A chi appartiene l’altra “metà del cielo”? Su Banbiantian (半边天 “metà del cielo”) raccontiamo le storie di chi in Asia orientale lotta per la giustizia di genere in tutte le sue declinazioni.
La comunità transgender di Hong Kong può tirare un sospiro di sollievo, ma non fino in fondo. Non serve più l’intervento completo e invasivo per la riassegnazione del genere per poter cambiare i documenti di identità: lo ha stabilito una sentenza storica del febbraio 2023, resa finalmente operativa mercoledì scorso. Ma il governo della regione ad amministrazione speciale cinese pone comunque condizioni stringenti, come la rimozione del seno per gli uomini trans e del pene per le donne trans. La decisione è arrivata «dopo aver considerato con prudenza gli obiettivi politici, i pareri legali e medici, e le pratiche pertinenti all’estero», ha detto il governo in un comunicato.
Con un anno di ritardo, le autorità hongkonghesi hanno dato seguito alla sentenza “Q & Tse” del febbraio dell’anno scorso, che ha stabilito che il contrassegno di genere può essere cambiato senza il ricorso all’operazione che annulla la capacità riproduttiva delle persone trans (politica diffusa in diversi Paesi dell’Asia orientale). «La nuova politica è ancora problematica dal punto di vista dei diritti umani», dice al Manifesto Henry Edward Tse, attivista trans e fondatore dell’associazione “Transgender equality Hong Kong”, che ha vinto la causa l’anno scorso, «ma almeno è un passo avanti».
A Hong Kong la carta di identità è necessaria, tra le altre cose, per accedere a ospedali, bagni pubblici, edifici residenziali, banche. È obbligatorio portarla con sé, «se non la hai ti metti nei guai», aveva raccontato Tse a China Files lo scorso anno. L’attivista ha passato gli ultimi sette anni tra tribunali e azioni di sensibilizzazione, ingaggiando una battaglia legale contro le autorità governative che va avanti dal 2017. Dopo aver compiuto la transizione “F to M” (“female to male”) mentre si trovata nel Regno Unito per studio, è tornato a Hong Kong per lavoro. «Non essere riuscito a farmi riconoscere il cambio di genere mi ha creato problemi», aveva detto a China Files dopo il pronunciamento del tribunale, «non sono più andato in piscina, né in nessun altro luogo in cui il mio genere fosse messo in questione. Ho smesso in andare in banca, preferivo usare il bancomat».
Per legge, per cambiare il contrassegno di genere sulla sua carta di identità avrebbe dovuto asportare l’apparato riproduttivo. Il suo caso è arrivato fino alla Corte di appello finale di Hong Kong, e a febbraio 2023 Henry Tse ha portato a casa la vittoria. Le immagini di quel giorno lo ritraggono con in mano la bandierina azzurra, rosa e bianca della comunità trans e un faichun (tipica decorazione usata durante il Capodanno lunare) con su scritto: “causa vinta!”.
Dopo più di un anno, nonostante la sentenza, il Dipartimento per l’Immigrazione di Hong Kong non aveva ancora approvato le sue richieste di modifica. «Ho dovuto aspettare mesi e mesi per il cambio dei documenti, quindi ho fatto causa al governo di nuovo a marzo 2024», racconta. «Per tutto questo tempo ho continuato a soffrire l’umiliazione di avere una carta di identità sbagliata». «Ho chiesto un risarcimento per danni psicologici ed emotivi», dice, «poco dopo hanno deciso di approvare le richieste di modifica. Ma la nuova politica non mi toglierà il dolore che ho provato fino ad oggi».
Da aprile 2024, le persone trans possono avere un nuovo documento di identità, ma è obbligatorio modificare le «caratteristiche sessuali» – si legge nel comunicato del governo – dichiarare di avere una disforia di genere e di aver vissuto per almeno due anni «nel sesso opposto», e che «si continuerà a vivere nel sesso opposto per il resto della vita». È obbligatorio anche continuare a sottoporsi a un «trattamento ormonale» presentando «i referti delle analisi del sangue per controlli casuali».
Henry Tse si dice fiducioso, nonostante tutto. La sua esperienza ha scatenato un cambiamento politico che avrà impatto su molte persone. «Quando la maggior parte dei media ha iniziato a parlare della nuova politica, ha distorto la notizia in una narrazione completamente negativa», racconta Tse. «Ma dal 3 aprile sono state approvate 32 nuove domande di persone che hanno diritto a un nuovo documento d’identità. Questo è un grande cambiamento» dice. «Chiaramente, non può essere una soluzione definitiva», conclude, «ma è un piccolo passo avanti».
[pubblicato su il manifesto]Laureata in Relazioni internazionali e poi in China&Global studies, si interessa di ambiente, giustizia sociale e femminismi con un focus su Cina e Sud-est asiatico. Su China Files cura la rubrica “Banbiantian” sulla giustizia di genere in Asia orientale. A volte è anche su La Stampa, il manifesto, Associazione Italia-Asean.