Cadere dal pero sull’India, in India

In by Simone

Qualche settimana fa sul mio News Feed di Facebook è comparso questo articolo di Adrien Field intitolato "What It’s Really Like To Study Yoga in India", cioè "Com’è davvero studiare Yoga in India". Il pezzo, del tipo confessioni al diario personale, esplora involontariamente l’abisso dell’ignoranza e degli stereotipi che circondano l’India, un problema piuttosto diffuso che segna il fallimento di chi, ieri come oggi, prova a raccontare questo paese.Vi risparmio la fatica di fare una ricerca su Google: Adrien Field è un deficiente patentato moderatamente perculato dalla stampa anglosassone, un Vip di second’ordine evidentemente maître à penser di altri Vip più in basso nella catena alimentare dei Vip. Per questo motivo, vanta una diffusione notevole, stando alla sua bio sull’aggregatore Thought Catalog, dove tra le pubblicazioni che si sono occupate di lui sono elencati il New York Times e il New Yorker (non ci viene detto come se ne sono occupati, ma tant’è).

L’epifania di Field è dolorosa e, levando lo stupore di chi abituato al suo appartamentino a New York scopre le inconvenienze di farsi la doccia col secchio, di vivere in un posto dove alle cinque di mattina il muezzin inizia a cantare (e quello è il suono più piacevole che si può sentire durante tutta la giornata), della sporcizia e dell’inquinamento, tocca involontariamente una serie di punti comuni a chi si avvicina, per una ragione o per l’altra, all’India.

In particolare, ed è su questo che voglio concentrarmi, segna la distanza tra l’India delle aspettative e quella "reale", uno shock culturale a cui tutti – chi più e chi meno – vanno incontro dal primo minuto in cui mettono piede fuori dall’aeroporto. Lo scontro è spesso brutale e, esperienza comune tra chi va e viene dall’India, porta a un primo periodo di frustrazione e odio per tutto ciò che ci circonda: è la parte in cui Field medita di mollare tutto e farsi "due settimane di relax in Sri Lanka", lui che economicamente potrebbe. Il resto del mondo, o se ne torna a casa propria o tiene duro e inizia un processo di riduzione delle necessità: non è necessario avere una doccia calda, va bene quella fredda o secchiate d’acqua riscaldata; non è necessario avere zanzariere o Autan, le zanzare si sopportano, e via dicendo.

La "resa" alla realtà dei fatti – prima o poi arriva per tutti, qui – osservando amici e conoscenti incrociati in India negli ultimi anni di solito porta a due considerazioni per certi versi opposte: la prima, ci si rende conto che l’India che immaginavamo non esiste e ce ne si fa una ragione, trattando l’India come un paese "normale", normale nella sua complessità e nelle differenze interne enormi (la risposta migliore a chi ti chiede "Com’è l’India?" per me, dopo alcuni anni, rimane "quale India?"); la seconda, davanti alla caduta del mito costruito si cerca in qualche modo di mantenerlo intatto, virando sull’impalpabilità dello spirito, cioè rafforzando – per assurdo – l’immaginario di partenza, dove l’India NON È quella che vediamo e sentiamo con i nostri sensi, ma l’India "autentica" è quella che si guarda con "Gli occhi del cuore": e via di sorrisi dei bambini poveri ma felici, i colori dei sari, i profumi delle spezie, quelle che Field chiama "le strade verso l’interno", sentieri invisibili di introspezione che il piano regolatore dell’ultraterreno indiano ha tracciato nei millenni così che noi Occidentali – ottenebrati dal lusso delle nostre vite opulente e consumistiche – potessimo scoprirli e percorrerli per migliorarci DAVVERO.

Se diamo per assunto che ognuno è libero di trovare ovunque quello che vuole – e figurarsi in India, dove c’è di tutto – il fatto che nell’anno 2015, con le barriere abbattute dalla globalizzazione e il continuo scambio di informazioni inedito nella Storia dell’umanità, esistano ancora persone che credono nell’India immaginata, secondo chi scrive, ha almeno due ragioni: o abbiamo così tanto bisogno di credere nel Sogno e nel Distante che ci imponiamo di negare l’evidenza di quello che abbiamo davanti, oppure chi racconta o ha raccontato l’India negli ultimi decenni ha miseramente fallito. O entrambe.

[Scritto per East online; foto credit: thougthcatalog.com]