Cerchiamo di arrivare al porto di prima mattina, ma non siamo bravi a svegliarci prima del sorgere del sole: se fossimo arrivati attorno alle 6 e 30 del mattino, ne avremmo visti a centinaia, non a decine.
Alle otto e mezza, ne sono rimasti relativamente pochi. Pochi, ma sempre tantissimi rispetto a quanti siamo abituati a vederne normalmente. Squali. Sdraiati sulla sporca banchina del porto di Bentota, Sri Lanka meridionale, slavati da sangue raggrumato e acqua che tenta invano di levare il puzzo. Odore di mare aperto e di morte, mescolati assieme, complice anche il lezzo degli intestini che, svuotati dalle pance di questi enormi inquilini dell’Oceano Indiano, galleggiano al sole. La scena è di ordinaria quotidianità sud asiatica, incorniciata dal profumo acre della morte che ha attaccato queste carcasse per giorni e solo ora che il sale e il ghiaccio sono stati rimossi finalmente vince. Alcuni di questi squali sono rinsecchiti, la pelle della testa prosciugata dal sale.
Le barche hanno le cambuse aperte, si possono intravedere grossi blocchi di ghiaccio sciogliersi al sole. Ogni tanto, qualche singalese ne afferra dei pezzi e li lancia distrattamente sui pesci che costellano la banchina. La maggior parte degli squali, già squartati, viene ricomposta malamente dai corvi che a stormi lottano su di loro: per una branchia, per un occhio succulento e sanguinante. I miei piedi affondano nel fango creato da quella poltiglia misto di acqua sporca, sangue e viscere che staccandosi dalle pance di questi (ex) terrori dei mari diventano palline putride e ruzzolano via con lo scroscio delle canne di gomma.
«Questi vengono dalla costa indiana» ci dice un vecchio singalese, i cui piedi sono nodosi e scuri quanto incuranti di camminare immersi nel putridume. «Navigano per alcune settimane, da qui sino alla costa dell’Andra Pradesh, a volte anche più su, a seconda di come si muovono i pesci». La cenere della sua sigaretta svolazza nella brezza marina.
«Le pinne, quelle le vendiamo in Cina, in Giappone. È un buon prezzo al chilo. Qua tutto aumenta».
«E il resto?» gli chiedo io, indicando le carcasse mutilate di quegli squali che adesso sembrano dei grossi mucchi di carne argentata, delle lumache gulliveriane prive di pinne dorsali, con tagli grezzi che ne evidenziano i buchi. «Ristoranti». Tira dalla sigaretta: «ristoranti qua vicino. È pieno di resort». Ci pensa su e conclude: «almeno non va sprecata», prima di ritornare a impugnare il machete, e a curvarsi su un pezzo di tonno gigante che sembra un tronco d’albero cavo da quando la sua testa e la coda sono state separate e stanno là a riempire il mucchio.
Compriamo alcuni pesciolini per il pranzo, prima di dirigerci fuori da quel molo di mutilazioni. Mucchi di pinne giacciono a ogni lato, e i macheti continuano a tagliare, strappare teste, roteare con sapienza e cavare quei buchi non sanguinanti che guardano dalle schiene degli squali come occhi rosei senza pupille. Solo tranci di muscolo.
Questa scena si vede ogni giorno. Ogni mattina, centinaia di squali, tonni e altre specie marine in pericolo di estinzione finiscono su queste banchine, le loro carni maciullate e separate accuratamente per riempire i container che verranno spediti a nord, in altri paesi. La parte più ricca dell’est asiatico, che non si fa problemi se nel proprio piatto finisce qualcuna delle specie decimate da anni di saccheggi nell’Oceano Indiano e del Mar della Cina.
Noi ci limitiamo a scattare alcune foto e non giudicare, sussultando solo un poco quando gli occhi di una manta squartata si incrociano coi nostri: sono neri, contro il rosso cupo della carne ancora appiccicata a un costato dalla perfetta simmetria. Li ricorderò sicuramente la prossima volta che mi verrà voglia di mangiare del sushi.
*Marco Ferrarese vive, scrive e lavora a Penang, Malesia. Per il momento. Inesauribile viaggiatore e musicista, cerca di catturare le impressioni dei paesi in cui vive. Il suo sito è www.monkeyrockworld.com