In termini assoluti, l’economia cinese rivaleggia con quella Usa. Ma se si considera la distribuzione del Pil, emerge una realtà in cui la diseguaglianza si è ormai fatta allarmante. Nonostante i passi da gigante degli ultimi trent’anni, ancora 200 milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà di un dollaro al giorno. La posizione della Cina nella classifica sull’Indice del capitalismo clientelare, pubblicata recentemente dall’Economist, è fuorviante. In termini assoluti, nessuna impresa – nemmeno nei settori emergenti – può scavalcare il governo e fare affari senza avere rapporti con le autorità o senza ottenere segretamente il loro sostegno e/o la loro protezione.
La previsione della Banca Mondiale secondo cui quest’anno il Pil della Cina, calcolato a parità di potere d’acquisto (Ppp), potrebbe superare quello degli Stati Uniti ha attirato l’attenzione dei media internazionali. Molti accademici ne stanno discutendo. Ma il rapporto pubblicato dall’Università del Michigan sulle diseguaglianze in Cina tra ricchi e poveri non ha ricevuto la stessa attenzione. Questo secondo rapporto ha evidenziato che l’indice di Gini in Cina era pari a 0,55 nel 2010. Così il divario tra ricchi e poveri ha già superato quello americano. Siamo il primo paese al mondo per disuguaglianze.
Certamente, il fatto che il Pil cinese possa superare quello statunitense è gratificante. Ma non tenere in considerazione la grave disuguaglianza economica del paese significa trarre conclusioni da dati incompleti. Nella migliore delle ipotesi, si avrà solo un’idea parziale di quella che è la situazione complessiva del paese. Per avere un quadro più completo, sebbene pur sempre approssimativo, bisogna analizzare entrambe le misure.
In realtà, anche se in base al metodo adottato dalla Banca Mondiale la Cina superasse gli Stati Uniti divenendo la prima economia al mondo, non ci sarebbe nulla da festeggiare. Senza contare che non è sufficiente tenere conto solo di questo “primo posto”: i dati statistici cinesi, infatti, sono solitamente molto annacquati. La qualità del Pil cinese non è elevata. Sulla base del Pil pro capite, la Cina si posiziona al novantanovesimo posto nella classifica mondiale, figurando ancora tra i paesi arretrati. Per questo alla Cina non piace questo primato.
Senza dubbio, il fatto che l’economia cinese superi quella americana – o che pur non superandola le si avvicini – non è privo di significato. Il peso di un grande paese nell’economia mondiale è definito soprattutto dalla dimensione assoluta del suo Pil, a prescindere dal suo valore pro capite. Questo è facilmente comprensibile. Ci sono molti paesi più piccoli che hanno un Pil pro capite elevato. Ma la loro influenza nell’economia mondiale è praticamente pari a zero perché, complessivamente, la loro economia non è grande.
Anche quando si parla di G20 o di G2 si fa riferimento alla grandezza in termini assoluti delle economie e non al loro Pil pro capite. Da ciò si deduce che la dimensione in termini assoluti di un’economia è più importante della sua misura pro capite. Sia che si adotti il metodo di calcolo basato sul potere d’acquisto, sia che ci si basi sui tassi di cambio, il fatto che l’economia cinese sia destinata a superare quella degli Stati Uniti in un futuro non troppo lontano, non va sottovalutato.
Ma, come già sottolineato, è un bene che la Cina non sia lusingata da questo primato. In questa fase, è un titolo gratificante ma assolutamente privo di utilità. Accresce solo le pressioni dovute alle “responsabilità internazionali” e crea inutili problemi di cui la Cina non ha al momento bisogno. L’essere “primi” può forse risolvere il grave problema della disuguaglianza tra ricchi e poveri? È forse in grado di migliorare la qualità della crescita economica? Migliora forse il welfare e lo stipendio della maggioranza della popolazione? Niente di tutto ciò. Per questo la Cina deve prestare più attenzione al rapporto sulla disuguaglianza dell’Università del Michigan. Può aiutarci a tenere a freno la nostra vanità, così da evitare di esaltarci troppo per i nostri successi.
