C’erano una volta le ombre cinesi. Intrecciavano delle storie per il pubblico seduto al di là dello schermo, con figure incise su pelle d’asino e riflesse da una potente fonte di luce. Un proiettore, delle immagini riflesse e uno schermo.
Ecco perché quando il cinema arrivò in Cina, alla fine dell’Ottocento, gli fu dato il nome di “giochi d’ombra occidentali” (xifang yingxi). Il cinema era allora un qualcosa di completamente sconosciuto, uno di quei prodigi tecnici che l’arretrato dragone mirava con sospetto e stupore. In Cina nessuno sapeva fare cinema. Al di là della tradizione nazionale difesa dalle opere cinesi, filmate e riproposte al pubblico nei cinema e nei teatri, le prime proiezioni furono solo di film stranieri e la nascita dell’industria cinematografica cinese fu imprescindibile dagli insegnamenti, dall’assistenza di tecnici e dagli investimenti di avventurieri d’oltreoceano.
Per la Cina erano anni difficili. Dopo essere stato il potere dominante degli equilibri geopolitici estremo-orientali, il grande impero cinese era ridotto allo status di un paese semi-colonizzato e veniva minato da fermenti riformisti e rivoluzionari, che nel 1911 avrebbero portato alla nascita della Repubblica. Nei primi decenni del Novecento, i cinematografi erano uno svago per tanti: gente in cerca di intrattenimento, o incuriosita dalla fedeltà di immagini in grado di riprodurre scene di vita così simili alla realtà.
O anche attratta dall’alta società, al passo con le ultime mode, desiderosa di esotico, aperta all’Occidente e al mondano. In pochi anni i cinematografi spuntarono a centinaia, spesso con vita breve, per mano di improvvisati impresari attratti dai margini di guadagno e incuranti dei rischi. Si racconta persino che la celebre imperatrice vedova, Cixi, per il suo settantesimo compleanno ricevette in regalo dal Consolato inglese un proiettore e delle tracce di film.
Peccato che alla prima proiezione il generatore non resse e scoppiò, provocando un’ondata di panico e, in virtù del cattivo presagio, un rigido veto alla trasmissione di film dentro il perimetro della Città proibita. Certo, per i primi che arrivano non è mai facile.
Come per Ren Jingfeng (alias Ren Fengtai), professione fotografo. Uno studio nella lao Beijing, la vecchia Pechino che oggi non conosciamo più. Siamo all’inizio dello scorso secolo, correva l’anno 1905. È suo il primo cinematografo cinese. Ci trasmetteva le opere tradizionali, allora in gran voga, dove recitava il re dell’Opera di Pechino Tan Xinpei, un espediente di successo per ovviare alla carenza di titoli cinematografici, allora tutti d’importazione. La storia del primo cinematografo non divenne però leggenda e dopo neanche quattro anni di vita finì in cenere per lo sviluppo di un incendio dalle cause ignote, costringendo Jingfeng a cambiare attività.
Yan Ruisheng, il primo lungometraggio cinese, uscì nel 1921. Girato da Ren Pengnian, si trattava di una storia ispirata a un fatto di cronaca che aveva fatto scalpore nella Shanghai di primo Novecento, l’omicidio della “regina di fiori” Wang Lianyang –tra le più note concubine dei quartieri di piacere- per mano di un uomo, Yan Ruisheng.
La sceneggiatura era un riadattamento di un testo teatrale di Zheng Zhengqiu, uno dei padri fondatori del cinema cinese, nonché regista e critico teatrale. Cinema e teatro, una parentela stretta all’epoca. Il primo film cinese in assoluto fu l’esecuzione di Tan Xinpei dell’opera tradizionale Dingjun Mountain (1905), che fu filmata e poi prodotta all’interno del Fengtai Photo Studio. Ma soprattutto teatro moderno, di derivazione occidentale: le sceneggiature riprendevano spesso testi teatrali, con una camera fissa e una recitazione continuata. Molti registi provenivano dal teatro sociale di Ibsen, di cui ammiravano il realismo e la critica della morale tradizionale.
Yan Ruisheng era un racconto dotato di intenti realisti (la produzione chiese ad un buon amico di Yan di recitare la parte dell’omicida e anche la vittima fu interpretata da una ex-prostituta), faceva leva su una storia avvincente, con al centro un omicidio e la fuga dell’assassino, mentre la triste storia di Wang Lianyang dava voce alla critica dell’ipocrisia di una società viziosa e maschilista, malcelata dietro le apparenze di perbenismo.
In quegli anni Shanghai recitava la parte della New York cinese. Una società urbana sulla via della modernità e antitetica al mondo tradizionale, contadino e patriarcale; la donna assurgeva a una sublimazione senza precedenti ma anche piena di rischi. Le attrici erano tra i simboli di un immaginario di seduzione, un oggetto di desiderio sessuale la cui immagine si confondeva a tratti con quella delle concubine e delle femmes fatales che popolavano i quartieri di piacere, incarnando le ambiguità morali della vita cittadina.
La società urbana cinese degli anni Venti e Trenta era una realtà viva e in movimento, che culturalmente manifestava una forte volontà di rinnovamento, spesso radicale, iconoclasta. Il cinema, nato come genere di intrattenimento, ne rimase in parte ai margini, almeno fino agli anni Trenta, quando prese forma il cinema di sinistra, che andava ad affiancarsi a una serie di film di successo e maggiormente disimpegnati, impregnati su miti, leggende e storie di cappa e di spada. Il cinema di sinistra si fece strada con il consolidamento di valori socialisti, contro la corruzione che rappresentata e filmava nelle ingiustizie sociali e nell’elevazione di ideali riformisti. In questo contesto la sofferenza femminile diveniva metafora di una sofferenza nazionale.
I ruoli femminili assumevano il ruolo di protagonista, mentre le attrici erano costrette in un modello di virtù senza appello, difensore di quei valori nobili e progressisti elevati nei film. Le vite libertine delle star, vere o presunte, ispiravano le prime forme di gossip; il loro comportamento era esempio morale per la società, al punto che la vita privata arrivava a influenzare un eventuale ingaggio. La donna si imponeva come un nuovo modello, sincero e virtuoso a cui non erano date alternative. Fu in questa commistione di fervore, idealismo, mondanità e ipocrisia che emersero le prime eroine tragiche del cinema cinese.
Come Ruan Lingyu, una delle attrici più espressive nella storia del cinema cinese, morta suicida nel 1935 nel clamore pubblico, prigioniera di una condotta privata troppo esposta al giudizio mediatico e ferita nella sua dignità.
[Segue: domani la seconda parte, L’epoca comunista: Rivoluzione culturale e demaoizzazione — Foto di Ruan Lingyu, tratta da http://heres-looking-like-you-kid.com/2009/08/the-life-of-ruan-lingyu/]
[Un ringraziamento a Edoardo Gagliardi per suggerimenti e consigli sempre preziosi]
[Questo articolo è stato pubblicato da SentireAscoltare]