A un anno dal terremoto, una delegazione nepalese sbarca a Pechino per stringere legami più forti e darsi un’alternativa al rapporto con l’India. Ben tre ferrovie dovrebbero fare da spina dorsale per gli scambi bilaterali e cambiare gli equilibri nella regione himalayana, per una soluzione «win-win», alla cinese, che preoccupa Delhi. Non una linea ferroviaria, ma addirittura tre. È questa la promessa che lunedì scorso un alto funzionario del ministero degli Esteri cinese, Hou Yanqi, ha fatto al premier nepalese K.P. Oli, in visita a Pechino per «una missione speciale» – parole sue – cioè quella di rafforzare le relazioni bilaterali.
Una prima tratta sarebbe il prolungamento della già esistente ferrovia del TIbet, dalla città di Shigatse al confine di Gyrong e quindi all’interno del Nepal. Un’altra, costruita dai cinesi, collegherebbe tre città nepalesi tra di loro. Nessuna anticipazione sulla terza, ma le autorità di Pechino hanno dato mandato alle proprie imprese affinché esplorino le opportunità date dal piano di sviluppo infrastrutturale del Paese himalayano.
Durante la visita di Oli – che è avvenuta pochi mesi dopo il varo della prima costituzione post-monarchica del Nepal – sono stati firmati anche 10 protocolli d’intesa e si è decisa la realizzazione di un aeroporto nei pressi di Pokhara, nota meta turistica nepalese: 216 milioni di dollari in arrivo dalla Exim Bank cinese, sotto forma di prestiti agevolati. Infine, si è discusso di un possibile accordo di libero scambio bilaterale.
La Cina entra così da par suo in Nepal, facendo una delle cose che le riescono meglio: le infrastrutture. Sulla quali, però viaggia tutto il resto.
Lato nepalese, la missione a Pechino serve soprattutto a creare un’alternativa rispetto al legame con l’India, che a Katmandu va sempre più stretto. Solo a febbraio si è infatti concluso il blocco di cinque mesi del confine di Raxaul-Birgunj, dove passa più di due terzi del commercio transfrontaliero tra India e Nepal. Organizzata dagli attivisti del United Democratic Madhesi Front (UDMF) – un raggruppamento etnico che chiede più diritti e spazio nella costituzione nepalese – la protesta ha ostacolato le forniture di carburante e medicinali così vitali per il Paese colpito dal terremoto dell’aprile 2015 e stretto tra India e Cina, senza sbocchi sul mare. Katmandu intende ora importare il 33 per cento del proprio fabbisogno annuo di 1,8 milioni di tonnellate di petrolio proprio dall’ex Celeste Impero. Il commercio era reso fino a oggi difficile dall’inadeguatezza delle linee di comunicazione.
Tra gli accordi siglati a Pechino, la delegazione nepalese ha quindi definito «pietra miliare» il cosiddetto «Transport Transit Agreement», il cui significato è tanto semplice quanto vitale: dalla Cina passeranno i beni necessari provenienti da Paesi terzi, il che consente al Nepal di mettere fine alla dipendenza dal porto indiano di Kolkata (Calcutta). L’alternativa cinese si chiama Guangzhou – la vecchia Canton – porto, sì, ma anche principale centro di quel delta del fiume delle Perle che è sinonimo di cintura manifatturiera. E qui appare in tutta la sua evidenza il fatto che, oltre al petrolio, dalla provincia del Guangdong cinese potranno arrivare merci di ogni tipo. Classica soluzione win-win: il Nepal ottiene ciò di cui ha bisogno, la Cina apre un nuovo mercato – anche se piccolo – alla propria sovrapproduzione industriale. A riprova di questo fatto, ecco un altro degli accordi siglati a Pechino: 32mila famiglie nepalesi saranno provviste di pannelli solari made in China – dispositivi cronicamente in oversupply – e in cambio Pechino avrà mano libera per esplorare i giacimenti di gas del Paese himalayano. Tombola.
Per mantenere il proprio naturale vantaggio strategico sul Nepal – che è circondato su tre lati dall’India e solo a nord dalla Cina – a febbraio Delhi aveva offerto accesso a un altro porto, oltre a Kolkata: quello di Visakhapatnam. In un articolo per Indian Express, l’analista indiano Raja C. Mohan vede ora un progressivo avvicinamento delle elite nepalesi alla Cina proprio in funzione anti-indiana, ma confida nella precauzione di Pechino, che di solito non si spinge mai troppo in là – salvo tutelare i propri interessi molto pratici – quando si tratta di «invadere» quella che giudica la sfera d’influenza di qualcun altro (per la medesima ragione, la Cina non ha teso la mano al governo Tsipras quando subiva il ricatto della «Troika», ma questa è un’altra storia). Insomma, la Cina preferisce far scivolare progressivamente a proprio vantaggio situazioni che restano comunque stabili, non compiere rotture fragorose. Mohan sottolinea però che, qualora il Katmandu si avvicinasse troppo a Pechino, Delhi dovrebbe solo recriminare su se stessa: tra Nepal e India restano insolute vecchie questioni di frontiera e durante la visita indiana di Oli, a febbraio, le due diplomazie non hanno diramato un comunicato congiunto.
A Delhi qualcuno è nervoso. Si teme che il Nepal faccia da ponte a un allargamento dell’egemonia cinese in direzione del subcontinente indiano. Un’egemonia che si basa su una notevole potenza di fuoco: investimenti, binari, merci a go go; e la proverbiale capacità di cogliere la palla al balzo.