Lanciato inizialmente dagli studenti contro il sistema delle quote riservate nella pubblica amministrazione, il movimento di contestazione si è poi rivolto contro la repressione dei manifestanti e, più in generale, contro la prima ministra, costretta a fuggire in India. Da quel giorno il Bangladesh ha avviato un difficile percorso di ricostruzione nazionale, pieno di luci e ombre.
Il 1 maggio 2014 il cadavere di sette persone viene trovato galleggiare sulla superficie del fiume Shitalakkha, 35 chilometri a sud di Dacca, con l’addome perforato e appesantito da mattoni. Al collo i segni di uno strangolamento. Sono i dettagli di uno dei casi più cruenti avvenuti durante i sedici anni che hanno visto ininterrottamente al governo Sheikh Hasina. Sedici anni scanditi da sparizioni, omicidi e arresti indiscriminati contro attivisti e oppositori politici. Sedici anni finiti bruscamente ad agosto dopo settimane di proteste, degenerate in disordini e altre violenze. Lanciato inizialmente dagli studenti contro il sistema delle quote riservate nella pubblica amministrazione, il movimento di contestazione si è poi rivolto contro la repressione dei manifestanti e, più in generale, contro la prima ministra, costretta a fuggire in India.
Da quel giorno il Bangladesh ha avviato un difficile percorso di ricostruzione nazionale, pieno di luci e ombre. Il 6 agosto il presidente della Repubblica, Mohammed Shahabuddin, ha nominato come capo del nuovo governo provvisorio l’economista e premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, noto per il suo impegno nella lotta alla povertà. Ma anche per essere stato perseguito dal governo Hasina in 150 casi legali che Amnesty International ha definito un “palese abuso delle leggi sul lavoro e del sistema giudiziario”.
Il 17 il Tribunale internazionale dei crimini (ICT of Bangladesh) ha ordinato l’arresto dell’ex prima ministra, per cui aveva chiesto l’estradizione dall’India nel mese di settembre. Quello stesso tribunale da lei istituito nel 2009 per indagare sul presunto genocidio commesso nel 1971 dall’esercito pakistano e nel corso degli anni spesso criticato da Human Rights Watch per la scarsa equità e trasparenza. Sì perché Hasina non è sempre stata una “lady di ferro”.
Figlia di Sheikh Mujibur Rahman, che guidò il Bangladesh verso l’indipendenza dal Pakistan, sopravvisse al resto della famiglia trucidata durante un colpo di stato. Rimpatriata dall’esilio, contribuì a porre fine al regime militare e diventò premier per la prima volta nel 1996. Poi la sconfitta alle elezioni successive e un attentato nel 2004 la cambiarono per sempre. Quando tornò in carica nel 2009, era una leader diversa: paranoica e autoritaria come suo padre.
Da allora, secondo le organizzazioni per i diritti umani, più di 700 persone sono state fatte sparire. Stime probabilmente molto al di sotto dei numeri reali per via delle pressioni del governo che hanno reso difficile documentare i casi. Circa 450 delle persone scomparse sono state ritrovate vive, rilasciate mesi o anni dopo con l’ordine di mantenere un rigoroso silenzio. 80 rapiti sono stati restituiti alle famiglie già cadavere. Almeno 150 sono ancora dispersi.
A svolgere il lavoro sporco è stata la Rapid Action Batallion, l’unità antiterrorismo creata nel 2003 (col supporto di Stati Uniti e Regno Unito) che Hasina ha trasformato in uno “squadrone della morte” per eliminare le voci scomode. Chi invece veniva risparmiato finiva a Aynaghor, la cosiddetta “Casa degli Specchi”: il centro di detenzione nel cuore di Dacca dove l’intelligence bangladese ha trattenuto e torturato le vittime delle sparizioni forzate fino alla chiusura l’11 settembre scorso.
In tutto, l’ICT ha ricevuto almeno 31 denunce per genocidio e crimini contro l’umanità, di cui 13 presentate all’ufficio del procuratore e le restanti all’unità investigativa. Le inchieste a carico dell’ex premier sono oltre 200, con ipotesi di reato che comprendono l’omicidio, i crimini contro l’umanità e il genocidio, il tentato omicidio e il sequestro di persona. I giorni delle proteste sono stati un vero massacro. Secondo un rapporto preliminare pubblicato il 16 agosto dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, basato su notizie riportate dalla stampa e dati forniti dagli organizzatori delle manifestazioni, almeno 600 persone sono state uccise solo tra il 16 luglio e l’11 agosto.
