Seconda puntata del racconto di Han Song, in cui un uomo che prende il solito treno alla solita ora si trova improvvisamente scaraventato in un universo allucinato. L’ultimo treno, scritto negli anni Novanta, rappresenta l’irruzione della fantascienza nella vita quotidiana dei cinesi. Un genere adatto a interpretare sconvolgimenti e inquietudini del grande Paese in trasformazione. La prima parte
Non sapeva quanto tempo fosse trascorso…
All’improvviso una luce. Una piattaforma! Sì, una piattaforma! Il treno si fermò con un gran fragore.
Smise di piangere e si guardò intorno, in allerta. Era indubbiamente una piattaforma, si trattava oltretutto di una stazione di cambio che conosceva bene. Solitamente era la più affollata, ma in quel momento era completamente deserta. Per arrivare lì dalla fermata da cui era salito, in condizioni normali sarebbe passato da cinque stazioni e avrebbe impiegato venti minuti. Questa volta però il tempo di percorrenza era stato decisamente superiore, a dirla tutta, forse ne aveva già passate più di una decina.
Mentre cresceva lo spavento legato a quelle considerazioni, la porta del treno si aprì cigolando.
Non c’era tempo per riflettere sull’accaduto: si precipitò fuori, senza curarsi dei passeggeri che stavano ancora dormendo sulla carrozza.
Il treno, fermo lungo la piattaforma come un serpente, sembrava non essere mai stato in grado di muoversi. Le porte si aprirono tutte; a parte lui però, nessuno corse fuori, incluso il conducente.
La piattaforma non rivelava niente di strano rispetto al solito.
Nonostante stesse attraversando di corsa la sala d’attesa deserta, riuscì comunque a notare che l’orologio a muro era fermo all’esatto istante in cui era salito sul treno.
Facendo due scalini alla volta prese la rampa di scale che portava all’uscita della metropolitana.
Lungo la strada vide le porte della biglietteria, dell’ufficio del capotreno e dell’ufficio della sicurezza; aperte o chiuse che fossero, i locali erano deserti, come se tutti fossero scappati prima di una catastrofe improvvisa.
A quanto pareva, era l’ultimo uomo rimasto sulla terra.
Raggiunse ben presto l’uscita. Si fermò e si guardò indietro: nessuno lo stava seguendo.
A quel punto, però, notò che il passaggio era impedito da un cancello di ferro. Di notte l’accesso alla metropolitana doveva restare chiuso.
Afferrando le sbarre fredde come il ghiaccio, guardò fuori: all’esterno, le luci della città scintillavano ancora intensamente come se la mezzanotte fosse appena passata. Sulla strada i veicoli andavano e venivano come miraggi. Non vedeva passanti.
Il mondo era ancora come era sempre stato; tirò un sospiro di sollievo.
Toccandosi si rese conto di aver recuperato la propria corporeità. Le lacrime che gli rigavano il volto si erano asciugate; poco prima aveva pianto davvero, si era reso ridicolo.
Solo uno strato sottile lo separava da ciò che apparteneva al suo mondo, ma poteva solo annusarne l’aria, che si era ormai fatta gelida. Pensò alle centinaia di persone che stavano ancora dormendo profondamente nel treno sotto di lui, e rabbrividì.
Si guardò indietro ancora una volta: come prima non c’era nessuno, e il suo corpo fu nuovamente scosso da un tremito innaturale.
Lanciò un “ehi!” rivolto alla città, senza osare alzare la voce, ma continuando a sperare che qualcuno, trovandosi nelle vicinanze, potesse notare la sua presenza.
In quel momento però nessuno passava di là, e naturalmente era improbabile che lo notassero gli automobilisti di passaggio.
A un certo punto gli parve di sentire dei movimenti sulla piattaforma sottostante, come un suono di passi.
Esitò un attimo, poi ridiscese le scale.
