Ma la forza di governo cinese, passata la crisi del 1989, ha sotterrato uno dopo l’altro tutti i suoi leader storici e quindi non può che soffermarsi sul provvisorio punto d’arrivo della politica cinese: 80 milioni di iscritti, controllo della nazione più veloce al mondo in termini di crescita economia e un rapporto di reciproca sopravvivenza tra crescita economica e stabilità politica.
La metamorfosi dei quadri del Pcc, prima mossi dall’ideologia rivoluzionaria e oggi da istinti ben più utilitaristi, viene ben descritta da Ananth Krishnan per The Hindu, quotidiano conservatore indiano.
Secondo Krishnan il Pcc originario formato da contadini e operai fortemente ideologizzati nel 2011 non è altro che una “grande organizzazione col compito di gestire la seconda economia del pianeta”. A rafforzare la tesi del pezzo titolato ‘Pragmatism drives CPC at 90’, l’inviato di The Hindu interpella alcuni giovani iscritti al Pcc. “[Il Pcc] è diventato un gruppo elitario – spiega la 25enne Zhang Chen al quotidiano indiano – specialmente se consideriamo che in ogni scuola solo gli studenti migliori, il meglio del meglio, vengono considerati come candidati papabili per diventare membri”. In altre parole, come spiega chiaramente Zhang motivando la sua scelta di entrare nel Pcc, “diventare un membro del Partito oggi significa avere accesso ai posti di lavoro statali migliori. Le promozioni sono più veloci e le prospettive di carriera sono di gran lunga migliori se si lavora nel settore statale”.
L’appeal del Partito sui giovani passa anche per i moderni mezzi di comunicazione di massa: nel caso specifico si parla del blockbuster propagandistico “The Great Task of Founding the Party”, che lo stesso Krishnan descrive come un clamoroso flop in particolare disprezzato dagli studenti universitari e dai netizen. Ma per par condicio l’articolo riporta anche le parole di Wong Bian, capo della sezione del Partito della Beijing University, uno dei giovani membri più fedeli alla tradizione: è suo il compito di organizzare le “Red activities” all’interno dell’università, come letture pubbliche delle opere di Marx ed Engels.
Parlando delle famigerate “Red songs”, canzoni patriottiche e rivoluzionarie che in concomitanza col novantesimo anniversario del Pcc hanno vissuto una nuova stagione di notorietà, Wong non ha dubbi: “Abbiamo bisogno delle Red songs per spiegare la storia ai nostri quadri. Ogni partito ha bisogno di un’ideologia. Forse dobbiamo aggiornare il nostro messaggio, ma penso che il Partito l’abbia già fatto con successo”.
Sicuramente il messaggio arrivato qui in India, che a fianco alla Cina tende a considerarsi un perenne numero due, sta risvegliando tra le elité benestanti il senso di inadeguatezza ed insofferenza per la classe politica locale. Sempre su The Hindu infatti il 30 giugno veniva ospitato un lunghissimo pezzo, accreditato a quattro firme cinesi della Xinhua, dai connotati stranamente troppo autocelebrativi per trovarsi sulla stampa indiana. ‘The CPC’s journey to reinvigorate China’ è in tutto e per tutto un trattato magniloquente del Pcc che la Cina ama raccontare all’estero: solida organizzazione sociale, sinizzazione del marxismo, lotta alla povertà, capitalismo con caratteristiche cinesi, entrata nella WTO, previsioni di un’economia florida ed elenchi sterminati di successi, dati, percentuali, statistiche, tutte a sottolineare la grandezza e la storia vincente del Partito.
I commenti al pezzo sono tristemente illuminanti. Nessuna critica ai metodi cinesi, nessun accenno ai disastri del Grande balzo in avanti, della Rivoluzione Culturale, di Tian’anmen; si leggono solo lamentele e paragoni tra il governo indiano e la dittatura cinese. Secondo uno dei lettori del The Hindu il governo indiano “non deve cercare molto lontano per capire dove ha fallito”. Il quadretto luccicante confezionato dalla Xinhua ha colpito il punto debole dell’India benestante. L’invidia.