In particolare, circa 400 persone sono morte tra il 16 luglio e il 4 agosto, mentre altre 250 nell’ultima ondata di violenze, tra il 5 e il 6 agosto. Tra i morti risultano almeno 32 bambini e quattro giornalisti. Per non parlare dei feriti: diverse migliaia. Ci sono “forti indicazioni” di un uso della forza “non necessaria e sproporzionata” nella risposta alla situazione, spiega il rapporto. Le presunte violazioni includono esecuzioni extragiudiziali, arresti e detenzioni arbitrarie, sparizioni forzate, torture e maltrattamenti, gravi restrizioni all’esercizio delle libertà di espressione e di riunione pacifica.
Cancellare gli orrori del passato non sarà facile. In carica dall’8 agosto, Yunus ha creato sei commissioni per promuovere una serie di riforme – dal sistema elettorale a quello giudiziario – promettendo di portare la “democrazia” nel paese. Ha incluso i leader del movimento studentesco nel nuovo gabinetto. E, soprattutto, ha dichiarato guerra alla corruzione. Il Bangladesh si è classificato al 149° posto su 180 nazioni nel Corruption Perceptions Index 2023 di Transparency International. Stando al Global Financial Integrity, circa 100 miliardi di dollari sono stati fatti uscire di nascosto dal paese durante il governo di Hasina. Insomma, c’è ancora tanto da fare per riportare la giustizia. Lo sa bene il premio Nobel che ai parenti delle vittime ha chiesto di mantenere la speranza, senza tuttavia assicurare “quale sarà il risultato” delle indagini.
Secondo Tasneem Khalil, caporedattore del sito di giornalismo investigativo Netra News, due sono gli ostacoli principali: innanzitutto per portare avanti le riforme serve un governo politico eletto dal popolo, non un esecutivo di tecnocrati come Yunus. Mentre si lavora per indire elezioni entro la fine del 2025, recenti contrasti interni all’amministrazione ad interim rischiano di prolungare i tempi della transazione. E poi c’è la questione non meno rilevante dell’inclusività. Come rimarca Khalil, le sei commissioni create dal premio Nobel “sono dominate da uomini musulmani bengalesi”, e pertanto inadeguate a rappresentare la “demografia diversificata del Bangladesh”. Le tensioni religiose sono state una costante negli ultimi anni, persino nei mesi successivi alla caduta del governo Hasina.
Oltre il 90% della popolazione del Bangladesh è di fede musulmana, con la restante maggioranza di religione induista. Secondo l’ong Bangladesh Hindu Buddhist Christian Unity Council, dal 5 al 20 agosto, sono stati segnalati ben 2.010 episodi di attacchi contro la comunità indù, che vanno dagli omicidi alle violenze sessuali fino agli attacchi ai templi. Complice le falle nella sicurezza interna provocate dalle numerose defezioni tra la polizia, ritenuta dai manifestanti responsabile della repressione e pertanto presa di mira dopo la fuga dell’ex premier.
A metà settembre, in risposta al perdurare dei disordini, l’esecutivo ha concesso all’esercito (Bānglādēśh Sēnābāhinī) ampi poteri, come la possibilità di emettere mandati d’arresto e disperdere grandi raduni. Come la polizia, anche l’esercito ha rapporti molto stretti con Hasina, parente di Waker-Uz-Zaman, il capo delle forze armate che storicamente in Bangladesh hanno avuto un ruolo decisivo tanto nel mantenimento della pace quanto nelle esecuzioni extragiudiziali. In un’intervista alla Reuters, a settembre il generale ha promesso di sostenere Yunus “qualunque cosa accada, in modo che possa portare a termine la sua missione”. Passati due mesi tuttavia poco o nulla è stato fatto per assicurare alla giustizia i responsabili degli abusi tra le fila del Sēnābāhinī. Aumentano invece i timori di una crescente ingerenza dei militari nel sistema giudiziario bangladese. E i familiari delle vittime sono ancora in attesa di risposte.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su GariwoMag]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.