Prosegue a passo spedito il cammino del Bhutan sulla strada della democrazia. Grazie al processo di riforma avviato dal quarto re bhutanese, padre dell’attuale monarca, nel 2006, per la seconda volta nella sua storia il popolo del piccolo regno himalayano andrà ai seggi per eleggere la Camera bassa.Dopo aver vissuto per secoli senza neppure sospettare cosa potesse essere un parlamento, sabato prossimo il popolo bhutanese tornerà alle urne per la seconda volta in meno di un mese e mezzo per l’ultimo e decisivo turno delle elezioni della Tshogdu, l’Assemblea nazionale, la Camera bassa del Chi Tshog, il supremo organo legislativo. A contendersi i 47 seggi a disposizione saranno l’attuale forza di governo, il Druk Phuensum Tshogpa (Dpt) o Partito della pace e della prosperità, e il People democratic party (Pdp), le due formazioni che hanno ottenuto più voti durante la prima tornata elettorale del 31 maggio, che ha visto la partecipazione di quattro sfidanti, due dei quali eliminati.
Da un punto di vista squisitamente storiografico, quello che vedrà impegnati i 390mila elettori (su una popolazione complessiva di circa 750mila persone) è il secondo confronto democratico della storia del Paese. Le prime elezioni si sono tenute infatti nel marzo del 2008 grazie alla riforma in senso costituzionale della monarchia avviata da Jigme Singye Wangchuck, quarto re del Bhutan, che nel 2006 ha abdicato volontariamente in favore del figlio, Jigme Khesar Namgyel Wangchuck, cedendogli il titolo di Druk Gyalpo, letteralmente Re Drago. Se, però, dalla prospettiva storiografica si passa a quella politica, le votazioni di sabato devono essere considerate senza precedenti, visto che cinque anni fa si erano presentati all’elettorato solo due partiti e non si era fatto ricorso al sistema del doppio turno.
Nell’arco di questo lustro il piccolo regno himalayano ha sperimentato una serie di profondi cambiamenti, conoscendo un invidiabile sviluppo economico, intensificando consistentemente le sue relazioni con l’esterno e, soprattutto, riuscendo a compiere passi da gigante lungo la strada verso la democratizzazione della politica e della società.
Le aperture di Jigme Singye Wangchuck, iniziate in realtà già nel 1998, quando il sovrano decise di cedere una parte dei suoi poteri e di dotare il Paese di un governo, sono state naturalmente fondamentali da questo punto di vista, ma una parte non indifferente del cammino compiuto dal Druk Yul, ossia la Terra del Drago, come è chiamata dai suoi abitanti, non può non essere attribuito all’entusiasmo con cui il popolo bhutanese ha risposto ai mutamenti in atto.
In soli cinque anni, ad esempio, i partiti sono più che raddoppiati e ai due iniziali se ne sono affiancati altri tre, due di tendenza centrista ed entrambi guidati da donne, il Druk Nymrub Tshogpa e il Druck Chirwang Tshogpa, e un terzo, il Bhutan Kuen Nyam Party, che è stato estromesso dalla competizione per non essere riuscito a proporre un candidato in ogni seggio come previsto dalla legge (che annovera il possesso di una laurea tra i requisiti per presentare la propria candidatura).
E se nelle precedenti consultazioni una parte dell’elettorato era rimasto escluso perché impossibilitato fisicamente a raggiungere i seggi a causa dell’impervia geografia del Paese, questa volta i commissari elettorali e i candidati si sono attrezzati per far votare il maggior numero possibile di persone, collocando le postazioni elettorali a non più di due ore di cammino dai centri abitati e distribuendo telefoni e fax satellitari per garantire il voto nelle regioni più remote. La stampa locale si è sbizzarrita nel riferire alcuni aneddoti sulla campagna elettorale, raccontando di candidati costretti a tre ore di scalata verticale per arrivare a consegnare i propri manifesti direttamente nelle mani degli abitanti di villaggi sperduti sulla cima delle montagne più alte del mondo.
Il risultato è stata un’affluenza al primo turno che il think tank South Asia analisys group stima del 55 per cento, un valore non indifferente se si considerano le torrenziali piogge che hanno annaffiato le consultazioni. E anche durante il voto di aprile per il Gyelyong Tshogde, il Consiglio nazionale, la Camera alta del parlamento, formata da 5 membri scelti dal sovrano più altri 20 eletti ma privi di affiliazione partitica, che hanno il compito di monitorare l’attività del governo, controllare le leggi e riferire al re, l’affluenza era stata intorno al 50 per cento.
I temi principali su cui si confronteranno il Dpt e il Pdp sono la crescita economica, la riduzione del divario tra ricchi e poveri, il miglioramento del sistema educativo e sanitario e lo sviluppo delle telecomunicazioni, dei trasporti e delle infrastrutture collegate.
