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Blockchain e criptomonete in Cina: non è ancora detta l’ultima parola?

In Cina, Innovazione e Business by Redazione

Brandita con pragmatico orgoglio, Pechino si serve della blockchain per annientare minacce di natura informatica e rafforzare il sistema di sorveglianza, ma più comunemente la utilizza per garantire maggiore efficienza dei servizi pubblici

Ogni settimana, dal “Caffè Web3” nel nord di Pechino fino agli itineranti di un club anglofono e sinofono nell’est della capitale, una folla sempre più folta di curiosi, entusiasti e fanatici si anima parlando di Web 3.0, una nuova dimensione della rete pronta a strappare lo scettro dell’egemonia informativa dalle mani delle multinazionali per riconsegnarlo agli utenti della rete. Ogni settimana sempre più interessati rimangono in ascolto del quasi assoluto silenzio del governo su Bitcoin, Ethereum e altre criptomonete di forgiatura privata, valute virtuali diversamente riconosciute all’estero e pienamente proibite all’interno del perimetro cinese dal 2021. Ogni settimana osservano i portentosi progressi della tecnologia blockchain, tra le favorite dal governo di Xi Jinping. 

La blockchain, ovvero una rete informatica che gestisce dati e informazioni in modo decentralizzato, è diventata priorità del partito a partire dal 13esimo piano quinquennale del 2016. Nel cosiddetto “1024 speech” nell’ottobre 2019 Xi si è soffermato sul potenziale strategico di questa tecnologia poiché “innovazione indigena” (自主创新) che dovrebbe agevolare l’ascesa della Cina a grande potenza del web (网络强国), obiettivo altrimenti ostacolato dall’eccessiva dipendenza da fonti di innovazione esterne. Brandita con pragmatico orgoglio, Pechino si serve della blockchain per annientare minacce di natura informatica e rafforzare il sistema di sorveglianza, ma più comunemente la utilizza per garantire maggiore efficienza dei servizi pubblici, come esemplifica il “Whitepaper sulla blockchain per una città senza sprechi” che la città di Tianjin pubblicherà per la fine dell’anno.

La corsa all’adozione della blockchain interessa anche il settore privato. Secondo uno studio di Forkast, la Cina sarebbe responsabile del 68% dei brevetti di blockchain depositati a livello globale, mentre il 49% degli intervistati in una ricerca del 2018 afferma che questa tecnologia sarebbe già in produzione nelle rispettive aziende. Con l’approvazione di 502 nuove società da parte della Cyberspace Administration of China (CAC) nel febbraio 2023, il paese ha raggiunto un totale di 2159 aziende di blockchain ufficialmente registrate, senza però contare quelle che potrebbero essersi estinte dai primi registri del 2013.

Ma non è tutto oro quel che luccica. Alcuni analisti suggeriscono che una porzione considerevole di queste fantomatiche aziende di blockchain si tratterebbe in realtà di società fittizie pronte a essere rivendute a imprenditori meno inclini a sobbarcarsi l’oneroso processo di registrazione presso le autorità. Altre, invece, sarebbero blockchain di nome ma non di fatto. Ciò spiegherebbe anche la sostanziale incongruenza tra i numeri approvati dal CAC e quelli stimati dal database commerciale Qichacha, che archivia circa 200,000 imprese nel settore. In aggiunta alla macchinosità della burocrazia, oneri d’altra natura contribuirebbero ad appesantire i privati. La zelante sorveglianza esercitata dal CAC scoraggerebbe infatti i puristi della blockchain, sostenitori di principi di decentralizzazione e anonimato che a fatica si sposano con lo spirito centralizzatore e i timori del partito. A inquietare il governo sarebbero ad esempio “incidenti” come l’archiviazione sulla blockchain di articoli e dati sulle proteste avvenute ad Hong Kong per evitarne il completo annichilimento voluto da Pechino.

Non stupisce quindi che le principali blockchain attive in Cina siano private, ovvero accessibili solo da utenti autorizzati e controllate da un ente centrale, e prive di criptomonete. Nel 2022 ha colpito i mercati globali il lancio di BSN Spartan Network, una piattaforma blockchain open-source atipica poiché non accessibile via cripto bensì con carta di credito, e quindi spesso definita “blockchain pubblica con caratteristiche cinesi”. Benché alcune tecnicalità permettano comunque di utilizzare la piattaforma tramite stablecoin (simil-cripto ancorato a valute fiat), e benché non sia comunque disponibile in Cina proprio perché pubblica e quindi priva di sistemi di verifica degli utenti coinvolti, la start up cinese che l’ha sviluppata si è spesso proclamata scettica sulle criptomonete, pienamente allineata con l’ufficiale filosofia locale. 

