fra le parti. Da allora, per cinquant’anni, le propagande indipendentista e anti-separatista si sono impossessate della questione tibetana, alternando periodi di maggiore apertura e negoziati (seppur privi di prospettive) a campagne di reciproca denigrazione, condotte, a seconda dei casi, in India e in Occidente o in Cina.

Il conflitto si consuma in ambiti differenti, dallo status del Tibet alla sua definizione geografica fino al suo ordine tradizionale. Riassumendosi e ruotando infine attorno al Dalai Lama. Le sue posizioni sono l’ago della bilancia, capaci di influenzare le menti dei tibetani. La sua carica è oggetto di contesa: da un lato richiama la funzione a capo di una società fondata sull’ineguaglianza e sull’ingiustizia sociale, dall’altro è simbolo e destinataria per eccellenza della fede di un popolo, che si identifica e si riunisce nella sua figura e nel suo culto.

Le propagande si accendono nel parlare del Dalai Lama. In Occidente non c’è persona che non conosca la sua immagine, in cui convergono ideali positivi come quelli della purezza, della compassione, della nobiltà di ideali o del coraggio. D’altro canto la dirigenza comunista evidenzia la funzione politica e la posizione sociale ricoperte in passato e ne proibisce la diffusione delle immagini. In Cina il Dalai Lama è solo un nome, un bersaglio delle campagne di denigrazione che i cinesi comuni non sanno neanche associare a un volto. Restano i tibetani, obiettivo primario delle due propagande, destinatari delle diverse letture, tutte assolutizzanti, dei fatti, della verità e dei numeri.