Asia-Files: Perché si combatte per un tempio

In by Simone

Decine di morti, centinaia di feriti e cinquantamila civili costretti ad evacuare le loro case lungo i confini tra Thailandia e Cambogia. Questo il bilancio del conflitto tra Bangkok e Phnom Penh, il cui capitolo moderno va avanti a fasi alterne dall’estate del 2008, tre anni durante i quali le truppe dei due eserciti si sono fronteggiate in più occasioni.

L’oggetto della contesa sono quei pochi chilometri quadrati di territorio che comprendono i templi indù di Preah Vihear, un complesso di santuari dedicati a Shiva, eretti dal popolo khmer tra il nono e il dodicesimo secolo. Bangkok e Phnom Penh si accusano a vicenda, ma la crisi diplomatica e militare tra i due paesi del sudest asiatico si spiega con profonde tensioni storiche e attuali travagli politici interni.

Per capire veramente cosa sta succedendo occorre innanzitutto fare un salto nel passato. Nel 1947 un colpo di stato militare a Bangkok rovesciò il governo democraticamente eletto dell’ammiraglio Thawal Thamrong Navaswadhi. Tra i golpisti figurava un giovane colonnello di nome Sarit Thanarat. Dieci anni dopo, ormai divenuto feldmaresciallo, Sarit guidò il colpo di stato che rovesciò un altro governo, quello di Pibulsonggram. Sarit sostituì Pibul con il vice primo ministro Thanom. L’anno seguente, Sarit organizzò un ennesimo colpo di stato, costringendo Thanom alle dimissioni e prendendo le redini del Regno della Thailandia in prima persona.

Sarit abolì la costituzione, sciolse il parlamento, bandì tutti i partiti politici eccetto il suo, chiuse 18 giornali, pose serie limitazioni alla libertà di parola e decretò la legge marziale. Consolidato il potere nelle sue mani, cercò di legittimare il suo regime autoritario con l’appoggio popolare. Per farlo, si servì di tre strumenti: amore, odio e denaro. Amore verso la figura semidivina del re, odio verso un nemico esterno e la diffusione del benessere. Sarit ridiede lustro all’istituzione monarchica svilita da Pibulsonggram, introducendo persino l’obbligo di suonare l’inno reale nei teatri prima della proiezione di ogni film o dell’inizio di ogni spettacolo. Ancora oggi, è di rigore alzarsi in piedi in segno di rispetto, pena l’arresto.

Il dittatore seguì per filo e per segno i consigli di Stati Uniti e Banca Mondiale per sviluppare l’economia del Regno, ma mentre Washington lo sosteneva in chiave ferocemente anticomunista, Sarit sapeva bene che in patria il pericolo rosso non era abbastanza concreto da servire al suo scopo: all’epoca, i pochi comunisti presenti in Thailandia non potevano di certo giustificare una dittatura militare preventiva. Il “pericolo cambogiano” invece rappresentava per i thailandesi una faccia molto più familiare.

Fu per questo che Sarit decise di ergersi al difensore della nazione contro lo staterello cambogiano. I confini di stato dei paesi indocinesi sono il risultato del colonialismo francese e britannico, ragion per cui la componente ultranazionalista di Bangkok non li ha mai accettati del tutto. Nel 1953, non appena la Cambogia ottenne l’indipendenza dalla Francia, le truppe thailandesi invasero l’area di Preah Vihear, sostenendo che in base agli accordi del 1904 il tempio in questione risulterebbe in territorio thailandese. Ma visto che la mappa ufficiale redatta nel 1907 assegna chiaramente il tempio alla Cambogia, le autorità di Phnom Penh decisero di ricorrere all’arbitrato della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

Sarit colse la palla al balzo, facendo di questa disputa il catalizzatore del nazionalismo irredentista thailandese. Aggiungendoci anche un tocco di fervore religioso – i re thailandesi sono tradizionalmente considerati reincarnazioni del dio indù Vishnu – e il potenziale turistico del sito, è facile comprendere come la scelta di Sarit di focalizzare le rivendicazioni thailandesi sulle rovine del tempio di Preah Vihear fosse del tutto adatta al suo scopo. La Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia si pronunciò nel 1962, assegnando definitivamente il tempio alla Cambogia. Nel 1963 Sarit morì, amatissimo dai suoi cittadini e stimatissimo da re Rama IX, che gli dedico ventuno giorni di lutto nazionale. Il dittatore passo a miglior vita dopo aver messo da parte una fortuna personale di circa 140 milioni di dollari e senza aver mai sventolato la bandiera thailandese in cima al tempio di Preah Vihear.

Ma non ce n’era bisogno. La questione di quel tempio e di quei pochi chilometri quadrati di terreno brullo si sarebbe tramutata in un’utile eredità per future generazioni di classi dirigenti. Il nazionalismo è uno degli strumenti preferiti dai governanti per ottenere l’appoggio delle masse e reindirizzare le insoddisfazioni e l’aggressività verso un nemico esterno. Anche nel caso delle schermaglie a intermittenza fra Thailandia e Cambogia per il possesso del fazzoletto di terra intorno al complesso di Preah Vihear, esse hanno storicamente rappresentato il tentativo dei governi di Bangkok di galvanizzare i sentimenti sciovinisti e ottenere il supporto popolare aizzando i propri cittadini contro lo straniero.

