Capire la Cina

In by Simone

Né Dio né legge si cimenta nell’ardito compito di comporre il quadro della spiritualità cinese. La cultura millenaria, il maoismo, la religiosità e la lingua sono elementi che spesso tralasciamo nel racconto della contemporaneità. Eppure ne sono radici e linfa vitale. L’ultimo lavoro della Pisu è uno strumento indispensabile per leggere la Cina in profondità. China Files ve ne regala uno stralcio (per gentile concessione di Laterza editori).
Capire la Cina, comprendere la spiritualità della Cina, non è impresa facile, come è difficile prevedere dove va la Cina e che sarà di noi tutti. Forse mi sono soltanto avvicinata alla comprensione, ma che fatica…

La Cina mi attirava fin da quando frequentavo il liceo, a Roma. Studiavo latino e greco, ma in quelle antiche mura del Collegio Romano che fu dei gesuiti ancora aleggiava lo spirito di Matteo Ricci, che proprio in quella sede compì i suoi studi alla fine del Cinquecento per poi salpare verso la Cina dove tentò la grande mediazione.

Così, forse influenzata dall’inimitabile esempio di Ricci, cominciai a interessarmi alla struttura della lingua cinese che, stando ai padri gesuiti che vi si accostarono, era «la lingua e la lettera più equivoca che si trovi». Loro andarono a predicare il Verbo in Cina, ma la civiltà della Cina non è la parola detta, tanto meno il Verbo: è la civiltà del Wen, dello scritto.

Quindi era una civiltà in cui all’inizio non era il Verbo, ma lo scritto, il Wen. E allora, si potrebbe dire parlando della Cina, «in principio era il Wen e il Wen era presso Dio e il Wen era Dio»? Sì, volendo. Nella nostra tradizione, India compresa, la rivelazione è un insieme di fonemi, nei riti la parola è concepita come creatrice e onnipotente, l’oratoria è un’arte, l’epica e la poesia si cantano.

Non così in Cina, dove chi scrive è superiore a chi parla, come aveva capito Ricci, il quale annotava: «Questa natione fece molto più caso del bene scrivere che del bene parlare». Certo, perché la scrittura in Cina fu «in principio», non è venuta dopo. Non è concepita come una creazione umana e arbitraria ma, piuttosto, come un’espressione del mondo naturale.

Si racconta infatti che nacque come riproduzione dei segni lasciati sul terreno dalle zampette degli uccelli o da piccoli quadrupedi. Non sarà andata proprio così, comunque la scrittura si sarebbe imposta nel campo degli atti magico-religiosi, sulla scia dell’interpretazione dei segni grafici che si formavano quando le ossa oracolari e i gusci di tartaruga venivano sottoposti al calore del fuoco.

Questi segni si interpretavano come se fossero la risposta divina ai quesiti che gli umani ponevano per conoscere il futuro, e via via furono precisati nella forma come pittogrammi, cioè rappresentazioni delle cose concrete, poi come ideogrammi, cioè combinazioni di due elementi concreti per intendere un significato astratto, come luce, per esempio, un segno formato dall’unione del segno di sole e di quello di luna.

E così in Cina la scrittura si avviò per la sua strada, disgiunta dalla parola, in un certo senso costituendo un registro parallelo a quello della parola. Fu la scrittura che si impose come mezzo privilegiato di comunicazione con gli Antenati divinizzati e con popolazioni parlanti dialetti diversi o anche altre lingue, il coreano, il vietnamita, il giapponese, in pratica in tutta l’Asia orientale dove si era diffusa la cultura cinese.

Ecco, la scrittura sarebbe la divinità della Cina, gli ideogrammi ancora oggi avrebbero un valore che non è soltanto il comunicare ma il veicolo di una civiltà che lascia intravedere il sacro al fondo dei suoi segni. E se non sono degli dèi, i segni di scrittura sono sicuramente delle possenti icone. Fui dunque affascinata da una civiltà in cui all’inizio non c’era il Verbo ma il Wen, la cui funzione, prima che di educare e civilizzare, è di porsi come la norma che regola il caos.

Tanto è in Cina il rispetto per la parola scritta che attorno vi è nata una sorta di religione, al punto che la civiltà cinese è stata definita grafocentrica, centrata cioè e anche condizionata nel suo evolversi dalle infinite possibilità di combinazione e aggregazione dei suoi segni la cui sacralità è riconosciuta anche dagli analfabeti. Non si butta in Cina un pezzo di carta con su una scritta, lo si raccoglie e lo si brucia in contenitori che si trovano – ovvero, si trovavano – agli angoli delle strade, anche nei villaggi più sperduti.

Non parla in Cina il leader politico, non arringa la folla, si limita ad apparire, come faceva Mao sugli spalti di Tiananmen: comunica tramite la scrittura, essendo la calligrafia considerata un’arte maggiore, non la forma di un’abilità estetica umana ma una ri-creazione, con il pennello, delle forze della natura.

Quello che conferisce ai grandi uomini la loro ragione di essere sono i loro saggi calligrafici; così, all’epoca della Rivoluzione culturale, scritte vergate con la calligrafia di Mao (ma anche di altri leader fino a quando non vennero tutti epurati) erano riprodotte su grandi pannelli esposti ovunque, come il testo della sua poesia Neve, tracciato in uno stile che allora si definiva sublime ma sul quale oggi si preferisce non dare giudizi.

