Il «decoupling» nel tecnologico è un divorzio sgradito, ma ormai considerato dalla Repubblica Popolare l’unica soluzione futuribile per sostenere la crescita economica interna senza subire le ripercussioni delle manovre avversarie
Prepararsi al peggio e sperare per il meglio. Questa la strategia cinese nella lunga marcia verso l’autosufficienza tecnologica. Il meglio, per Pechino, è guadagnare tempo e continuare a colmare il divario che la separa dai competitor in settori chiave.
IL PEGGIO, È TROVARE le vene della doppia circolazione ostruite da una coalizione anti-Cina messa in moto dagli Usa. Ma nella scacchiera della supremazia tecnologica, la Cina gioca con il nero, e ha concepito una strategia di lungo respiro per rispondere all’accerchiamento statunitense. Il cosiddetto decoupling è per Pechino un divorzio sgradito, ma ormai considerato l’unica soluzione futuribile per sostenere la crescita economica interna senza subire le ripercussioni delle manovre avversarie. Rottura necessaria, dunque, ma non imminente. Nell’indice sull’innovazione globale dell’Organizzazione mondiale per la proprietà intellettuale (Ompi) la Cina si posiziona 12esima, guadagnando due posizioni rispetto allo scorso anno. Nel 2019 ha ottenuto il primato di paese con il maggior numero di supercomputer performanti e nel 2020 ha superato Google per la supremazia quantistica grazie a tecnologie a base di laser. Della Cina è il record di pubblicazioni negli ultimi tre anni in paper di ricerca su intelligenza artificiale, veicoli automatizzati e blockchain.
CINESE È LA LEADERSHIP in campo di infrastrutture 5G, sistemi per il riconoscimento facciale e servizi Internet. Ma ancora non basta. Per quanto impressionante, la crescita cinese nel tecnologico rimane vincolata al rivale atlantico. Non solo per le componenti hardware di alta qualità, di cui colossi come Alibaba e Huawei si riforniscono per creare i loro prodotti di punta, ma anche per le licenze d’uso di apparecchiature di ultima generazione. E come dimostrato dalle problematiche legate alla filiera di produzione di chip, il rischio che Washington comprometta la catena di approvvigionamento in momenti critici è tangibile. Per questo motivo, gli analisti dell’Esercito popolare di liberazione (Pla) invitano ad «abbandonare false speranze di riavvicinamento» con gli Stati Uniti sul fronte tecnologico e a prepararsi per un braccio di ferro di lunga durata. In un rapporto pubblicato lo scorso luglio dall’Istituto nazionale di ricerca e innovazione, gli esperti militari cinesi avvertono che le restrizioni alle esportazioni da parte degli Usa si faranno «più efficaci e mirate».
ALLA CINA NON RESTA che giocare d’anticipo. Per prepararsi all’impatto, la strategia raccomandata dai teorici militari prende la forma di una sinapsi tripartita: capitalizzare sull’industria tecnologica interna, promuovere nuovi standard di innovazione a livello globale, impegnarsi nell’acquisizione e formazione di talenti. A questo dovrebbero servire gli investimenti in settori strategici predisposti nel 14esimo piano quinquennale e gli incentivi ai corsi di studio in materie scientifiche. Ben 1,4 trilioni di dollari per stimolare scoperte innovative e superare il famigerato collo di bottiglia. E in quest’ottica prende forma il sempre più fitto apparato giuridico a regolamentazione dell’ecosistema digitale nella Rpc. Per consolidare i settori dove oggi possiede un vantaggio competitivo sugli Usa, il governo cinese sta provando a fare propria la miniera di dati accumulata dalle sue aziende unicorno, e al contempo cerca di persuaderle a realizzare l’obiettivo comune di un’industria digitale domestica autosufficiente. Questo anche perché le compagnie statali come Comac (aviazione) e China Telecom (telco) non sono competitive su scala globale quanto ByteDance (servizi internet), Dji (manufatturiero droni) o Huawei (telco). In altre parole, il governo mira ad assoggettare le innovazioni dei privati al dominio statale, stando attento a non tirare troppo la corda.
ECCO COSÌ CHE ALIBABA Group, da cane bastonato stretto nella morsa dell’antitrust di Pechino, torna campione nazionale all’annuncio del suo nuovo chip server da 5 nanometri. Per realizzare l’Yitian710 sono probabilmente state utilizzate fonderie straniere, considerato che quelle cinesi non riescono a scendere sotto i 7nm. Eppure, la scelta di realizzare Cpu su misura è stata accolta con uno slancio patriottico dai quotidiani nazionali, perché mostra che anche i big tech i stanno muovendo verso l’autoproduzione. Per superare i diversi colli di bottiglia che rallentano lo sviluppo tecnologico della Rpc, la sinergia con i privati è da attuare anche in ambito accademico. Gli analisti del Pla consigliano di «spostare l’obiettivo dall’acquisizione di tecnologie all’acquisizione di talento». Con questo scopo in mente, nell’ultimo anno il ministero dell’Istruzione cinese ha creato degli istituti per le «tecnologie del futuro» in 12 università del paese, con corsi specializzati in scienza quantistica, Ai e tecnologie marine e biomediche.
ALLO STESSO MODO, la Chinese Academy of Sciences ha cominciato a organizzare stabilmente seminari per unire il mondo accademico e quello imprenditoriale in una piattaforma di condivisione di idee open source. Ma non solo. Un rapporto pubblicato ad agosto dalla Georgetown University mostra inoltre che le posizioni per i dottorati in materie tecnologiche in Cina sono aumentati del 40% tra il 2016 e il 2019, e che di questo passo il paese avrà una media di 77mila Phd all’anno in materie Stem (Science Technology Engineering and Mathematics). Attenzione però alla discrepanza tra quantità e qualità. Record nella pubblicazione di papers, sì, ma poche scoperte rivoluzionarie. Migliaia di dottorati scientifici, vero, ma in università qualitativamente inferiori rispetto a quelle Usa. La strada verso la supremazia tecnologica, così come quella accademica, è ancora lunga.
DOVE GLI STATI UNITI hanno deciso di mettere i bastoni tra le ruote ad aziende e ricercatori cinesi per salvaguardare la sicurezza nazionale, la strategia della Rpc sembra invece quella di lasciare una porta aperta a chi è disposto a operare entro i confini del sovranismo digitale cinese. Gli investimenti diretti tra i due paesi sono diminuiti del 75% tra il 2016 e il 2020 a seguito dell’irrigidimento degli screening da entrambe le parti, ma c’è ancora chi in Cina è il benvenuto. Resiste Tesla, nonostante alcuni intoppi, con il suo stabilimento di auto elettriche più produttivo in assoluto a Shanghai.
Cede invece Linkedin, non più disposta a operare nel clima di intrusività statale che si sta accentuando per le piattaforme online. E anche per gli investimenti stranieri, la Rpc concede qualche eccezione alla regola, come avvenuto per i servizi di Vpn, dove anche le telco estere potranno partecipare. L’approccio di Biden, più ideologico del protezionismo trumpiano, chiama a raccolta gli alleati e spinge per raggiungere la Cina in settori chiave. Anche sotto pressione Pechino conserva diversi vantaggi, ma la risorsa di cui attualmente ha più bisogno per svincolarsi dal rivale atlantico è una sola: il tempo.
Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.