L’assenza di criptomonete, la sorveglianza statale e il macchinoso processo di registrazione scoraggiano molte imprese che guardano quindi a sponde più accomodanti, come Hong Kong e Singapore. Entrambi poli tecnologici e all’avanguardia, i due porti asiatici accolgono e incoraggiano progetti di cripto e Web 3.0 con tangibile entusiasmo. Essendo questi settori più redditizi delle infrastrutture blockchain, molte aziende cinesi continuano quindi a reclutare sviluppatori, specialisti di marketing, e rappresentanti vendite per i mercati esteri, pur mantenendo uffici nella Cina continentale. 

Ma se la blockchain si può piegare e compromettere, ciò non è altrettanto vero, o semplice, per le criptomonete. Sistema dapprima antagonista e quindi parallelo ai mercati finanziari tradizionali in molti paesi, le criptovalute sarebbero inflessibili portatrici dell’anonimato e della fluidità finanziaria tanto invise al partito. Ancor più temuta sarebbe la fuga di capitali verso l’estero, relativamente agile rispetto ai macchinosi bonifici internazionali dai cento requisiti e mille cavilli. Nonostante il divieto, però, molti continuano a effettuare transazioni in criptovalute tramite piattaforme per acquistare bitcoin & co da privati (con pagamento anche via WeChat o Alipay) o tramite agenti finanziari improvvisati in grado di convertire grandi somme di RMB in stablecoin. Relativamente semplice è imbattersi infatti in account WeChat, anonimizzati da foto feline e generici nomi, che offrono l’agile conversione di RMB in cambio di commissioni di vario ammontare e a fronte di alcune delucidazioni sul capitale da trasferire. Semplice è anche immaginare i rischi di tali pratiche.

E mentre in Cina ci si arrabatta per gestire illegali portafogli digitali, la vicina Hong Kong promuove progetti di cripto e Web 3.0 come se fosse indipendente e distante da Pechino. Xi Jinping ha infatti puntato tutto su Hong Kong per studiare le dinamiche delle criptovalute e rivitalizzare l’economia locale dopo tre anni di depressione da Covid. Hong Kong, spesso definita “laboratorio cinese”, ha recentemente adottato una serie di politiche incredibilmente favorevoli alle criptovalute, il cui pinnacolo sarebbe stato raggiunto il primo giugno di quest’anno con il nullaosta per offrire servizi di criptovalute a utenti al dettaglio, e non più esclusivamente a corporazioni ed enti finanziari. In altre parole, cripto per tutti. A sorprendere molti, però, non è stata solamente la mossa di portata epica, bensì il fatto che questa sia stata annunciata in un servizio mandato in onda sulla televisione statale cinese CCTV il 23 maggio di quest’anno, fatto più unico che raro. A notare il logo dei Bitcoin è stato CZ, cofondatore e amministratore delegato di Binance, uno dei più grandi exchange di criptovalute al mondo. CZ ha commentato il servizio su Twitter, mossa che avrebbe spinto CCTV a rimuovere il video per evitare un maremoto mediatico. E a pochi giorni di distanza dall’accadimento, le autorità di Shanghai hanno effettuato l’arresto di alcuni impiegati di Trust Reserve, azienda promotrice di una stablecoin ancorata allo CNH, la valuta cinese quotata offshore. 

Rimangono quindi ancora divise le opinioni sull’eventuale riapertura del mercato cinese alle criptovalute. Se alcuni si lasciano abbagliare dal portentoso progresso di Hong Kong e dall’improvviso manifesto interesse di Pechino per le criptomonete, altri sottolineano come il regime normativo di Hong Kong sia alquanto restrittivo, ben ancorato a Pechino, e che la prima legge sulla sicurezza informatica di Hong Kong non tarderà ad arrivare per definire ancora più chiaramente i confini del Web 3.0. Tutti, soprattutto il settore privato cinese, rimangono in attesa di scoprire se Hong Kong rimarrà il laboratorio cripto in perpetuum, o se la Cina deciderà di creare un mercato locale “con caratteristiche cinesi”. 

Di Laura Baldis