Lo aveva detto Deng Xiaoping: “qualcuno si arricchirà per primo”. E’ il grande paradosso dietro ai numeri cangianti del Pil cinese: nonostante l’invidiabile performance dell’economia cinese, quest’anno la forbice tra crescita nazionale e incremento salariale dei lavoratori migranti ha quasi raggiunto livelli record. Come rivela il coefficiente di Gini – termometro delle diseguaglianze di sociali – la fine della campagna contro la “povertà assoluta”, proclamata in pompa magna lo scorso novembre, ha coinciso con un nuovo incremento delle disparità economiche dopo otto anni consecutivi di declino.
Il problema è ben noto alla leadership. La soluzione si chiama “prosperità comune” (gongtong fanrong), termine che, secondo quanto ci spiega Yu Xiaohua, direttore del Research Centre for Poverty, Equity and Growth in Developing Countries presso la Georg-August-Universität Göttingen, implica da una parte la “riduzione della povertà relativa e della disuguaglianza di reddito”. Dall’altra l’espansione della classe media, quel segmento sociale con un reddito pro capite mensile di oltre 2.000 yuan (circa 260 euro) che nel 2019 rappresentava quasi un terzo della popolazione complessiva e che nei prossimi cinque anni dovrà raggiungere il 60% del totale.
Alcuni giorni fa la provincia meridionale del Zhejiang è stata scelta ufficialmente come zona dimostrativa della “prosperità comune”. Secondo il piano, entro il 2025, il Pil pro capite dei residenti dovrà raggiungere il “livello delle economie moderatamente sviluppate”, con “una struttura sociale contraddistinta per la maggioranza da una popolazione a reddito medio”. Primo passo verso la realizzazione, nel 2035, della “prosperità comune nel suo insieme”.
Pechino ha abbastanza chiaro come centrare l’obiettivo: si parla di “digitalizzare i servizi, riformare il sistema di redistribuzione del reddito, migliorare le politiche di integrazione urbano-rurale e promuovere l’uguaglianza dei servizi pubblici”. Sanità e istruzione in primis. Concretamente, secondo Yu, occorre “incrementare gli investimenti infrastrutturali e l’utilizzo dell’e-business nelle zone rurali per accrescere il valore aggiunto dei prodotti agricoli.” Poi abolire il sistema dell’hukou, che vincola il welfare al luogo di residenza penalizzando i migranti, e riformare il sistema tributario.
Il regime fiscale cinese è dominato da imposte regressive, con aliquote fisse indipendentemente dal reddito che gravano più pesantemente sui lavoratori a basso reddito. Fino a oggi gli appelli per l’introduzione di tasse progressive sulle successioni e la proprietà sono rimasti inascoltati. Stando ai dati ufficiali, mentre i finanziamenti statali nelle infrastrutture sono continuati a lievitare, il tasso di crescita dei trasferimenti di reddito netto alle famiglie è generalmente diminuito negli ultimi cinque anni.
Il progetto pilota fa espressamente riferimento alla necessità di migliorare l’allocazione del reddito. Come ci spiega Robert Walker, docente presso la China Academy of Social Management/School of Sociology della Renmin University di Pechino, questo significa “salari più alti (aumentando la produttività), un salario minimo più elevato (con la riduzione dei profitti o l’aumento dei prezzi) e sussidi salariali, come accade già in Europa e persino negli Stati Uniti.”
Non è un caso che la roadmap della gongtong fanrong si sovrappone alla “vision 2035”, il piano di medio termine, annunciato lo scorso autunno durante il quinto plenum del Partito, che punta a rendere la Cina una “grande nazione socialista moderna” entro il 2035. Stando alla Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma, promuovere la “prosperità comune è un compito arduo e di lungo termine”. Per questo serve “selezionare alcune aree pilota con condizioni relativamente sufficienti”, secondo quel tipico approccio gradualista che nelle ultime quattro decadi ha visto la leadership sperimentare nuove politiche su base locale e – in caso di successo – estenderle su scala nazionale. Quello che succede oggi nel Zhejiang, potrebbe succedere domani nel resto del paese. Ecco perché va tenuto d’occhio.
Perché proprio il Zhejiang?
La provincia si trova nel delta del fiume dello Yangtze, il cuore della cosiddetta “doppia circolazione”, la nuova strategia economica con cui Pechino punta a rafforzare il mercato interno (leggi: consumi), riducendo la propria dipendenza dalle importazioni di prodotti strategici. Soprattutto il Zhejiang è la provincia con meno disparità di reddito tra residenti rurali e urbani. Nel 2020 il Pil locale ha raggiunto i 6,46 mila miliardi di yuan, mentre il reddito pro capite disponibile è 1,63 volte la media nazionale, e nelle zone urbane è rimasto il più alto tra tutte le province cinesi per vent’anni di seguito. Un primato che nelle campagne rimane incontestato addirittura da trentasei anni. Insomma, il Zhejiang è vicino al traguardo.
In un recente discorso alla Scuola Centrale del Partito, il presidente Xi Jinping ha definito la “prosperità comune” non solo un obiettivo economico, ma anche “una questione politica di importanza cruciale per il governo del partito”. Pure in questo il Zhejiang ha qualcosa da insegnare. Lo dimostra il riferimento all’ “esperienza di Fengqiao”, il distretto provinciale che nel 1963 dichiarò guerra agli “elementi reazionari” inaugurando una forma di controllo popolare esercitata direttamente dalle masse. Il suo ritorno nei comunicati ufficiali sembra confermare la consapevolezza che le diseguaglianze economiche possono compromettere il mantra della stabilità sociale.
“Ma il Zhejiang non il luogo ideale per un esperimento”, suggerisce Walker, “la provincia è stata scelta perché è una delle aree più ricche della Cina, con un’economia paragonabile a quella dell’Olanda e un Pil pro capite pari quello della Polonia. Lo sviluppo della provincia è ragionevolmente equilibrato tra aree urbane e rurali. Ha una buona copertura sanitaria, una discreta istruzione e un sistema integrato di assistenza sociale. Ciò che le altre province cinesi devono imparare è piuttosto come il Zhejiang è diventato quello che è oggi, non quello che sarà in futuro.”
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.