Human Rights Watch denuncia l’esistenza di carceri-lager nel Vietnam meridionale. Qui coloro ritenuti responsabili di reati collegati all’uso o allo spaccio di stupefacenti, sarebbero confinati per anni senza alcun tipo di processo.
Ufficialmente si chiama phuc hoi chuc nang, un’espressione traducibile più o meno come “riabilitazione”. È il trattamento riservato in Vietnam alle persone condannate per droga, confinate in appositi centri di rieducazione e sottoposte a speciali programmi volti in teoria a favorirne il reinserimento nella società. In realtà, però, quello che si nasconde tra le pareti di queste strutture è qualcosa di completamente estraneo a un percorso terapeutico e di guarigione. Il report di Human rights watch “The rehab arcipelago: forced labor and other abuse in drug detention centers in southern Vietnam” denuncia l’esistenza di carceri-lager, in cui coloro che sono ritenuti responsabili di reati collegati all’uso o allo spaccio di stupefacenti sono confinati per anni senza alcun tipo di processo, costretti ai lavori forzati e sottoposti ad ogni tipo di vessazione, dall’intimidazione verbale alle torture fisiche e psicologiche.
L’atteggiamento del regime vietnamita nei confronti degli utilizzatori di droga è sempre stato particolarmente severo. La pena dei lavori forzati per chi si macchia di questo reato venne istituita nel 1975, con la riunificazione del Paese sotto il governo comunista di Hanoi e l’avvio dei programmi di “rieducazione attraverso il lavoro”. Da allora la situazione è costantemente peggiorata e sempre più spesso i crimini di spaccio e produzione vengono puniti con la pena capitale. Come accaduto a fine agosto, quando il tribunale di Hoa Binh, nel Vietnam settentrionale, ha condannato a morte sei uomini per traffico di stupefacenti. Solo poche settimane prima, il 5 agosto, i giudici di Bac Giang avevano disposto l’esecuzione di altri quattro trafficanti.
Il dossier di 121 pagine di Human rights watch documenta le esperienze di decine di persone rinchiuse in 14 dei 123 centri di detenzione sotto il diretto controllo del governo vietnamita. Nella maggior parte dei casi i condannati sono inviati nei centri dopo essere stati fermati dalla polizia, senza alcun tipo di processo e senza possibilità di contattare avvocati o conoscenti. Talvolta sono le loro stesse famiglie a denunciarli alle autorità, nella convinzione che le strutture governative possano effettivamente aiutarli a risolvere i loro problemi di dipendenza. Non mancano infine coloro che si presentano spontaneamente, sperando di ricevere sostegno e assistenza. Una volta entrati, però, lasciare il centro è impossibile. E provare a scappare significa essere torturati brutalmente. «Quando ho provato ad evadere le guardie mi hanno catturato e mi hanno bastonato sulle gambe», ha raccontato Quynh Luu, ex detenuto, a Hrw. «Poi mi hanno picchiato con un bastone elettrificato e alla fine mi hanno messo in isolamento per un mese». All’interno delle strutture le persone sono obbligate a lavorare per 6-8 ore al giorno, 6-7 giorni a settimana, ufficialmente per ripagare le spese sostenute dalle autorità per il loro mantenimento. I lavori forzati vanno dalla coltivazione dei campi alla fabbricazione di prodotti in legno, plastica e bambù, passando per la produzione di vestiti e borse fino alla pulizia e inscatolamento degli anacardi. Molti detenuti lavorano per anni senza paga. Altri ricevono una frazione del salario minimo, e le strutture che li “ospitano” detraggono vitto, alloggio e le cosiddette spese di gestione dalla loro retribuzione. In alcuni casi al termine del periodo di “riabilitazione” le loro famiglie si sono viste addebitare i costi sostenuti dal centro. «Ho fatto la pulizia degli anacardi lavorando sei anni e mezzo per otto ore al giorno per pagare le spese della mia detenzione. Il lavoro mi ha rovinato la salute»: è la testimonianza di Kinh Mon, un’altra delle tante raccolte nel rapporto.
Oltre a denunciare le violazioni commesse nei centri di riabilitazione vietnamiti, il dossier di Human rights watch rappresenta anche un atto di accusa contro quei governi e quelle società che finanziano in modo più o meno diretto queste strutture. «In Vietnam decine di migliaia di uomini, donne e bambini sono trattenuti contro la loro volontà nei centri di lavoro forzato», ha dichiarato Joe Amon, responsabile dell’area diritti umani dell’organizzazione. «Questo non è un trattamento terapeutico: i centri devono essere chiusi e queste persone devono essere liberate». Il sostegno dei donatori internazionali alle strutture e al ministero del Lavoro, degli invalidi e degli affari sociali vietnamita, che ne ha la supervisione, ha come effetto quello di consentire al governo di perpetrare la pratica delle detenzioni illegali e arbitrarie nei confronti dei condannati per droga, ha avvertito Amon. Ancora più grave è la posizione di quelle aziende che sfruttano il lavoro forzato delle persone rinchiuse. In alcuni casi gli ex detenuti sono riusciti a fornire a Hrw i nomi delle società che presumibilmente avevano contatti con i centri. Ma la totale mancanza di trasparenza e di qualsiasi documento pubblicamente accessibile rende estremamente difficile produrre prove certe. Inoltre nella maggior parte dei casi le persone rinchiuse non avevano alcuna idea in merito alla destinazione finale dei prodotti che confezionavano. Tra le aziende citate dagli ex detenuti due nomi ricorrono con particolare frequenza: Son Long Jsc, produttrice di anacardi, e Tran Boi Productions Co. Ltd, che realizza materiali in plastica. Due società vietnamite che già in passato sono state accusate più volte dai media locali di sfruttare la manodopera fornita dai centri di riabilitazione.
«Il lavoro forzato non è un trattamento e utilizzarlo a scopo di lucro non può essere considerata riabilitazione», ha sottolineato Amon durante la presentazione del rapporto. «I donatori devono capire che il finanziamento di questi centri perpetua l’ingiustizia e le aziende dovrebbero assicurarsi che i loro appaltatori e fornitori non utilizzino beni prodotti al loro interno». In Vietnam le persone tossicodipendenti hanno la necessità di accedere a un trattamento terapeutico su base volontaria, ha concluso il responsabile di Hrw. «Il governo invece li rinchiude, mentre le aziende private sfruttando il loro lavoro e i donatori internazionali stanno chiudendo gli occhi di fronte alle torture e agli abusi di cui sono vittime».
* Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra e per il settimanale Left-Avvenimenti.