Caratteri Cinesi – Hotel Baiyin

In by Simone

Essere giovani in una piccola città industriale del deserto del Gobi, dove una pista da ballo è il crocevia di storie, sogni e pulsioni di ogni tipo. Il racconto e il ricordo di Zhang Weiwei, protagonista della scena rock cinese con con il gruppo degli Ye haizi (Ragazzi selvaggi).
Ai tempi delle medie, durante le vacanze, un mio compagno di scuola si recò in visita nella città natale della sua famiglia, nel Nord Est della Cina. Un giorno, sfortunatamente, fece un brutto incontro con dei teppisti. 

Gli bloccarono il passo e chiesero: «Di dove sei?»
Lui rispose: «Di Baiyin.»
Quelli sogghignarono: «Ci prendi per il culo? Te lo chiedo ancora una volta: da dove vieni?»
Il mio compagno ripeté: «Fratello, sono davvero di Baiyin»
Allora lo colpirono con un pugno: «Sei di Baiyin? Sei di Baiyin o anche di Huangjin?» [baiyin significa letteralmente “argento”, huangjin “oro” ndt].

Il mio compagno di classe era davvero di Baiyin, anch’io vengo da lì. Baiyin è una piccola città industriale. È nel Nord Ovest della Cina, nel bel mezzo del deserto del Gobi. La definizione più appropriata per descrivere questa città l’ha data un’amica straniera, che nutriva il desiderio ardente di percorrere le leggendarie terre dell’Ovest. Una volta, qualche anno fa, sedevamo su un bus diretto a Baiyin e lei, guardando dal finestrino lo spazio sconfinato del Gobi, si immerse nel silenzio. Dopo un bel po’ si girò verso di me chiedendomi: «Ma vivi sulla luna?»

In questo angolo di terra, a 103° di longitudine Est e 35° di latitudine Nord, si trova la solitaria Baiyin.
Più di cinquant’anni fa, proprio su questo pezzo di Gobi, fu scoperta un’enorme miniera. Da allora, da ogni parte della Cina, molte persone arrivarono proprio lì: montarono una grande varietà di enormi macchinari e iniziarono a scavare ininterrottamente sottoterra. Scavarono nel desolato Gobi fino a illuminarlo a giorno e creare un incessante viavai di gente .
In quegli anni, la figura dell’operaio che si riversa nelle lande desolate, animato dall’ideale dell’edificazione dell’immenso Nord Ovest della patria, era di gran moda. A Baiyin, quelle persone misero radici e germogliarono. E noi eravamo i loro germogli.

L’hotel Baiyin inizialmente era un ostello pubblico, che dava ristoro a pionieri di ogni specie. All’inizio degli anni Novanta era passato in mano a privati e dopo i lavori di ristrutturazione divenne subito il migliore albergo della città. Il nostro legame con questo luogo nacque al primo piano, dove allora si trovava la sala da ballo. In un’epoca in cui non c’erano ancora molti posti per divertirsi, la sala da ballo con la sua insegna luminosa al neon aprì una breccia. Si riempì di giovani, come fosse l’entrata che portava dritta nel nuovo secolo. Chi non era in grado di muovere neppure due passi sarebbe presto diventato una persona sola.

Ogni sera, la gioventù delle fabbriche e delle miniere si levava le divise e si vestiva a festa per presentarsi puntuale all’hotel Baiyin. La pista da ballo, nel bel mezzo della sala, era come un fiume che divideva le persone su due sponde. All’inizio delle danze i ragazzi si riversavano in branco sulla sponda opposta, con una mano dietro alla schiena e una protesa verso la ragazza del cuore per dare un tono appropriato alla frase: «Ragazza, non farmi perdere la faccia!»
Per fare questo passo in realtà serviva una buona dose di coraggio. Le ragazze cresciute nel Gobi non danno molto peso alle smancerie e tutte queste mani protese dovevano essere ben pronte a sbattere contro un rifiuto di ghiaccio. Per questo, molti uomini restavano esitanti ai margini della pista tutta la notte e alla fine delle danze, per una questione di convinto amor proprio, non erano ancora riusciti a farsi avanti.

Ogni sera, gli unici che pur essendo sempre presenti non si immischiavano mai in questi affari terreni eravamo noi, i musicisti che suonavano sul palco. Il nostro compito era quello di suonare un pezzo veloce e vivace, se le persone avevano bisogno delle luci accese per guardare in faccia il proprio partner, o uno lento e toccante, quando era meglio che non ci fossero le luci per evitare che gli altri distinguessero le coppie in pista. 

L’anima del nostro gruppo era la tastiera. Veniva dal Giappone ed era uno di quei leggendari apparecchi che aveva la funzione “base automatica”: bastava toccare un tasto e tirava fuori chitarra, basso e batteria. Suonare così era molto semplice: il ritmo automatico dato dalla tastiera elettronica era la base su cui ognuno di noi attaccava il proprio strumento eseguendo a turno la linea melodica della canzone, un gioco da ragazzi.

Mentre suonava uno, gli altri stavano sul palco ad aspettare il proprio turno. A nessuno poteva venire in mente quanto fosse stupido esibirsi in questo modo, quando suonavamo eravamo tutti molto convinti e facevamo ognuno la propria parte come in uno stato di trance.
Più un luogo è desolato, meglio la musica viene accolta; questa è una verità che ha guadagnato il consenso unanime di tutti gli abitanti del deserto dei Gobi, di questa terra. Per questo motivo, a prescindere da quanto l’atteggiamento delle ragazze fosse risolutamente freddo, quando noi musicisti salivamo sul palco eravamo comunque accolti con affetto. I più calorosi sotto al palco si rivolgevano a noi con maggior fervore, perché in certi frangenti potevamo tornargli utili. Ad esempio prima di attaccare con un pezzo li aiutavamo dicendo al pubblico: «Cara, questa canzone è per te. Lui ti manda a dire che ieri sera siete andati a vedere un film, ma il film non era bello come te, tu sei fantastica. Più di un film.»