Le stime della disuguaglianza tra ricchi e poveri calcolate da vari accademici e istituti di ricerca concordano tutte sul grado di criticità raggiunto. In generale, se l’Indice di Gini è inferiore o uguale a 0,2, il livello di disuguaglianza è lieve e si avrà quindi una società relativamente egualitaria. Un valore compreso tra 0,2 e 0,4 viene considerato accettabile; tra lo 0,4 e lo 0,45, la disuguaglianza è considerata piuttosto grave. È molto grave per valori compresi tra lo 0,45 e lo 0,5. Se supera lo 0,5, la disuguaglianza raggiunge livelli limite.
Il rapporto dell’Università del Michigan si basa sui dati di sei studi realizzati da cinque università cinesi. I risultati sono quindi da ritenersi attendibili. Il rapporto afferma che la disuguaglianza in Cina è quasi raddoppiata dal 1980 al 2010, evidenziando un trend del tutto simile a quello della rapida crescita economica del paese. La disuguaglianza oggi ha raggiunto un livello “critico”. Sebbene un valore dell’Indice di Gini pari a 0,55 possa essere messo in discussione dagli accademici, dal punto di vista dell’opinione pubblica conferma semplicemente l’esperienza quotidiana.
La rapida crescita delle disuguaglianze spiega la natura iniqua della crescita economica. È, infatti, solo una piccola minoranza a giovare dei frutti della crescita. La maggioranza della popolazione non gode affatto dei suoi benefici. Ciò rappresenta un’ulteriore conferma indiretta al fatto che quello di prima economia al mondo è un titolo meramente virtuale. In realtà, secondo la linea di povertà di un dollaro pro capite al giorno stabilità dall’Onu, in Cina la popolazione al di sotto della soglia di povertà è pari a 200 milioni di persone. Questo dato ridimensiona notevolmente i vantaggi derivanti dal modello di crescita cinese.
Gli effetti della disuguaglianza non si limitano solo all’aumento del numero di poveri, ma hanno anche conseguenze di natura politica. Se la disuguaglianza continua a espandersi, essa influenzerà negativamente anche la stabilità politica, sociale ed economica del paese. Il rapporto ha anche evidenziato che, in un sondaggio condotto nel 2012, la disparità tra ricchi e poveri è stata indicata come la più importante sfida che la società cinese deve affrontare. Prima ancora della corruzione e della disoccupazione.
Quando le masse non riescono più a sopportare il peso psicologico dovuto alle gravi disuguaglianze, possono verificarsi disordini sociali su vasta scala. Un’attenta analisi può forse ricondurre anche gli ultimi “incidenti di massa” e i “casi di estrema violenza” – compresi i recenti attentati terroristici – alle disparità esistenti tra ricchi e poveri.
Ma allora, da cosa dipende l’espansione della disuguaglianza tra ricchi e poveri? Per rispondere a questa domanda non si può non far riferimento all’Indice del capitalismo clientelare mondiale, recentemente pubblicato dall’Economist. Prendendo a prestito questo termine, il divario tra ricchi e poveri è dovuto al fatto che nel corso della trasformazione avvenuta in seno alla società si è affermato il capitalismo clientelare. Alcuni accademici cinesi, come ad esempio Wu Jinglian, lo hanno definito “capitalismo clientelare con caratteristiche cinesi”. È un fattore importante, se non addirittura il principale, della crescita delle disuguaglianze. A differenza di quanto solitamente si immagina, nella classifica stilata dall’Economist la Cina figura solo al diciannovesimo posto, subito dopo gli Stati Uniti.
L’Economist ha selezionato 23 paesi e regioni importanti del mondo, comparando tra loro sia paesi sviluppati che quelli in via di sviluppo. I risultati dimostrano che Hong Kong, dove l’80 per cento della ricchezza è concentrato [nelle mani di pochi], è il luogo dove il capitalismo clientelare ha raggiunto i livelli più alti in assoluto nel mondo. Segue la Russia, con un livello di clientelismo pari al 20 per cento. Le economie emergenti – come Singapore (5°), Taiwan (8°), India (10°) – occupano mediamente una posizione elevata. La Cina continentale, contraddicendo le aspettative, si classifica al diciannovesimo posto, con un livello di clientelismo di poco superiore all’un per cento.
