In questo contesto l’eredità del cinema d’autore è stata presa dalla cosiddetta sesta generazione di registi cinesi, la prima del tragico post-Tiān’ān mén. I simboli manifesto di questo gruppo di registi molto variegato al suo interno sono Zhang Yuan e Wang Xiaoshuai.
I loro primi film colpiscono per il coraggio di denunciare problemi sociali, come l’emarginazione giovanile, l’alienazione sociale degli artisti o l’omosessualità, all’interno di quello stesso contesto urbano che la retorica ufficiale sullo sviluppo e sulla liberalizzazione economica dipingeva con tinte brillanti. Questo tipo di film ridiede vita alla censura del Partito, che nel 1994 avrebbe interdetto per diversi anni Zhang Yuan, Wang Xiaoshuai, Tian Zhuangzhuang, la sceneggiatrice Ning Dai (moglie di Zhang Yuan) e altre personalità di spicco, come He Jianjun (The Postman) e il documentarista Wu Wenguang.
Alle loro spalle muovevano però altri artisti, capaci di aggirare –almeno in parte- la mano della censura e realizzare allo stesso momento importanti fotografie della società cinese da angolazioni desuete. È questa l’epoca d’oro del cinema indipendente cinese, un tipo di cinema che trova nel valore di alcune personalità, nell’onestà intellettuale e nella carenza di mezzi e sponsorizzazioni i suoi tratti essenziali. Nel 1997 usciva Xiao Wu a opera di Jia Zhangke, in seguito insignito del Leone d’Oro a Venezia con Still Life. Influenzato tanto dal realismo socialista sovietico quanto dai maestri del neorealismo italiano e dal cinema d’autore europeo, Jia Zhangke ha saputo dare forma a una estetica a metà tra l’autobiografico, la creazione artistica e il documentarismo.
Cornice dei suoi primi film (Xiao Wu, Platform e Unknown Pleasure) era la realtà urbana della provincia cinese, che si affacciava sul libero mercato lasciando sul campo una certa gioventù incapace di approfittare della liberalizzazione. Lo scenario dei suoi film era la provincia dello Shanxi, la stessa che aveva offerto i natali al regista. I film erano girati in uno stato di semi-clandestinità, approfittando della conoscenza dei luoghi e della realtà dove venivano effettuate le riprese per non dare troppo nell’occhio. Un altro regista che ha ottenuto riconoscimenti all’estero (Berlino, Montreal), è Wang Quan’an (The Tuya’s Marriage, Apart Together, Weawing Girl), autore di film che spesso ritagliano un ruolo centrale alla condizione femminile in ambientazioni nella Cina rurale e non.
Di Zhang Yang (Quitting, Shower) si segnala invece la sensibilità nel sapere descrivere le sottigliezze di relazioni familiari all’interno di un contesto sociale che tiene come riferimento costante la Pechino degli ultimi due decenni. In Quitting, presentato a Venezia nel 2001, Zhang Yang è riuscito a mettere in scena l’egocentrico senso di alienazione generazionale di una certa gioventù pechinese degli anni Novanta, attraverso il racconto della reale storia di dipendenza dell’attore Jia Hongsheng (morto suicida nel 2010), in un esperimento cinematografico che non è né documentario né finzione, bensì pura recitazione di un dramma familiare a opera dei suoi stessi protagonisti, che nel film interpretano se stessi.
Apprezzato a Cannes è invece Lou Ye (Suzhou River, The Summer Palace, Spring River), un autore il cui segno distintivo è un lirismo introspettivo in grado di dare angoli visuali del tutto fuori dal comune, tanto su eventi storici dall’alto valore simbolico (i disordini di Piazza Tiān’ān mén) quanto sui maggiori simboli socio-economici della nuova Cina (Shanghai). Lou Ye è come in costante esplorazione del vissuto dei suoi personaggi, immersi in storie individuali e mai direttamente coinvolti in una relazione attiva con il contesto in cui agiscono. Ma nei loro profili resta un riflesso naturale e continuo dello scenario storico-sociale esterno, a cui restano ineluttabilmente legati nel percorso di trasformazione delle proprie storie di vita.
