Funan era il nome di un regno che si estendeva in tempi antichi tra i territori oggi appartenenti a Vietnam meridionale, Cambogia e Thailandia. Prima dell’ascesa dell’impero Khmer. Funan è oggi anche il nome di un canale che potrebbe presto deviare il fiume Mekong e cambiare le regole del gioco nell’Asia sud-orientale.
Il progetto è in cima all’agenda del primo ministro Hun Manet, in carica dallo scorso agosto quando il padre, il «leader eterno» Hun Sen, gli ha lasciato il posto dopo 38 anni al potere. Manet, che ha studiato a New York e Bristol con un dottorato in economia prima di tornare in madrepatria e fare carriera nelle forze armate, considera il Funan Techo un modo per «respirare dal nostro naso».
IL SIGNIFICATO è chiaro: col nuovo canale la Cambogia si svincolerebbe dalla dipendenza geografica verso il Vietnam per la spedizione delle merci, guadagnando anche una maggiore autonomia sul fronte politico nei confronti del grande vicino. La realizzazione del progetto consentirebbe peraltro di ridurre i costi di spedizione delle merci fino al 30%, favorendo la crescita delle esportazioni di una Cambogia che con Hun Manet sembra voler rafforzare i legami commerciali internazionali.
Una volta completato, il canale partirà dalle rive del Mekong e con un percorso di 180 km collegherà direttamente la capitale Phnom Penh alla provincia meridionale di Kep, affacciata sul Golfo del Siam. Qui, nella zona economica speciale di Kampot, è già in costruzione un nuovo porto con la partecipazione della China Harbour Engineering. Non è un caso.
Le impronte di Pechino sul progetto sono visibili anche sullo stesso canale, la cui costruzione dovrebbe essere finanziata dal colosso statale China Bridge and Road Corporation nell’ambito della Belt and Road Initiative, la «nuova via della Seta» di Xi Jinping che in Cambogia ha trovato realizzazione concreta più che altrove: a meno di cento km da Kampot si trova Sihanoukville, cittadina che è diventata una sorta di enclave cinese tra turismo di massa e nuove infrastrutture.
Lo scorso ottobre, Hun Manet ha scelto non a caso Pechino per la sua prima visita all’estero da premier. Qui ha chiesto a Xi di portare avanti il progetto Funan Techo, costo stimato 1,7 miliardi di dollari. Subito dopo è stato avviato uno studio di fattibilità dagli investitori cinesi e ora il ministro dei Trasporti cambogiano, Peng Ponea, garantisce che la costruzione sarà avviata entro fine 2024.
Nei piani di Phnom Penh, il canale dovrebbe entrare in funzione nel 2028 con due corsie e una larghezza di cento metri. La sua destinazione finale sarebbe non lontana dalla controversa base navale della marina cambogiana di Ream, dove i lavori di ammodernamento finanziati dalla Cina stanno per essere completati. Da tempo, gli Stati uniti accusano Pechino (che smentisce) di voler diventare il gestore occulto della base. In quest’ottica, secondo i più allarmisti il canale potrebbe servire anche a muovere mezzi militari.
TRA CHI OSSERVA con qualche timore c’è il Vietnam, che teme di perdere presa sulla Cambogia, con cui ha un rapporto storicamente controverso e conflittuale sul piano politico ma molto proficuo su quello commerciale. Hanoi, che dopo la guerra in Ucraina sta faticosamente cercando un equilibrio tra Cina e Usa, è allarmata per le recenti manovre sul mar Cinese meridionale.
Proprio pochi giorni fa, il governo vietnamita ha protestato dopo che Pechino ha delineato una linea di demarcazione sul golfo del Tonchino che sembra rilanciare una contesa territoriale che sembrava risolta. Ma il rischio più concreto sul nuovo canale pare quello ambientale. C’è chi ritiene che possa influire sul corso del Mekong, aumentare la salinità e alterare i flussi d’acqua nel motore agricolo. E sul percorso in molti paiono già destinati allo sfratto.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato si il manifesto]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.