Vide di nuovo la piattaforma. Il lungo treno era ancora fermo nello stesso punto, tuttavia delle persone stavano uscendo dalle porte.
Non si trattava di passeggeri, ma di altra gente. Molto bassi, indossavano una tuta grigia ed avevano il volto coperto; stavano trasportando svelti qualcosa dall’interno all’esterno del treno. Spaventato, si nascose dietro a un pilastro, poi spinto da una curiosità irrefrenabile, si mise a osservarli di nascosto.
Quegli strani omuncoli non erano più alti di bambini di dieci anni. A causa dei volti coperti era impossibile distinguerne i tratti. Organizzati in gruppi da due trasportavano i passeggeri addormentati sollevandoli uno per le braccia, l’altro per le gambe; dopo averli portati fuori, li infilavano in una grande bottiglia di vetro piena di liquido, portata con fatica sulle spalle da uno dei due sotto la supervisione dell’altro. Scendevano poi sui binari e, seguendo le rotaie, si incamminavano verso le profondità del tunnel. Allo stesso tempo, altri omuncoli emergevano dal tunnel portando sulle spalle bottiglie vuote, salivano sulla piattaforma e andavano a unirsi alla processione.
Immobile per non emettere suoni, si sforzò di non svenire.
Quegli strani esseri però non lo notarono e il trasporto continuò ancora a lungo, finché ad un certo punto, cessò. Si allontanarono seguendo i binari, e sulla piattaforma fu ristabilita la tranquillità.
Attese ancora, finché il suo istinto non gli disse che non sarebbero più tornati. Poi non riuscì a trattenersi dall’andare di nuovo sulla piattaforma.
Ispezionò il treno e si rese conto che le carrozze erano completamente vuote: non vedeva neppure i bagagli dei passeggeri, fatta eccezione per un oggetto che notò in un angolo della carrozza.
Lo raccolse: era un documento d’identità. A giudicare dalla foto apparteneva al giovane che aveva toccato poco prima.
Si mise in tasca il documento e trottò verso l’uscita della metropolitana.
L’uscita era ancora chiusa.
Aspettava nervosamente che qualcuno passasse da lì, e alla fine qualcuno arrivò.
Lanciò un grido che fece sobbalzare quell’uomo: nel vedere il suo volto, terrificante al di là delle sbarre di ferro, emise un “Ah!” di terrore e scappò via.
Il secondo a passare da lì fu un ubriaco che, al contrario, non aveva affatto paura di lui, e gli si avvicinò per esaminarlo come se stesse guardando un animale. Farfugliando, lui gli descrisse ciò che aveva visto con i propri occhi, cosicché andasse a riferirlo alla polizia.
“Hai bevuto, hai bevuto troppo”, gli disse l’ubriaco ridendo e puntandogli contro un dito.
“Per favore, amico, va’ a chiamare qualcuno.”
“E come faccio ad uscire?”
L’ubriaco si trovava dall’altra parte del cancello e pur trovandosi fuori dalla stazione, si comportava come se si trovasse al suo interno; poi si allontanò barcollando, ignorando le flebili grida che si lasciava alle spalle.
Nessun altro passò di lì. Restò in attesa, trepidante, ma la città era sempre più pervasa da un silenzio tombale. Finì per addormentarsi.
Quando si svegliò intorno a sé trovò schiamazzi di gente e il cielo attraversato da raggi di luce che già si spandevano nell’atmosfera. Una marea di persone, affrettandosi per prendere la prima corsa della metropolitana, si agitava a poca distanza da lui.
Il suono dei passi sulle scale sembrava una serie ininterrotta di percussioni, tutto lo spazio circostante era pervaso da questo ritmo. Non sapeva a che ora le porte metalliche fossero state aperte, né da chi, e questo lo confuse di nuovo.
Era dunque quella la vita? Ma allora, la notte prima di cosa si era trattato?
Se c’erano due mondi, qual era il più reale?