La fase moderna del conflitto thai-cambogiano, quella che si trascina dal 2008, vede sempre Preah Vihear al centro della disputa, anche se recentemente i nazionalisti di Bangkok vi hanno aggiunto un altro tempio sempre vicinissimo al confine, circa 150 chilometri a sud. I pretesti delle scaramucce variano leggermente di volta in volta, ma questi micro-conflitti continuano a svolgere la medesima funzione. La Thailandia, come noto, è nel bel mezzo di uno storico processo di evoluzione sociale, non troppo dissimile da quelli che le società occidentali hanno attraversato nel Ventesimo secolo. In questa battaglia tra vecchio e nuovo, tra tradizione e modernità, tra vecchi privilegi di casta e nuove rivendicazioni popolari, le armi utilizzate dai vari attori sociali sono molteplici. Il 7 maggio scorso, il primo ministro Abhisit ha sciolto il parlamento: entro due mesi si terranno le elezioni nazionali.

Negli ultimi dieci anni, da quando il controverso miliardario di Chiang Mai Thaksin Shinawatra è entrato nell’agone politico formando il partito Thai Rak Thai – un movimento dalle connotazioni fortemente populiste che per la prima volta nella storia del paese ha messo le classi popolari al centro del dibattito politico – quattro volte si è andati alle urne e quattro volte il Thai Rak Thai e le sue successive reincarnazioni hanno vinto le elezioni. Il problema era che queste vittorie così larghe e convincenti permisero a Thaksin di governare senza bisogno della Corona o dell’esercito, cosa che in Thailandia equivale a una bestemmia in chiesa. Oltretutto Thaksin non vantava nemmeno una condotta propriamente cristallina e presto finì nell’occhio del ciclone per una serie di casi di violazioni dei diritti umani, corruzione e conflitto di interessi; un’occasione d’oro per l’esercito, che nel 2006 lo caccio dal governo occupando la capitale con i carri armati in un colpo di stato che ha dissolto il parlamento e messo al potere una giunta militare.

Negli anni successivi, dopo un’ennesima vittoria elettorale del nuovo partito pro-Thaksin – il Partito del Potere Popolare – per cacciare i militari dal governo ci sono volute una serie di sentenze della Corte Suprema che hanno fatto cadere due primi ministri e imposto lo scioglimento anche di questo nuovo movimento. Alla fine il Democrat Party, il partito preferito dall’oligarchia di Bangkok, è riuscito a formare una coalizione di governo grazie a un ribaltone. Oggi il Democrat Party guida il governo nonostante non vinca una tornata elettorale dal 1996.

Ma alle prossime elezioni le camicie rosse pro-Thaksin e il loro nuovo partito Pheu Thai (Per i Thailandesi) potrebbero uscirne un’altra volta vittoriosi. Una previsione che Corona, Esercito Reale e tutti gli interessi dietro al Democrat Party vedono come fumo negli occhi. Un governo Pheu Thai riporterebbe la situazione al 2006, ma senza Thaksin – in esilio all’estero – e dunque potenzialmente senza nemmeno una scusa per un nuovo colpo di stato militare. Ecco perché ogni settore del vecchio establishment sta facendo del suo meglio per evitare che questo accada, cioè per impedire ai rossi di tornare al governo.

Abhisit, primo ministro e leader del Democrat Party, dopo una serie di manovre economiche populiste sta martellando i cittadini con una intensissima propaganda elettorale che sta occupando i canali televisivi e inondando i muri delle strade, dove la sua faccia pulita sorride e lancia promesse ad ogni angolo. Intanto la polizia sta lavorando sodo per arrestare le camicie rosse più loquaci e chiudere o oscurare giornali e siti internet che criticano il governo, mentre i partiti minori della coalizione governativa stanno cercando di sedurre decine di parlamentari del partito Pheu Thai e convincerli a cambiare casacca. Ovviamente, anche l’esercito sta facendo la sua parte.

In primis, mostrando i muscoli. Il 19 aprile scorso, un’esercitazione militare nel cuore di una piovosa Bangkok è stata interpretata da molti come una minaccia rivolta verso chi crede che la vita politica di questo paese possa fare a meno dei generali dell’Esercito Reale. Tre giorni dopo, le truppe di confine sono tornate a scambiarsi missili e pallottole con quelle cambogiane. Subito, sulle colonne dei principali quotidiani di Bangkok sono apparsi una serie di articoli sulle opportunità di indire elezioni in un momento in cui la sicurezza nazionale è a rischio.

Un’opinione sposata in pieno dalle ultra-nazionaliste camice gialle, che hanno già fatto sapere che boicotteranno le elezioni: vorrebbero che fosse il re a nominare un nuovo primo ministro, e magari a nominare una parte del parlamento, senza bisogno di scomodare i cittadini con nuove elezioni. In questo ingarbugliato contesto e ulteriormente complicato dall’incertezza sulle reali condizioni di salute di Rama IXil monarca ottantatreenne che dal 2009 è ricoverato in un ospedale della capitale – chi detiene il vero potere a Bangkok sembra essere il Consiglio Privato del Re e l’Esercito Reale.

Questi due poteri – intimamente legati in quanto le più importanti figure del Consiglio sono ex generali di primissimo piano – il conflitto con la Cambogia viene visto come un’opportunità per rincollare i cocci di un paese diviso, sperando che in un periodo di crisi nazionale persino l’opposizione senta il dovere di allinearsi alle posizioni dell’Esercito Reale e della Corona. In conclusione, appare chiaro come dietro ai tanti pretesti utilizzati per giustificare le inutili scaramucce di confine ci siano gli interessi degli storici blocchi di potere di Bangkok. All’interno di questa realpolitik in salsa siamese, Preah Vihear è solo un ingrediente da buttare nel calderone politico a tempo debito.

Ma mentre l’oligarchia di Bangkok cerca di rallentare un’inevitabile processo di democratizzazione lanciando razzi verso le rovine di un antico tempio khmer, a sgretolarsi è solo la credibilità internazionale del Regno della Thailandia.