Sabato 9 novembre, la Corte suprema indiana ha deciso che il terreno su cui sorgeva la moschea Babri di Ayodhya, demolita nel 1992 da una folla di estremisti hindu, diventerà di proprietà di una fondazione hindu con l’obiettivo di realizzare sulle ceneri del luogo di culto musulmano un tempio hindu in onore del dio Ram.
RAGGIUNTA ALL’UNANIMITÀ da un pool di cinque giudici, la sentenza dovrebbe risolvere una volta per tutte una disputa legale che ha contrapposto per oltre un secolo le comunità hindu e musulmana. Dalla fine degli anni Ottanta, la questione di Ayodhya – città nello stato dell’Uttar Pradesh – è diventata centrale nel dibattito politico indiano, innescando una reazione a catena che ha portato ai minimi storici i rapporti intercomunitari tra hindu e musulmani e, contestualmente, ha proiettato la destra hindu a livelli di consenso inimmaginabili solo qualche decennio fa.
TUTTO SI DEVE ALL’INTUIZIONE di L.K. Advani, esponente del Bharatiya Janata Party (Bjp, il partito dell’attuale primo ministro Narendra Modi) oggi ottuagenario, che trent’anni fa fece del caso Ayodhya il fulcro di una campagna politica improntata sull’identitarismo hindu. Organizzando una carovana nel nord dell’India, nei primi anni Novanta chiamò a raccolta milioni di fedeli convincendoli che il terreno dove sorgeva la moschea Babri, realizzata nel XVI secolo per volere dell’imperatore musulmano Babur, fosse il preciso luogo di nascita del dio Ram. E che sotto la moschea vi fossero i resti di un grande tempio hindu eretto in onore del dio, demolito dai musulmani. Un affronto che ora, quattro secoli dopo, gli hindu erano chiamati a vendicare, distruggendo la moschea e ricostruendo il tempio di Ram.
NEL DICEMBRE DEL 1992, in quella che doveva essere una cerimonia simbolica di deposizione della prima pietra del tempio di Ram ad Ayodhya, centinaia di migliaia di estremisti hindu rasero al suolo la moschea Babri, dando inizio a una faida di sangue tra hindu e musulmani diffusasi a macchia d’olio in tutta l’India.
Tra spedizioni punitive di squadracce ultrahindu dall’Uttar Pradesh a Mumbai, passando per i riots del 2002 in Gujarat, e la rappresaglia dinamitarda a Mumbai architettata dal boss mafioso musulmano Dawood Ibrahim – latitante – nel 1993, le vittime dell’odio interreligioso si contano a decine di migliaia. Senza considerare gli innumerevoli episodi di violenza e discriminazione che la minoranza musulmana indiana (oltre 200 milioni di persone) sistematicamente subisce in tutto il paese, grazie alla capillarità di organizzazioni estremiste hindu sempre più sdoganate nel discorso pubblico nazionale.
LA SENTENZA, pur condannando la demolizione della moschea del 1992 per cui Advani e altri membri del Bjp sono accusati di associazione a delinquere, di fatto spiana la strada alla costruzione del tempio di Ram. Un progetto carissimo all’estremismo hindu e, per osmosi, a gran parte del Bjp al governo con Narendra Modi, infarcito di leader e quadri di sigle paramilitari ultrahindu (Modi compreso).
Il grande tempio di Ram si farà. E si farà non solo sulle ceneri della moschea, ma estendendosi per altri 60 ettari acquistati recentemente dal governo dell’Uttar Pradesh, amministrato dal Bjp. È la coronazione del motto «wahin mandir banayenge», «proprio lì costruiremo il tempio», popolarizzato dalla destra hindu negli anni Novanta e divenuto una sorta di tormentone identitario.
Poco dopo la sentenza, in un discorso alla nazione, il primo ministro Modi si è complimentato con la Corte suprema per il verdetto: «Dopo la sentenza – ha detto – il modo in cui ogni sezione della società, ogni religione, ha accolto il verdetto è prova dell’antica cultura e tradizione di armonia sociale in India».
NEL FRATTEMPO, LE AUTORITÀ avevano fatto scattare decine di arresti preventivi ad Ayodhya, sospeso il servizio internet in alcune zone dell’Uttar Pradesh e del Rajasthan, imposto il divieto di assembramento a Mumbai fino alla mattina di domenica e dispiegato 40mila poliziotti aggiuntivi in città, per «prevenire disordini». Al Sunni Waqf Board dell’Uttar Pradesh, l’organo che amministra i luoghi di culto musulmani nello stato, andranno cinque ettari di terreno ad Ayodhya per ricostruire la moschea. Altrove.
[Pubblicato su il manifesto]