Starnutì: durante la notte aveva preso freddo.
Pensò che avrebbe potuto camminare lungo la strada, ma finì per scendere ai binari seguendo il flusso di persone.
Non riusciva a credere ai suoi occhi, la piattaforma silenziosa aveva riacquistato la solita rumorosità. Dall’edicola la gente si accaparrava giornali di ogni genere, e anche di fronte al chiosco del pane si era accalcata una marea di persone. Era già passato parecchio tempo dall’ultima volta che aveva preso la prima corsa del mattino, non si aspettava tutte quelle persone. Nonostante gli intervalli di attesa tra un treno e l’altro fossero brevi, era sempre molto affollato.
Sulla piattaforma, le lancette dell’orologio avanzavano implacabili.
Come in un sogno si ritrovò sul treno schiacciato dalla folla. Nell’afferrare il corrimano, di proposito vi si tenne con forza.
Nella carrozza, uomini e donne erano pressati gli uni agli altri e nonostante gli abiti invernali, la sensazione del contatto fisico era tangibile. L’eccessivo calore biologico produceva un odore nauseabondo: poteva sentire lo strano tanfo emanato dai capelli dell’uomo al suo fianco, lui sapeva che i suoi odoravano allo stesso modo. Schiacciate in metropolitana al mattino presto, c’erano solo persone comuni. Da diversi giorni non si lavava, e probabilmente molti altri come lui.
Sapeva che ognuno aveva la propria destinazione e le proprie preoccupazioni, per questa ragione, escluso il rombo della metropolitana, non si udivano suoni.
Si sorprese a provare una solitudine mai sperimentata. Se in quel momento avesse voluto rivelare loro i pericoli della metropolitana, l’avrebbero senz’altro deriso; l’idea di lanciare l’allarme sembrava impraticabile.
Nonostante le luci della carrozza fossero accese e all’esterno del treno fosse ancora buio, risentiva già della pressione diurna, che rifluiva attraverso il suolo sopra la sua testa; questa sensibilità era una prerogativa dei veterani dell’ultima corsa.
In quel momento si rese conto di essere salito sul treno diretto al lavoro, tuttavia sarebbe dovuto tornare a casa. Il convoglio si fermava ad ogni stazione e di volta in volta cambiavano i volti dei passeggeri; poco dopo avevano già raggiunto la fermata da cui era salito la notte precedente.
Si allontanò dalla piattaforma, tirò un sospiro di sollievo, e vide l’insegna pubblicitaria della Coca Cola che, come prima, scrutava tutto con disdegno; il neon, tuttavia, era già spento. La sua bicicletta era ancora parcheggiata nello stesso punto.
Non c’erano altre destinazioni possibili: l’inforcò dirigendosi al lavoro – quel luogo che anno dopo anno gli forniva l’abbonamento mensile per la metropolitana – .
2.continua
[Il racconto è anche su Caratteri cinesi. Traduzione di Chiara Cigarini]*Han Song nasce a Chongqing all’alba della Rivoluzione culturale, nel 1965. Si laurea nel 1991 a Wuhan in giurisprudenza, dopo aver preso una laurea di primo livello in lettere, specializzazione giornalista. Ancora giovane entra nell’agenzia di stampa nazionale cinese Xinhua, dove ricopre incarichi di sempre maggiore responsabilità. La sua produzione giornalistica si focalizza sulla cultura e sui trend sociali cinesi. Sin dagli anni degli studi universitari coltiva un amore per la fantascienza, dedicandosi alla scrittura di diversi racconti e ottenendo riconoscimenti dai circoli letterari sia della Cina continentale sia di Taiwan. Ha scritto diversi romanzi e raccolte di racconti. E’ considerato scrittore eclettico: "Il bordo abnorme" è il nome del suo blog, attivo dal 2005, dove raccoglie diversi scritti, riflessioni e poesie, brevi saggi e scritti d’attualità.