Nel decennio successivo, l’occupazione sino-giapponese, la Seconda guerra mondiale e la guerra civile tra comunisti e nazionalisti lasciarono spazio a un nuovo ordine, da cui il cinema cinese uscì con un’estetica completamente rinnovata e dettata dal potere centralizzato del Partito comunista.
Al potere dal 1949, i comunisti si impegnarono nella nazionalizzazione degli studi di produzione, impossessandosi non solo dei contenuti ma anche della stessa idea di arte cinematografica. Gli anni Cinquanta e Sessanta imposero l’estetica del realismo rivoluzionario, in cui il vero non era più descrizione critica della società, ma rappresentazione di ciò che essa sarebbe dovuta essere, dietro ogni forma di apparenza e resistenza.
Le voci dissidenti, o semplicemente distaccate dalle direttive del potere furono stroncate nell’ascesa del radicalismo ideologico, che trovò nella Rivoluzione culturale (1966-1976) il momento di massimo fervore e omologazione. Censura, campagne di rettificazione, sedute di autocritica, campi di lavoro e umiliazione pubblica. Tutto quello che rimane oggi, in una Cina mille miglia lontana dalla povertà e dal fervore di massa degli anni Sessanta, sono dei poster dall’estetica socialista, o le locandine ispirate agli “otto modelli di opera rivoluzionaria”, a cui i film dell’epoca dovevano ispirarsi e uniformarsi. Si tratta di oggetti oramai divenuti il marchio di fabbrica di una forma di pop-art in salsa cinese, in cui le immagini della propaganda sull’edificazione socialista delle masse, sul patriottismo anti-imperialista o sulla liberazione delle minoranze etniche dalla povertà si impongono come oggetti di un nuovo culto, delle icone appassite e svuotate delle loro implicazioni storiche sulla vita degli individui.
Proprio l’antitesi senza compromessi tra arti e Rivoluzione culturale –che rimosse ogni forma di libera articolazione artistico-espressiva- avrebbe generato un legame molto stretto, lasciando in eredità gli spettri di una dicotomia tra arte e regime perdurata fino ai nostri giorni e di cui il cinema è parte integrante. Quella che a tutti gli effetti fu una lotta politica tra fazioni mosse i suoi primi passi dalla critica del Partito contro un certo tipo di arte e cultura giudicati non conformi, prima di potere infine assumere le sembianze di una lotta politica nazionale se non quelle di una vera e propria guerra civile.
Persino il documentario Chung-kuo, Cina (1972), di Michelangelo Antonioni, dopo essere stato ripudiato e bollato come reazionario e anti-cinese nel 1974, ispirò una campagna politica. Per via della repressioni a cui andarono incontro, oggi molte delle testimonianze di cosa significò la Rivoluzione culturale permangono proprio nelle arti, nella letteratura e nel cinema. Conosciuto come la quinta generazione di registi cinesi, un gruppo di cineasti in realtà molto eterogenei è riunito dal fatto che la maggioranza tra loro proviene dalla prima classe uscita dopo la Rivoluzione culturale dalla celebre Beijing Film Accademy.
Le rievocazioni di quel periodo restano poi in molti film usciti negli ultimi tre decenni, dipingendo un quadro a tratti cupo (Tian Zhuangzhuang con Blue Kite), a volte tragico (il documentarista Wang Bing con He Fengming e The Ditch), ma anche spensierato (Jiang Wen con In the Heat of the Sun e Zhang Yimou con il recentissimo The Love of the Hawthorn Tree). L’eredità del maoismo e del radicalismo ideologico sul cinema cinese contemporaneo è stata molto pesante, rinvigorendone la centralità della funzione sociale –a volte politica- accanto a quella puramente artistica. Ci sono poi da considerare gli effetti della trasformazione.
In Cina i passaggi dalla tolleranza liberale al controllo ideologico furono rapidi ed estremi, al punto da creare delle crisi di identità sociale che hanno lasciato non poche tracce nel cinema e nelle arti. I registi che emersero con il clima liberale instaurato da Deng Xiaoping dalla fine degli anni Settanta rappresentarono a tutti gli effetti una svolta nella storia del cinema cinese, affiancando alla produzione ufficiale di propaganda e a una serie di film più propriamente commerciali (miti, leggende, combattimenti e arti marziali firmati Hong Kong e Taiwan) una forma di cinema di qualità e provvista di gusti stilistici, sensibile a problematiche socio-politiche e dotata di orientamenti intellettuali alternativi a quelli della dirigenza.
Nell’immediato, a emergere furono i registi di quarta generazione (Wu Tianming, Xie Fei), immersi nel fervente confronto culturale-intellettuale dell’epoca volto alla riscoperta di un’identità dopo le distruzioni apportate dal radicalismo maoista. Con uno sguardo più a lungo termine, Wu Tianming (Old Well), Xie Fei (A Girl from Hunan, Black Snow), Tian Zhuangzhuang (Horse Thief, Blue Kite), Chen Kaige (Yellow Earth, Farewell My Concubine, Temptress Moon), Zhang Yimou (Red Sorghum, Raise the Red Lantern), Zhang Yuan (Beijing Bastards, East Palace West Palace) e Wang Xiaoshuai (The Days, Frozen, Beijing Bycicle) sono registi che con la loro produzione hanno introdotto uno spirito critico verso la tradizione cinese e le contraddizioni sociali emerse nelle realtà urbane in seguito all’ingresso della Cina nel mercato. Il valore del nuovo cinema d’autore cinese non tardò ad avere riscontri nelle sale occidentali, ottenendo riconoscimenti nei maggiori festival internazionali, a Cannes (Chen Kaige nel 1993), Venezia (Zhang Yimou nel 1992) e Berlino (Zhang Yimou nel 1988 e Xie Fei nel 1993).
Contemporaneamente, però, la consacrazione e il successo internazionale sembrano avere avuto ripercussioni negative sul valore artistico della produzione di alcuni tra questi registi. Diverse figure sono state messe in discussione per essersi sempre più staccate dal pubblico cinese, avvicinandosi alle esigenze di una platea intellettuale occidentale. Altri registi sono stati reintegrati nella macchina di stato, guadagnando così grandi finanziamenti e attenzione mediatica in Cina e portando in cambio ventate di nazionalismo. Emblema di quest’ultima tendenza è l’epica maestosa del kolossal con caratteristiche cinesi Hero, giunto anche nelle sale italiane nel 2002 e girato dal regista cinese probabilmente più popolare in Occidente, Zhang Yimou.
[Segue: Lunedì la terza parte, La sesta generazione] [Un ringraziamento a Edoardo Gagliardi per suggerimenti e consigli sempre preziosi] [Questo articolo è stato pubblicato da SentireAscoltare]