Nel 2008 il Partito della pace e della prosperità riuscì ad aggiudicarsi 45 dei 47 seggi disponibili, riportando una vittoria che ha consentito al suo leader, Jigmi Yoezer Thinley, l’attuale Lyonchen, ossia primo ministro, di governare quasi indisturbato, concentrandosi sull’ampliamento della rete stradale nazionale e sull’elettrificazione di molte zone rurali. In un Paese in cui per il 40 per cento della popolazione l’agricoltura rappresenta l’unica fonte di sostentamento, questo gli ha garantito il sostegno di una fetta importante dell’elettorato. Anche grazie agli investimenti promossi dal Dpt, il Pil del Bhutan è cresciuto del 10 per cento nel 2011, del 7,5 durante il difficile 2012 e secondo le previsioni dell’Asian development bank dovrebbe arrivare all’8,6 alla fine di quest’anno.
Non solo: Jigmi Yoezer Thinley si è anche adoperato per allentare i pesanti legami che uniscono Timphu a Nuova Delhi, cercando di emanciparsi dall’influenza dell’ingombrante vicino, da cui il regno himalayano dipende per aiuti, investimenti e importazioni, tanto che la sua moneta, lo ngultrum, è agganciata alla rupia con un rapporto di uno a uno.
Per fare questo, però, il Lyonchen ha seguito quella che tutti gli analisti concordano nel ritenere una strada rischiosa, e che porta dritta a Pechino. Così, nel momento in cui i rapporti con il governo indiano hanno iniziato a raffreddarsi, i suoi avversari hanno avuto gioco facile nell’accusarlo di scarsa abilità politico-diplomatic.
Questi attacchi, unitamente alla condanna per corruzione ricevuta dal ministro degli Affari interni e dal presidente del parlamento lo scorso marzo, alla crescente disoccupazione giovanile e ai problemi di liquidità che la rupia, e dunque lo ngultrum, sta sperimentando, impediranno con ogni probabilità al Dpt di ripetere il successo del 2008.
Al primo turno il partito al governo ha ottenuto 93.949 voti su 211.018, riportando la vittoria in 33 collegi, mentre l’opposizione ha preso 68.650 preferenze e conquistato 12 collegi. Rispetto al 2008 il Pdp si è rafforzato nel Sud-Ovest e nelle regioni centrali; parallelamente il Dpt ha perso influenza in molte aree urbane, proprio a causa della grande attenzione riservata allo sviluppo delle campagne, che lo ha portato, per stessa ammissione del suo leader, a mettere in secondo piano i bisogni dei centri cittadini.
Fare previsioni, in questo scenario non è facile, anche perché cinque anni fa il People democratic party riuscì a guadagnare circa un terzo dei voti ma alla fine fu punito da una legge elettorale che assegna un lauto premio a chi ottiene più preferenze. In ogni caso la vittoria del Dpt appare abbastanza scontata.
La storia insegna che per qualsiasi sistema politico che aspiri alla democrazia le seconde elezioni rappresentano il vero test di verifica, visto che le aspettative e le pressioni che accompagnano il primo voto finiscono inevitabilmente per comprometterne la “spontaneità” e “credibilità”. Nella stragrande maggioranza dei casi le transazioni verso la democrazia avvengono in modo violento e richiedono il pagamento di un prezzo altissimo per la popolazione. Non così in Bhutan, dove al momento della sua abdicazione il re Jigme Singye Wangchuck aveva solo 51 anni, godeva di una popolarità enorme e non si era mai scontrato con qualcuno che si opponesse al suo potere.
Quello della Terra del Drago è un caso estremamente raro di passaggio completamente pacifico verso un sistema democratico, reso possibile da una parte dalla lungimiranza del suo sovrano e dall’altra dalla forte coesione del popolo bhutanese, che ha un rispetto profondo per il concetto di “dovere verso il Tsa Wa Sum”, un’idea che può essere tradotta con “dovere verso il re, la patria e il popolo”. Lo dimostra il fatto che nel momento in cui la commissione elettorale ha escluso dalla competizione il Bhutan Kuen Nyam Party per non essere riuscito a trovare un candidato in possesso di laurea da presentare nel minuscolo distretto di Gasa, gli altri quattro partiti si sono uniti in un appello perché il loro rivale fosse comunque ammesso al voto (appello comunque caduto nel vuoto). E anche il fatto che i bhutanesi abbiano dovuto inventare una parola nuova per indicare il leader dell’opposizione, visto che tutte quelle che esistevano avevano una connotazione negativa, è un fatto che spinge a riflettere.
Sarebbe sbagliato però abbandonarsi all’affascinante suggestione del famoso “Pil della felicità”, che ha reso il Bhutan celebre in tutto il mondo, e considerare questo una sorta di Paese della favole. Perché naturalmente anche il piccolo regno ha i suoi problemi e i suoi lati oscuri, come sanno bene gli oltre 850mila profughi di etnia nepalese espulsi dal Paese negli anni Novanta e ancora oggi costretti a vivere "prigionieri" in campi al confine con il Nepal. Persone a cui non un singolo candidato alle elezioni ha dedicato una riga del suo programma.
* Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra.