Quel che è successo il 23 agosto ormai si è saputo anche ben oltre i confini cinesi. Il passa parola tra i festival e la mobilitazione mediatica hanno fatto molto. Ma vogliamo tornare a raccontare quel giorno e a chiederci: dopo l’interdizione del Beijing Independent Film Festival, che ne sarà del China Independent Film Festival? Testimonianze a confronto per fotografare una situazione che sembra peggiorare in sordina.
Ci risiamo: ci troviamo nuovamente a parlare del destino dei festival cinematografici cinesi. Una contingenza che negli ultimi tre anni si è fatta sempre più serrata, quasi ad apparire come una morsa che si sta lentamente stringendo attorno al collo della libertà cinematografica degli indipendenti cinesi. Si tratta di un nutrito gruppo di autori di cui una parte ancora racconta di verità non dette, e un’altra più moderatamente parla di argomenti accettati ma con una autonomia linguistica e talvolta economica, da risiedere (per amore o per forza) all’esterno delle fila del mainstream cinese.
Ecco, quel che è successo il 23 di agosto ormai si è saputo anche ben oltre i confini cinesi, grazie anche a quella mobilitazione mediatica di supporto nata dal Festival di Rotterdam che, nella forma di una petizione virtuale, si è ufficialmente schierata contro la presa di posizione del Governo cinese. Insomma, il Beijing Independent Film Festival sarà stato censurato, ma il suo fantasma ha preso un volo intercontinentale.
La telecronaca di come si è arrivati a chiudere la porta della sala di proiezione a Songzhuang, deve iniziare prima del 23 agosto, data di inaugurazione ufficiale del festival dove i tafferugli si sono concretizzati, ma le operazioni pratiche di fermo erano in realtà iniziate già prima. Infatti era da un po’ che le forze dell’ordine avevano intimato alla squadra di Li Xianting di desistere dallo svolgere il festival; pareva esistere una vaga speranza che si potesse spostare in quel di Yanjiao, nella provincia dello Hebei, non molto lontano dal villaggio di Songzhuang. Quest’ultima è una località che è diventata un po’ di smistamento per artisti che non gravitano più attorno a Pechino-centro per la periferia, nella speranza di essere lasciati in pace. E’ qui infatti che ha sede la Fondazione di Li Xianting, illustre critico e letterato, un intellettuale di spicco della Cina artistica moderna. Inoltre, è proprio qui che l’anno scorso c’è stato il taglio della corrente che ha impedito lo svolgersi fino alla fine dell’edizione numero dieci del festival.
Quest’anno, la corrente era stata tagliata con largo anticipo, in modo da chiarire la posizione ufficiale delle istituzioni a riguardo dell’evento; dopodiché la vaga speranza di decentrare le proiezioni è svanita in breve, quando anche alle sale contattate in quel di Yanjiao sono arrivate telefonate intimidatorie. Era il 21 agosto, giusto un paio di giorni prima dell’inaugurazione ufficiale. Li Xianting alza le mani, cosciente che non ci sarebbe stato altro da fare per poter convincere i piani alti delle buone intenzioni del BIFF. A quel punto, la squadra prepara la propria silente guerriglia, distribuendo maglie contro l’oblio: un enorme ting 停, di “fermare, sospendere” che campeggia al centro nero su bianco, e che un po’ ricorda il suono di Li Xianting, ma che soprattutto ricorda di non dimenticare.
Arriva il 23. Il pubblico accorre alla sede della Fondazione (in realtà è la sede numero due, che quella numero uno l’avevano già fatta chiudere l’anno scorso): ci sono giovani e meno giovani, cinesi e stranieri. Due macchine della polizia e un gruppo di presunti contadini impediscono l’accesso ai locali. Sono minacciosi soltanto a parole e un gruppo si spinge fino alla porta d’ingresso, dove un foglietto striminzito recita “Fermata l’edizione del festival. Ci scusiamo per il disagio”. “Perché?” chiedono gli astanti; “Non c’è un perché.” gli viene risposto. Il clima non si distende, anche perché tutti i presenti fanno il possibile per registrare quel che sta succedendo. Alcune immagini trovano la luce (ovvero Youtube) e quel che sembra è che da un iniziale scontro a parole contro bruti, le cose si facciano più serie. Qualcuno mette le mani addosso a qualcun altro, si danneggiano cellulari, videocamere, ed ecco che non si minaccia più soltanto a parole.
Intanto la polizia ha circondato anche l’abitazione privata di Li Xianting, che viene convocato alla Fondazione per procedere all’ispezione, o meglio alla perquisizione. Si calcola che oltre mille film siano stati sequestrati, e con essi anche i computer e tutto il materiale di anni di ricerca e attività di promozione della Fondazione per gli artisti cinesi. Li Xianting, Wang Hongwei e Fan Rong passano all’ufficio di polizia per il verbale e fuori da quelle mura si raccoglie la folla di sostenitori che iniziano a dimostrare il proprio disaccordo contro i metodi senza contraddittorio delle forze dell’ordine: urli, candele accese o, più d’efficacia, fari delle auto puntati dritto all’interno per mostrare ai tre organizzatori che c’è chi è con loro. Che succede ora?
