In questi giorni nell’ovest del Paese sono scoppiate violenze intracomunitarie tra buddisti e i Rohingya, minoranza musulmana non riconosciuta dal governo. Il bilancio è di 28 morti e 52 feriti. Chi sono e da dove vengono i Rohingya, un’etnia "tra le più discriminate al mondo".
Il percorso riformista birmano è messo a rischio dalle violenze tra le comunità buddista e musulmana scoppiate nell’ovest del Paese. A dirlo è stato ieri l’inviato dell’Onu nello Stato di Rakhine, riprendendo quanto già paventato dal presidente birmano Thein Sein nei giorni immediatamente successivi alle violenze.
Il bilancio ufficiale delle vittime è di almeno 28 morti e 52 feriti, ma non tiene conto dei 10 musulmani linciati il 3 giugno scorso per vendetta per lo stupro e l’omicidio di una ragazza, la scintilla di quanto successo nelle settimane successive. La vittima si chiamava Ma Thida Htwe, 27 anni. I colpevoli individuati dalla polizia erano invece tre musulmani.
Il delitto si è così inserito nella difficile convivenza tra la comunità buddhista (maggioranza nello Stato come nell’intero Paese) e i Rohingya, musulmani la cui minoranza non è riconosciuta tra i gruppi etnici della federazione birmana e discriminati da decenni perché indicati come immigrati irregolari dal vicino Bangladesh, nonostante molte famiglie vivano in Birmania da generazioni.
“Li chiamano bestie, maiali, terroristi, e dicono anche di peggio, quando naturalmente ci si ricorda della loro esistenza”, scrive la rivista Irrawwaddy, voce della dissidenza birmana all’estero. I Rohingya sono “tra le popolazioni più discriminate al mondo", sottolinea il mensile.
“Per i birmani devono tornarsene in Bangladesh, mentre dall’altra parte del confine li considerano birmani. Loro sono stretti nel mezzo”, spiega Chris Lewa, dell’organizzazione non governativa Arakan Project. Lo dimostra anche la decisione della guardia costiera bangladeshi di rimandare indietro tre imbarcazioni con a bordo almeno mille profughi, attirandosi così le ire di Human Rights Watch che accusa Dacca di violare i propri compiti internazionali non dando assistenza a quanti ne hanno bisogno.
Nello stato di Rakhine, dove il governo ha imposto il coprifuoco, sembra tornata una calma apparente sorvegliata dai soldati, aiutati in questo dalle forti piogge che spingono gli abitanti a rimanere in casa. La preghiera del venerdì è stata cancellata, così da evitare raduni troppo numerosi che possano fare da acceleratore per nuove violenze.
Il governo dal canto suo cerca di non addossare le responsabilità su una comunità o sull’altra. Chi ha preso parte alle violenze, in cui sono state bruciate oltre 2500 abitazioni lasciando 30mila sfollati – indifferentemente buddisti o mussulmani – è stato definito semplicemente “terrorista”.
Nei commenti sui forum birmani la reazione è stata invece soprattutto di pancia e xenofoba. Poco importa che nelle violenze vittime e carnefici siano divisi equamente tra l’una e l’altra comunità. Per gli internauti il bersaglio sono principalmente i musulmani.
Rancori antichi. I primi Rohingya si ritiene fossero i discendenti degli arabi arrivati fino alle coste del sudest asiatico. Una seconda ondata fu quella degli indiani giunti assieme al governo coloniale britannico e pertanto guardati con sospetto e astio.
Sentimenti che la giunta birmana al potere ha alimentato non riconoscendoli tra i 135 gruppi etnici del Paese. I musulmani sono diventati un capro espiatorio. Nel 1978 in 200mila furono costretti a fuggire in Bangladesh, tra il 1991 e il 1992 li seguirono in altri 250mila, molti dei quali tornarono in Birmania per intervento dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati.
La loro sorte lascia addirittura ondivago il movimento democratico birmano. La stessa Aung San Suu Kyi, hanno notato molti osservatori, non si è subito espressa chiaramente su quanto stava avvenendo.
Ieri nella conferenza stampa a margine della sua visita all’Organizzazione internazionale per il lavoro (Ilo) a Ginevra, la premio Nobel per la Pace ha chiarito che al Paese serve una nuova legge sulla cittadinanza.
Ironia della sorte proprio l’Ilo in questi giorni ha acconsentito alla revoca delle misure punitive contro la Birmania, sebbene molte associazioni per la tutela dei diritti umani giudichino prematura la scelta, considerato il persistere del lavoro forzato di cui, per altro i Rohingya sono tra le prime vittime.
Allo stesso tempo, nota Francis Wade sull’Asia Times, il governo, che si sta mostrando imparziale, potrebbe trarre vantaggio dalla situazione. Mandando l’esercito, da cui non avendo cittadinanza sono esclusi i Rohingya, può riconquistare la fiducia della popolazione locale che potrebbe vedere i soldati come salvatori e non più come colonizzatori.
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