Caratteri cinesi – L’Egitto visto da Pechino

In by Simone

Sono passati due anni dalla “primavera araba”. Le ripercussioni in Cina furono limitate, anche se i facili parallelismi si sprecarono. Oggi la Cina guarda con maggiore distacco ai fatti in Medio Oriente. La traduzione che proponiamo questa settimana è un estratto di un articolo del giornalista Chen Jibing, pubblicato lo scorso agosto sul Nanfang dushi bao. […]

A più di due anni dall’esplosione della “rivoluzione araba”, la maggioranza dell’opinione pubblica seria cinese spiega i fatti che hanno sconvolto l’Egitto con la dicotomia “governo religioso vs governo laico”. Naturalmente non si tratta di una prospettiva infondata. Tuttavia, da quanto ho letto, può essere tutt’al più una delle numerose chiavi di lettura della complessa questione egiziana e mediorientale, motivo per cui è tutt’altro che soddisfacente. Dopo la sua entrata in scena, l’Associazione dei fratelli musulmani ha realmente adottato delle politiche islamiste, provando anche a strizzare l’occhio alla corrente estremista islamica dei salafiti. Tuttavia, questo non è sufficiente per concludere che intende ripristinare un governo religioso contro il principio di laicità dello stato. Per questo motivo, piuttosto che pensare che Morsi e il suo partito stiano facendo del loro meglio per attuare un processo di islamizzazione dell’Egitto, sarebbe il caso di affermare che la paura e lo scetticismo della gente sono ispirati da una tradizione ideologica dura a morire. E che il timore nei confronti dell’Associazione dei fratelli musulmani e dei gruppi ancora più estremisti abbia di gran lunga amplificato gli intenti religiosi che agiscono all’ombra delle loro iniziative politiche.

Continuando ad analizzare la politica egiziana e mediorientale attraverso la semplice dicotomia tra religiosità e laicità, ci ritroveremo tristemente in un vicolo cieco. È la stessa logica sostenuta costantemente da dittatori mediorientali del calibro di Mubarak e di Bashar al-Asad: senza il loro regime oppressivo, il potere militare cadrebbe inevitabilmente nelle mani di radicali mullah dalle ristrette vedute e ben attivi nelle moschee. Da molti anni questi dittatori riescono a far credere all’Occidente e al mondo intero che nel mondo arabo non è possibile percorrere la via delle riforme democratiche, perché la democratizzazione potrebbe permettere agli islamisti di ottenere il potere e di attuare quindi un voltafaccia, sopprimendo il moderno pluralismo politico. In parole povere, la democrazia potrebbe lasciare l’intero Medio Oriente alla mercè degli estremisti islamici, che farebbero ritornare il mondo arabo al Medio Evo, rendendolo nemico dell’Occidente e del resto del mondo.

Il dramma che si è consumato nel 1979 in Iran sembra dimostrare la loro visione profetica, tanto da gettare nel panico il mondo occidentale –in primis gli Stati uniti- e costringerlo a un patto “faustiano” con i dittatori arabi. Per il governo egiziano, lo spettro dell’estremismo islamico è divenuto il pretesto per proclamare a più riprese lo stato di emergenza a partire dal 1981 e, contemporaneamente, per giustificare l’attuazione di arresti illegali e trattamenti inumani.

In realtà, allo stato attuale delle cose, se è vero che esiste il rischio concreto di una presa del potere da parte del fondamentalismo, è ancor più realistico il seguente scenario: è proprio la pressione esercitata nel lungo periodo dai regimi a far sì che la profezia dei dittatori arabi possa realizzarsi, poiché le dittature hanno distrutto lo spazio per un normale sistema e per la vita politica nel mondo arabo, creando le condizioni favorevoli e i germi per la prosperità del fondamentalismo. Chi intende opporsi non ha praticamente scelta se non quella di rifugiarsi nelle moschee e nelle scuole coraniche, mentre la popolazione povera e ignorante trova conforto solo nel Corano e nella storia. D’altro canto, le organizzazioni religiose che sono rappresentate dall’Associazione dei fratelli musulmani sanno davvero bene come contendere ai governanti il favore popolare, grazie a un’estesa rete di assistenza sociale.

In questo momento l’Egitto è a un bivio. Può scegliere se volgersi al modello turco (una moderna società democratica fondata sul pluralismo) o ritornare all’epoca di Mubarak (una dittatura militare ad alta pressione), o –ancora- se procedere verso il modello iraniano (un governo religioso di natura islamica). La scelta ovviamente dipenderà dalla popolazione egiziana e dalle tre principali forze politiche attive in Egitto: l’esercito, gli islamisti radunati intorno all’Associazione dei fratelli musulmani e la fazione liberale laica. Tuttavia, anche gli Stati uniti e gli altri paesi occidentali potrebbero ricoprire un ruolo di primo piano.

Tra i grandi stati, l’Egitto è secondo solo a Israele per aiuti ricevuti dagli Stati uniti, un supporto di gran lunga superiore persino a quello ricevuto dopo l’11 settembre dalla coalizione anti-terrorismo in Pakistan; gli Stati uniti si sono basati a lungo su un rapporto di 3:2 nell’assegnazione di aiuti da destinare a Israele ed Egitto. Anche se negli ultimi decenni questa proporzione ha subito delle fluttuazioni, allo stato attuale gli aiuti si aggirano intorno a una cifra annuale pari a un miliardo e seicento milioni di renminbi. Di questa somma, un miliardo e trecento milioni sono destinati esclusivamente all’esercito. Stando ad alcune statistiche, questi soldi corrispondono al quaranta-cinquanta per cento delle spese militari egiziane. Da questi dati è evidente il potere d’influenza degli Stati uniti sull’esercito egiziano.

In realtà, gli Stati uniti non hanno mai interrotto i contatti con l’esercito egiziano. Stando ad alcune notizie, dopo i fatti del 3 luglio, il Ministro della difesa americano Hagel si è mantenuto costantemente in contatto con il capo dell’esercito egiziano al-Sisi. L’esercitazione militare congiunta “Bright star”, che si svolgerà nel prossimo mese, viene organizzata una volta ogni due anni a partire dal 1981 e può essere considerata la pietra miliare delle relazioni tra Stati uniti ed esercito egiziano.

Non servono altri giri di parole: la rivoluzione della primavera araba ha oramai completamente riscritto la mappa politica del Medio Oriente, l’Occidente non potrà più appoggiare, come ha fatto in passato, una dittatura militare che non gode del sostegno popolare. Dovrà assolutamente –poiché ne ha pure le capacità- esercitare maggiore pressione sull’esercito egiziano, oggi come oggi saldamente al controllo della situazione, e costringerlo a passare dal giusto lato della storia.

[L’articolo completo è su Caratteri Cinesi. Traduzione di Mauro Crocenzi]

*Chen Jibing è nato nel dicembre del 1967 a Shanghai. Ha ottenuto due lauree, una in ingegneria presso la Tongji University e l’altra in giornalismo presso l’Università Fudan di Shanghai. Nel corso della sua carriera ha lavorato per diverse testate cinesi, occupandosi di argomenti vari. Attualmente lavora allo Shanghai Business, ha uno spazio sull’Economic Observer e collabora con il settimanale on-line CoChina. È uno dei fondatori dell’Oriental Morning Post.