C’è chi teme per l’incolumità di Li Xianting vista la precedente esperienza con Ai Weiwei che, parimenti al critico, era ben esposto sulla scena internazionale ma è stato comunque incarcerato. Come per il ben più noto artista hanno individuato nel materiale requisito dal suo studio le prove di colpe economico-finanziare. Si teme ora il ripetersi della stessa dinamica. Tra l’altro, il 2014 è stato un anno molto delicato in quanto a persecuzioni e detenzioni: diversi artisti, anche coloro che si pensavano potessero in qualche modo giovare di una protezione internazionale – tra cui ad esempio Guo Jian, in possesso di passaporto australiano e detenuto a ridosso del venticinquennale di Tian’anmen – sono stati trattenuti; senza parlare dei militanti per i diritti civili, tra cui Guo Feixiong giusto per citare l’ultimo della serie.
E’ evidente che dietro una tanto acclamata politica di lotta alla corruzione, il Governo di Xi Jinping stia combattendo anche ad altro. Forse non sono da imputare a lui tutte le responsabilità di questa politica dell’attacco sotterraneo, poiché è dal 2012 che il buio della sala cinematografica indipendente è violentemente illuminato a giorno. Il pensiero che tra gli artisti si sta facendo largo è che non solo ci sia una volontà di interdire gli avvenimenti pubblici di questo genere, ma che gli interventi stiano scavando anche a livello privato, andando ad interferire con riunioni private e ritrovi nelle quattro mura casalinghe. Non sembra neppure più che la facciata esterna interessi al Governo, così occupato ad azzittire queste voci: tant’è che la petizione diffusa in rete a sostegno del Beijing Independent Film Festival, che ha fatto il giro dei continenti, ha tra i firmatari il Berlinale Forum, il DocLisboa, il New York Film Festival così come il Torino Film Festival; e non ha suscitato la benché minima reazione ufficiale. Come se non fosse mai esistita, sebbene punti sfacciatamente il dito contro la condotta anti-democratica cinese.
Ora, il prossimo ring di questo scontro ad armi impari, sarà Nanchino. Già nel 2012 era stata una catastrofe, con il festival azzittito a pochi giorni dall’inizio e costretto ad una edizione 2013 in sordina. Quest’anno c’è molto di più in ballo: c’è l’ultimo baluardo della espressione indipendente ancora in piedi, dopo che Guangzhou, lo Yunnan e ora Pechino hanno ceduto alle intimidazioni. Il China Independent Film Festival ha dalla sua parte il fatto che non ha mai avuto una accezione direttamente e sfacciatamente politica; ora si appella a questo lo staff, e alla collaborazione con l’Università Normale di Nanchino, per dimostrare ai piani alti che non c’è volontà di sfida, ma solo volontà di divulgazione artistica.
Purtroppo però, il fiato sul collo lo sentono eccome. Sentono che dovranno scontrarsi con la possibilità che ci sia una interdizione diretta, che mette gli individui che combattono per questa causa, in serio pericolo. Sentono che forse si troveranno per strada, lasciati a piedi all’ultimo minuto dalle sale che avevano garantito l’ospitalità. E allora, è qui che si preparano i piani alternativi, è adesso che questa causa è più di una semplice promozione per il cinema, ma rappresenta un ultimo territorio di libera espressione, seppure controllata, sebbene dipendente dall’indipendenza.
Che passione nel sentire questi organizzatori di festival parlare. Che passione mostrano nel cercare una strada da poter percorrere, una crepa nel muro da poter penetrare, ma facendo tutto senza troppo clamore affinché nessuno si accorga di questo ingresso. Tentano di portare avanti la battaglia in maniera dimessa e con diplomazia. Chi mi stringe la mano, mi saluta dicendo che farà tutto quello che è nelle sue possibilità per non far mancare l’appuntamento di Nanchino. E io ci credo e lo sostengo. Perché la perdita di questo sarebbe la nebbia, anche per i più giovani che ormai in queste battaglie credono sempre meno e si riducono a girare i film per loro stessi. Il pubblico ancora c’è e ha bisogno di vedere, di essere formato e di entrare in contatto con questa rigogliosa produzione indipendente che esiste, palpita ed è anche piena di buone idee.
*Rita Andreetti nasce a Ferrara nel 1982. Si è occupa attivamente di cinema indipendente in Italia anche tramite il portale Indipendentidalcinema.it. Scrive per la rivista Taxidrivers.it e per FareFilm.it di cinema asiatico e cura un blog per Vanity Fair in cui racconta della sua esperienza: cineserie.vanityfair.it. Sogna un giorno di poter parlare cinese correntemente e distribuire film italiani a questo immenso pubblico.