A conti fatti, al di là dei suoi esponenti più rinomati, la cosiddetta sesta generazione di registi sembra avere raggiunto una maturità stilistica in grado di dare al cinema cinese un’identità insieme composita e di forte personalità, grazie a una vasta e variegata gamma di autori. Il decennio appena trascorso ha consacrato figure chiave del cinema cinese, come Jiang Wen (The Devils on the Doorstep, Let the Bullets Fly), regista e attore autentica icona del cinema contemporaneo, in grado di armonizzare critica, pubblico colto e successo commerciale in un unico coro di apprezzamento. Ma hanno visto la luce anche personalità che, pur non avendo raggiunto gli schermi occidentali con meno clamore né avendo un reale riscontro nella società cinese, sono dotati di un proprio spessore stilistico e talvolta anche tecnico.
Come Li Yang (Blind Shaft, Blind Mountain), autore di fortissime denunce sociali che non trovano voce nei media ufficiali, o come il sopra citato documentarista Wang Bing (Crude Oil, He Fengming, The Ditch), promotore di vere e proprie inchieste cinematografiche sui lati oscuri della Cina comunista e post-comunista, nonché detentore di un record notevole, con le nove ore di documentario racchiuse tutte in un’opera sola, l’acclamato West of the Tracks.
A seguire ci sono le registe Ning Ying (Railroad of Hope, Perpetual Motion), cresciuta sotto l’ala protettiva di Bertolucci, e Li Yu (Lost in Beijing, Buddha Mountain), entrambe dedite all’osservazione di alcune sfaccettature della società contemporanea cinese e provviste di sensibilità intimista, Hu Guan (Dirt, Cow), creatore di uno dei manifesti cinematografici del mondo musicale rock alternativo cinese degli anni Novanta, o anche autori di commedie brillanti e di ampio respiro commerciale, come Ning Hao (Crazy Stone, Crazy Racer). La lista sarebbe ancora più lunga coinvolgendo registi che operano in un ambito ancora più di nicchia Nonostante i livelli raggiunti, il cinema cinese non sembra affatto fermarsi: alla sesta generazione ha fatto seguito la cosiddetta dGeneration, che mette insieme quei registi emersi negli ultimi dieci anni sulla base di un percorso per forza di cose ancora più incentrato sul concetto di indipendenza.
La loro azione si è sviluppata in gran parte al di fuori dei circuiti ufficiali di produzione, con l’aumento verticale del numero di film realizzati a bassissimi budget grazie al ricorso a tecnologie digitali accessibili a tutti. Filone intricato e ancora in via di decifrazione è infine il Nuovo cinema del reale, un gruppo che riunisce una serie di documentaristi, trovando in Wu Wenguang (Bumming in Beijing: the Last Dreamers) il suo indiscusso promotore. Anche in questo caso, i registi agiscono in tutto e per tutto indipendentemente dai percorsi ufficiali di realizzazione, produzione e distribuzione, scegliendo come sfondo prediletto gli scenari post-moderni e post-socialisti di ambientazioni sia metropolitane che rurali, di cui cercano di cogliere l’essenza di un reale in continuo movimento e trasformazione nell’asfissiante processo di distruzione-costruzione che affligge le città cinesi.
Sospeso tra la pura riproduzione del vero –senza voci fuori campo né spiegazioni- e l’intervento nella realtà rappresentata –attraverso la provocazione e il risveglio di un senso di responsabilità civile- il documentarismo cinese è portatore tanto di una estetica artistica ben definita quanto di un attivismo sociale di fondo, volto al salvataggio dalla scomparsa.
[Un ringraziamento a Edoardo Gagliardi per suggerimenti e consigli sempre preziosi] [Questo articolo è stato pubblicato da SentireAscoltare]