In una sala da ballo ad alta concentrazione di ormoni, praticamente tutte le sere potevano scoppiare risse di diversa entità. I poliziotti di zona capirono subito quale inesauribile fonte di noie potesse rappresentare questo posto, così non ci misero molto a piazzare un gabbiotto fisso all’ingresso dell’hotel, dove tutti i giorni mandavano un agente a tutelare l’ordine e a contenere le crisi ormonali. Comunque, anche con questo deterrente, gli scontri dovuti alle esplosioni ormonali non si arrestarono mai del tutto.

Normalmente, i ragazzi cresciuti nel Deserto del Gobi prima di fare a botte non hanno bisogno di scambiarsi troppe opinioni. Dopo avere reciprocamente scagliato i più semplici insulti, le due parti non perdono tempo e vengono subito alle mani. Ogni volta, quando scoppiava una rissa, lo staff che lavorava nella sala accendeva tutte le luci e aspettava l’arrivo degli agenti di polizia. Tra la gioventù, gli agenti del gabbiotto erano conosciuti come “quelli del governo”. Le persone che le buscavano durante gli scontri non avrebbero mai potuto vendere il proprio avversario, piuttosto dicevano di essere andati contro il muro inavvertitamente.
Era come quando nel Gobi scoppiava una tempesta di sabbia: le risse erano fiere ma brevi. Dopo una breve pausa tornavano di nuovo tutti in pista a ballare. Anche noi avevamo sviluppato la capacità di rimanere imperturbabili in caso di disordini: qualsiasi cosa accadesse sotto al palco, noi non potevamo interrompere il pezzo in esecuzione.
Dopo alcuni anni ho visto il film Titanic, c’era un punto in cui il gruppo musicale di bordo continuava a suonare anche quando la nave iniziava ad affondare. In quell’occasione, di fronte a una tale dimostrazione di autocontrollo nel nostro nobile lavoro, mi sono commosso versando lacrime calde!

Negli anni Novanta, da buon apprendista in una band di accompagnamento in una sala da ballo, me ne stavo sul palco con aria intontita ad aspettare il mio turno. Appese al soffitto, delle lampade colorate in vecchio stile liberavano luci che roteavano nella sala e illuminavano tutte le persone a intermittenza. Il tema instancabile della melodia era ancora in esecuzione, ma a poco a poco mi capitava di alienarmi dalla musica. Il tempo rallentava in modo incomparabile, era un po’ come se nessuno di noi si rendesse conto che tutti, assieme all’Hotel Baiyin, eravamo esposti all’erosione in questo pezzo di Gobi.

Una volta, nel bel mezzo delle danze, improvvisamente andò via la luce. La nostra tastiera rimase muta sul suo scaffale come un qualunque pezzo di ferro e gli animi cominciarono a surriscaldarsi. Il nostro leader fu costretto a tirare fuori una chitarra di legno mezza rotta dal backstage e iniziò a improvvisare. Da buon chitarrista di strada, finalmente si sbarazzò di quel gingillo giapponese che neanche lui era realmente in grado di padroneggiare. Alla luce di qualche candela intonò tutto il repertorio di canzoni d’amore strappalacrime della Taiwan e della Hong Kong anni Novanta.

Contro ogni aspettativa, gli ormoni si placarono e gli spiriti bollenti si calmarono; tutti cominciarono a cantare una canzone dopo l’altra di seguito al nostro leader. In quella triste notte in cui il Gobi rimase senza elettricità, nell’hotel Baiyin ci fu un gorgoglio sotterraneo, qualcosa di difficile da spiegare toccò gli animi di tutti i presenti. Quelle canzoni tristi  riempirono l’aria nella notte, tirando fuori frustrazione e insicurezze dai cuori di chi quella sera avrebbe dovuto ancora attraversare il Gobi per attaccare il turno di notte.
Le danze si erano chiuse ma nessuno intendeva andarsene via, si sedettero tutti sul bordo della strada davanti all’ingresso dell’hotel Baiyin per bere, suonare e continuare a cantare. Proprio quella sera la ciminiera della fonderia espelleva a intervalli regolari i gas di scarico accumulati. Il fumo denso giunto da lontano era come una fitta nebbia che ci avvolgeva seduti per strada. Eravamo tutti un po’ ubriachi e piano piano, guardandoci intorno, ogni cosa si fece sempre più indistinta.
C’era una persona che aveva bevuto troppo e che, circondata dal fumo denso, faceva avanti e indietro con fare agitato. Di fianco, seduto sulla strada, un giovane che raccontava tutta la storia dei dischi volanti a un gruppo di mocciosi. Quel giovane era Guo Long.

[L’intero pezzo è su Caratteri Cinesi. Traduzione di Mauro Crocenzi]

*Zhang Weiwei è, assieme a Guo Long, iniziatore di un genere musicale, il neofolk cinese (minyao o xin minyao), che ha caratterizzato la scena musicale indipendente soprattutto a partire dai primi anni Duemila. Il minyao è fortemente legato al fenomeno delle migrazioni dalle povere province del Nord Ovest alle grandi metropoli, su tutte Pechino, e mira al recupero della memoria attraverso il ricorso a immagini, strumenti e melodie tradizionali.