Ma che succede quando la civiltà del Wen incontra quella del Verbo, o del Logos, per dirla in greco? Finito il liceo ho ottenuto una borsa di studio per l’Università di Pechino dove ho cominciato finalmente a parlare cinese dopo essermi dedicata prevalentemente alla scrittura. Il cinese è davvero una strana lingua, si potrebbe leggerlo e scriverlo senza essere in grado di pronunciare nemmeno una parola. Succede come quando leggiamo i numeri, le cifre arabe: anche se nelle varie lingue ne differenziamo la pronuncia (uno, one, un, ein) la percezione del significato è immediata.

Sono così arrivata in Cina nel momento in cui sembrava che un’ideologia occidentale, il marxismo, stesse per compiere il miracolo di eliminare la differenza tra Noi e Loro. Dovetti subito ricredermi quando vidi come si scriveva Marx. Tre caratteri: il primo, ma, che vuol dire cavallo, il secondo, ke, potere, il terzo, si, pensiero. Makesi, ovvero Marx, sarebbe dunque il cavallo che può pensare.

Mi spiegavano gli amici cinesi studenti che loro quando nominavano Marx, cioè Makesi, sapevano bene che si trattava di una trascrizione fonetica e non gli passava nemmeno per la testa che ci fosse un qualche riferimento al cavallo e al pensiero. Quei caratteri con pronunce simili, più o meno, al suono del cognome tedesco, erano stati scelti per pura convenzione e absit iniuria verbis.

Ma non era così per quelle che allora si chiamavano le masse popolari, e si raccontava la storiella di un operaio, stanco per le interminabili discussioni ideologiche alle quali tutti dovevano partecipare, che un giorno sbottò: «Sento sempre parlare del cavallo che pensa. Ma a che serve? Il cavallo pensa, anche il bue pensa, e allora, che differenza fa?».

Rimasi anche molto colpita dalla liturgia religiosa con cui, nel campus universitario, si svolgevano cerimonie marx-leniniste, tipo quella, da celebrare ogni sabato mattina, che si chiamava «Donare il cuore al partito». Gli studenti andavano in processione fino al padiglione dove c’era la sede locale del partito comunista e portavano in mano dei grandi cuori rossi di cartone con delle scritte votive (e c’era sempre quella riferita al cavallo che pensa) che offrivano, salmodiando giaculatorie rivoluzionarie, ai grandi capi.

Giudicai queste e altre stranezze soltanto accessorie, ritenevo che si fosse giunti a una svolta e che la Cina ormai non poteva più essere indifferente rispetto ai nostri concetti. La parola chiave era «libertà», neologismo della lingua cinese come tanti altri, religione, filosofia, eccetera, che veniva spesso usata nei discorsi e negli scritti politici. In cinese si dice zi you ed è formato da due caratteri, il primo, zi, che significa se stesso, l’altro, you, che vuol dire causa, origine, motivo.Il termine mi pareva azzeccato, corrispondente al senso, ossia sono causa, origine, di me stesso.

Ma quando dicevo «sono libera», ecco che mi guardavano male, a orecchie cinesi l’espressione suonava diversa, era intesa come «faccio quello che mi pare e piace», deviava verso libertino. Un insegnante un giorno mi prese da parte e mi disse: «Fa’ attenzione, sei troppo libera nel modo di camminare, non sta bene».

A quel punto fui costretta a cambiare punto di vista, mi dissi che la Cina era ancora indifferente ai nostri concetti, sia pure rivisitati alla luce del marxismo. E mi domandai quale accezione di libertà fosse corretta, politicamente parlando. E linguisticamente? Se parlavo in cinese, con i cinesi, ovviamente la loro. Ma se parlavo in cinese e pensavo in italiano?

Ecco che piombavo nel cuore di una contraddizione che, a dire il vero, non ho ancora risolto. Una contraddizione alla cinese? In cinese contraddizione si dice mao dun, due caratteri che significano lancia, il primo, e scudo, il secondo: si racconta che un armaiolo forgiasse lance invincibili e scudi che nessuna lancia poteva perforare. Così, se due guerrieri si affrontavano uno brandendo la lancia invincibile, l’altro parando il colpo con lo scudo imperforabile, ecco che nessuno dei due poteva vincere e sorgeva la contraddizione.

Il binomio «lancia-scudo» è stato consacrato nel cinese moderno per designare il concetto di contraddizione da Mao Zedong stesso nei suoi scritti, sulla scia dell’accezione del termine di Hegel e poi di Marx. Ma quanto vi rimane dell’opposizione originale tra la lancia e lo scudo? E dal parlante cinese come viene intesa allora la contraddizione? Come irrisolvibile?

Sì, se si ragiona secondo la nostra logica; no, se si affronta il quesito alla cinese, articolandolo. Vuoi difenderti? Procurati lo scudo imperforabile. Vuoi attaccare? Armati della lancia invincibile. Forse così le contraddizioni si possono percepire non come irriducibili, ma piuttosto come alternative, a seconda del punto di vista che si vuole privilegiare. Perché la relatività è pur sempre una bella cosa.

* Renata Pisu ha frequentato i corsi di lingua cinese e di storia della Cina moderna all’università di Pechino fino agli inizi della Rivoluzione Culturale. Da allora svolge la professione di giornalista con particolare attenzione ai problemi dell’Asia Orientale. È stata corrispondente per testate come La Stampa e La Repubblica. Ha tradotto dal cinese numerose opere di narrativa contemporanea ed è autrice di saggi sulla società cinese.