I dati negati sull’economia cinese si susseguono e la parola crisi inizia a circolare. Il modello di sviluppo della Repubblica popolare può ancora reggere? Colloquio con Michele Geraci, professore di finanza alla Zhejiang University e all’università di Nottingham.
Si susseguono i dati negativi che riguardano l’economia cinese, cosa che fa pensare a una crisi dell’intero modello di sviluppo più che a un rallentamento dovuto solo alle mancate commesse dagli Usa e dall’Europa.
Per avere un quadro complessivo della situazione, facciamo il punto con Michele Geraci, responsabile per la Cina del Global Policy Institute, professore di finanza alla Zhejiang University e all’università di Nottingham.
Domanda secca: la Cina è in crisi?
Sicuramente c’è un rallentamento della crescita che nei prossimi anni potrebbe attestarsi addirittura sul 3-4 per cento. In teoria, una crescita così bassa per le necessità della Cina significherebbe crisi. Ma d’altra parte, proprio per i paradossi intrinsechi a questa crescita finora così accelerata, un calo del Pil potrebbe consentire un ribilanciamento dell’economia troppo incentrata su investimenti ed export.
Ci sono segnali che questo ribilanciamento sia già in corso?
Dagli anni in cui contava per il 9-10 per cento del Pil, l’export è arrivato l’anno scorso al 2,5 per cento. Quest’anno potrebbe addirittura registrare segno negativo. Quindi sull’economia aggregata cinese conta davvero poco. Il problema è che conta ancora moltissimo per alcune province: Zhejiang, Fujian, Shandong, Jiangsu, Guangdong. Per queste province conta fino al 20-25 per cento, mentre le altre sono soprattutto importatrici.
Il problema è che questo allontanamento dall’export non è volontario, bensì forzato. Lo dimostra il fatto che al calo dell’export non corrisponde un parallelo aumento dei consumi interni, la cui crescita resta inferiore al Pil. Sono gli investimenti a essere costantemente cresciuti più del Pil, il che significa “bolla”.
Facciamo il punto sulla famosa bolla cinese.
Se fossimo in un’economia normale sarebbe già esplosa. Ma dato che la Cina è 50 per cento economia di mercato e 50 per cento economia pianificata, il governo è in grado di gestirla agendo politicamente sui tassi d’interesse e sui depositi bancari.
Oltre a quella immobiliare, per bolla che cosa si intende?
È una bolla di sistema. L’economia cresce più dei consumi, il che significa che la ricchezza si concentra nelle mani delle corporation e il cittadino medio non percepisce la crescita come dovrebbe. In buona sostanza aumenta il divario sociale, perché le risorse finiscono nelle mani di una minoranza di imprenditori. Un divario che non è solo tra i più ricchi e i più poveri, ma anche tra città e campagna. Per il sistema economico complessivo, dato che il cittadino medio non fa soldi, i consumi non possono salire.
È uno dei vantaggi del socialismo: se la ricchezza è spalmata, il consumo medio sale. Quando invece è concentrata, come nella Cina di oggi, non sale. Da un lato c’è la moglie dell’imprenditore, che può avere le mani bucate quanto vuoi, ma è difficile che si compri cinquanta borse Prada; dall’altro, ottocento milioni di persone che non se ne comprano neanche una. Se la ricchezza fosse più diffusa, più persone potrebbero comprarsela, quella borsa.
Prada per tutti?
Prada o un finto Prada, ognuno al suo livello. Ma comunque i consumi interni crescerebbero di più.
C’è poi il problema del credito.
I tassi non sono decisi dal mercato, ma dalla Bank of China, che li tiene bassi, 3 per cento per quelli passivi e 6 per quelli attivi, mentre il Pil cresce di più. Anche questo favorisce le aziende rispetto ai cittadini, perché le aziende prendono soldi in prestito – sono borrower – mentre i cittadini danno i propri risparmi alle banche – sono lender. Dato che i cittadini si trovano con risparmi dai tassi d’interesse praticamente negativi – perché ti danno il 3 mentre l’inflazione cresce del 4-5 per cento – migrano verso il cosiddetto sistema bancario sotterraneo, con tassi d’interesse più alti. In pratica, l’attuale sistema bancario reprime la ricchezza dei cittadini.
D’altra parte, siccome le banche devono prestare soldi a un tasso deciso politicamente e basso, del 6 per cento circa, fanno volentieri a meno di concedere prestiti e finiscono per penalizzare soprattutto le piccole e medie imprese private, quelle per cui non hanno l’obbligo politico di credito. Tutto resta in famiglia: il governo decide i tassi e le banche controllate dal governo concedono i prestiti alle grandi imprese, pure loro controllate dal governo. Finisce che anche i piccoli imprenditori si rivolgono al mercato sotterraneo, che spesso sfocia nell’usura.
Che vie d’uscita possibili ci sono?
Il governo dovrebbe trasferire ricchezza dalle imprese alla popolazione. Per fare questo, dovrebbe convincere le grandi aziende a rinunciare alle vacche grasse. Questo provoca un conflitto.
Il paradosso consiste nel fatto che, finché la crisi è lontana, il ribilanciamento non può avvenire perché la parte più forte, le aziende, si rifiuta di devolvere parte dei propri profitti al sistema complessivo; se invece la crisi fosse imminente, le aziende stesse avrebbero interesse a rinunciare a qualcosa per non rischiare di assistere al crollo del sistema e perdere di più. Finché lo spettro non si avvicina, le grandi imprese di Stato e gli interessi particolari a esse collegati continueranno a tirare acqua al proprio mulino.
*Gabriele Battaglia e’ stato corrispondente da Pechino per "PeaceReporter" ed "E-il mensile". Ha cominciato come web-giornalista e si e’ misurato poi con diversi media e piattaforme. In una vita precedente, e’ stato redattore di Virgilio.it e collaboratore di un certo numero di testate sui piu’ disparati temi: dalla cultura alla divulgazione scientifica, passando dai trattori e dalle fotogallery su Britney Spears. E’ autore, con Claudia Pozzoli, del webdocumentario "Inside Beijing". Oltre che la Cina e l’Oriente in genere, gli piace l’Artico, sia per interesse giornalistico sia per il clima. Non ha ne’ l’automobile ne’ la Tv e ogni tanto si fa male cadendo in bicicletta. Vive tra Pechino e Milano.