L’Economist spiega questi dato con il fatto che lo stato in Cina controlla la maggior parte delle banche e delle risorse naturali impedendo così che queste importanti fonti di rendita cadano nelle mani dei privati. Oltre a ciò, l’apertura dei settori emergenti della Cina ha saputo formare un gruppo di sani imprenditori, come Jack Ma [di Alibaba;ndt] e Liang Wengen [del gruppo Sany; ndt].
Questa analisi ha una sua logica, ma ritengo che la maggior parte delle persone non ne sia molto convinta, come del resto non lo sono io. Il clientelismo, per come lo intende un cinese, consiste nell’arricchirsi grazie al proprio potere, alla propria influenza o attraverso le proprie reti di contatti. Nasce da pratiche ingiuste e illegali. Come sottolinea anche l’Economist, si cerca di ottenere profitti attraverso la “ricerca di rendita” [dall’inglese “rent seeking”; ndt] ovvero ci si assicura la fetta più grossa della torta e non si contribuisce a rendere la torta più grande.
Settori come quello dei casinò, delle risorse energetiche e della difesa nazionale sono diventate le aree maggiormente affette dal fenomeno del clientelismo. L’Economist ha tratto la conclusione che la situazione del capitalismo clientelare nei paesi in via di sviluppo sia due volte più grave rispetto a quella presente nei paesi sviluppati. Nel primo caso è pari al 4 per cento del Pil; nel secondo si attesta al 2 per cento.
Dato che la maggior parte dei paesi asiatici – comprese Hong Kong e Taiwan, che condividono con la Cina continentale lingua ed etnia – presentano livelli di clientelismo molto elevati, come è possibile che la situazione della Cina continentale sia migliore? Secondo me, l’analisi fatta dall’Economist sul clientelismo cinese non affronta il problema in profondità.
In un paese dove c’è un regime al potere e dove, tra l’altro, la rete di conoscenze assume un ruolo cruciale a livello sociale, non vi è nessuna impresa, nemmeno nei settori emergenti, che possa scavalcare il governo e possa fare affari senza avere rapporti con le autorità e/o ottenere segretamente il loro sostegno o la loro protezione. Il settore delle risorse naturali, in Cina numerose, ne è un esempio. Si diventa ricchi e potenti grazie alla collusione con i funzionari locali. Solo attraverso di loro si riescono a comprare le risorse naturali a buon mercato e ad arricchirsi rapidamente.
A parte gli imprenditori sani citati dall’Economist, sono pochi quelli che si affermano senza l’aiuto delle autorità. La maggior parte degli imprenditori ha inevitabilmente bisogno del sostegno delle autorità o di una rete di contatti nella fase di progettazione. Cambia solo il grado o il modo in cui queste dinamiche hanno luogo. Altrimenti non sarebbe possibile comprendere da cosa derivi la rapida espansione della disuguaglianza in Cina.
È per via dell’ubiquità del clientelismo e della segretezza dei modi in cui viene praticato, che una minoranza di persone ricche e potenti ha potuto depredare le ricchezze originariamente appartenenti alle masse, trasformando la Cina, nell’arco di soli trent’anni, da un paese con un elevato grado di egualitarismo a quello con la più grande disuguaglianza al mondo.
Per questo motivo, la posizione della Cina nell’indice sul capitalismo clientelare dell’Economist è fuorviante. In breve, la Cina non deve dare troppo peso al fatto di essere la prima economia al mondo. Questo è solo uno studio realizzato dalla Banca Mondiale per far piacere ai cinesi. Se la Cina non risolve l’abitudine dura a morire del capitalismo clientelare e non riduce il gap di reddito e le disparità tra ricchi e poveri, diventare la prima economia al mondo non avrà alcun valore per le masse.
[Tradotto per Internazionale. Il pezzo è anche su Caratteri cinesi. Traduzione di Piero Cellarosi]* Caijing è un settimanale finanziario noto all’estero per la trasparenza sugli scandali politico-finanziari e l’apertura ai problemi sociali.