Xinjiang, questo sconosciuto. A quasi quattro anni dalla rivolta di Urumqi del 2009, un silenzio irreale occulta la regione più grande della Cina. A romperlo ci pensa Ma Zhifang, blogger impegnato nella lotta per il rispetto dei diritti costituzionali delle minoranze. Di passaggio a Kuytun
Quel pomeriggio, il nostro gruppo, composto da quattro persone, raggiunse la contea di Kuytun, uno dei maggiori centri di produzione di cereali, cotone e petrolio di tutto lo Xinjiang […].
An Wa’er, nativo di Kuytun, ci aspettava nel luogo convenuto. Era un compagno di studi di mio figlio e si è laureato a Pechino, presso l’Università cinese del petrolio. Nel 2002, all’età di diciassette anni, aveva lasciato Kuytun per studiare a Hangzhou, presso un istituto superiore speciale per ragazzi dello Xinjiang.
Una volta, in occasione del Ramadan, mio figlio mi telefonò per chiedermi se poteva invitare a casa nostra un compagno di studi uiguro per le ultime settimane delle vacanze estive. Dopo qualche giorno An Wa’er giunse dallo Xinjiang a casa nostra, portando alcuni prodotti tipici locali comprati alla stazione di Turfan.
Si fermò a casa nostra per una decina di giorni, trascorrendo con noi il Ramadan, osservando insieme a noi il digiuno e recandosi regolarmente, per cinque volte al giorno, alla moschea vicino casa. A parte questo, si chiudeva nella piccola stanza di mio figlio, dove consultava tranquillo le sacre letture islamiche redatte in cinese.
Prima di iniziare l’università sapeva poco o niente dell’Islam. Mio figlio può essere considerato il suo mentore; nel tempo libero approfondivano insieme la loro conoscenza dei principi religiosi. An Wa’er partì praticamente da zero. Dopo tre mesi iniziò a praticare; studiava l’arabo nel fine settimana e studiava a voce alta il Corano. Mio figlio ricordava: «Io avevo il sonno pesante e spesso non mi alzavo per le preghiere della mattina. An Wa’er viveva nel dormitorio di fronte al mio e veniva sempre a svegliarmi».
Alla fine delle vacanze si preparò per rientrare a Pechino, scusandosi ripetutamente per il ‘disturbo’ arrecatoci durante questo Ramadan. Mise la mano destra sul petto e ci invitò tutti a Kuytun quando avremmo avuto il tempo per fare un viaggio nello Xinjiang. Un giorno dopo la sua partenza, all’imbrunire, mio figlio mi disse all’improvviso: «Se non fosse venuto a casa nostra sarebbe stato difficile per lui praticare durante il Ramadan; i suoi genitori hanno molte aspettative in lui e temevano che osservare il Ramadan a Kuytun potesse avere conseguenze negative per il suo futuro».
Successivamente, il Dipartimento dell’istruzione e altri unità amministrative di Kuytun avrebbero promosso, con alcuni insegnanti in pensione, la firma di un “impegno a non prendere parte ad attività religiose”. Malgrado ciò fosse in aperto contrasto con le disposizioni del trentaseiesimo articolo della Costituzione, nello Xinjiang, incredibilmente, non vennero presentate resistenze.
Notte al villaggio
Passate le nove di sera –ora di Pechino- ci fermammo a Baijiantan, un villaggio nei pressi di Karamay.
Mangiammo allegramente la cena in un ristorante elegantemente decorato e con un’atmosfera calorosa; il personale uiguro in uniforme offrì un servizio premuroso e rimanemmo soddisfatti delle nostre scelte: prendemmo spaghetti in salsa di soia, misto di tendini, pilaf e qualche verdura, con il tè offerto dalla casa.
Dopo essere rientrati in albergo, ci sedemmo tutti e cinque sul tappeto e cominciammo a bere del tè. Chiedemmo a An Wa’er come andasse il lavoro. Aggiustandosi il copricapo uiguro ci spiegò che a Pechino si era sempre recato agli incontri con le aziende presso la sua università; nel tempo, aveva anche scritto in cinese undici lettere di presentazione per trasmetterle con rispetto ad aziende che offrivano lavoro, specialmente a quelle dello Xinjiang. Non venne selezionato, neanche dalle aziende dello Xinjiang. Non riuscì a farsi una ragione di come le aziende petrolifere di casa sua non fossero interessate a un uiguro.
La figlia di un altro mio amico uiguro si è laureata in una università di telecomunicazioni. Le aziende in cerca di dipendenti davano giusto un’occhiata al suo curriculum e aggiungevano un rifiuto. Mi disse che i suoi compagni universitari, con la sua stessa specializzazione ma di etnia han, erano stati tutti assunti da aziende del settore. In seguito, fece un esame e finì a insegnare in una remota scuola elementare di Tianshan, gettando così al vento quattro anni di studio nelle telecomunicazioni.
Un giorno, un gruppo petrolifero americano con sede in Cina si rivolse all’università in cerca di personale. An Wa’er si mise a preparare una lettera di presentazione in inglese. Dopo una settimana fu contattato per un colloquio. Era stato selezionato. Ma i suoi genitori erano già anziani, le sue tre sorelle maggiori si erano già sposate e avevano lasciato casa, così i genitori non accettarono che il loro unico figlio andasse fino a Tianjin per lavorare. È difficile disobbedire a un padre. An Wa’er aveva chiesto cinque giorni di ferie e da Pechino era tornato a Kuytun, per ritentare la fortuna nei campi petroliferi di Karamay. Dei rappresentanti dei campi di Karamay erano già stati a Pechino e avevano scartato la sua candidatura dicendo che volevano dare la priorità a persone residenti nella zona. Alla fine anche quella volta non lo assunsero.
«Prima sarei dovuto andare in quell’azienda americana, starci qualche anno e poi ritornare a Kuytun, prendermi cura dei miei e rimettermi a studiare per fare qualcosa nel commercio», ci disse stringendo i pugni con imbarazzo.
Oggi ha lasciato il gruppo americano per andare a specializzarsi presso una prestigiosa università straniera con l’intenzione di farsi strada all’estero. Sa che in futuro non avrà ancora prospettive di lavorare nel suo settore nella sua terra natale.
Nel primo mattino, la cittadina di Baijiantan, sul Gobi, è ancora tranquilla. Dopo la preghiera del mattino si è fatto giorno. Ci separammo da An Wa’er con una stretta di mano e proseguimmo noi quattro alla volta di Altay.
Quando la vettura si mosse, vidi ancora attraverso il finestrino An Wa’er, sul bordo della strada nel freddo vento invernale. Era lì, in piedi, sembrava seguirci con lo sguardo. Non agitò le mani e in un attimo uscì dalla nostra visuale.
[L’intero post è su Caratteri Cinesi. Traduzione di Mauro Crocenzi. Foto: Gabriele Battaglia]*Ma Zhifang è originario della regione del Gansu, una delle aree con maggiore concentrazione di musulmani in Cina. Si batte contro la discriminazione delle minoranze etniche, una chiara violazione dei principi di uguaglianza e libertà affermati dalla costituzione cinese. Il suo blog, Green Flag, dà voce alla difesa dei diritti dei cittadini musulmani han e uiguri, ed è impegnato nella tutela dell’uguaglianza etnica.