Armi Usa a Taiwan: Cina “indignata”

In by Simone

«Indignazione», stop alle relazioni militari, sanzioni per le aziende Usa impegnate a vendere armi a Taiwan e più in generale un sentimento anti americano che aumenta, giorno dopo giorno, nella Terra di Mezzo.   L’annuncio del pacchetto di armi, per 6,4 miliardi di dollari, che gli Usa vorrebbero vendere a Taiwan ha fatto infuriare Pechino, che ha risposto senza mezzi termini. Questa volta, secondo le voci ufficiali del governo e i media locali, gli americani l’avrebbero fatta davvero grossa: nel corso degli anni più volte i due giganti si sono stuzzicati sul tema, non sempre però era accaduto che i cinesi si sentissero traditi riguardo una parola data. La decisione degli Usa, scrive la Xinhua, riportando le parole del portavoce dell’ufficio per gli affari di Taiwan del Consiglio di Stato cinese, sarebbe «una palese violazione del terzo comunicato congiunto Usa Cina». Eventi persi nella storia, ma che oggi rimbombano sulla scena diplomatica internazionale, specie alla luce dell’ultima dichiarazione congiunta al riguardo, sancita proprio da Obama nella sua ultima visita cinese nel novembre del 2009.

Il 17 agosto del 1982 Cina e Usa avevano firmato quello che passa alla storia come il terzo comunicato congiunto (i primi due erano stati siglati nel 1972 e nel 1979 ed erano ugualmente inerenti alla problematica di Taiwan) nel quale la Cina riaffermava l’isola come affare interno, impegnandosi in una graduale politica di pace e normalizzazione dei rapporti e in cui da parte loro, gli Usa si impegnavano a una decrescita costante della vendita di armi a Taiwan. Ronald Reagan e Zhao Ziyang, rispettivamente presidente americano e primo ministro cinese, sancirono il tutto in un clima di apparente distensione in piena guerra fredda. Proprio nel maggio del 1982 Bush Senior come vicepresidente fu inviato in Cina e sarebbe stato il figlio George W., come ultimo atto della sua presidenza, a presentare al Congresso un progetto per vendere armi a Taiwan, prima dell’insediamento di Obama.
Dopo la visita di quest’ultimo in Cina, il primo contraccolpo, con l’annuncio a sorpresa della possibile vendita bellica a Taiwan. Già allora da Pechino si erano alzate proteste ufficiali, da parte di esponenti dell’esercito e non solo, contro l’ex icona pop cinese Obamao. Il Global Times, giornale cinese in lingua inglese, aveva titolato a tutta pagina: «il Nobel per la pace vende le armi». La stella di Obama a metà dicembre si era definitivamente oscurata.

Ieri, a notizia ufficializzata, è scoppiato un piccolo finimondo, un momento pesante nelle relazioni sino statunitensi: un grave colpo a quel fidanzamento tra Obama e Hu Jintao su cui avevano ricamato molti osservatori e su cui monterà un nazionalismo cinese già a livelli piuttosto elevati. Uno scossone che arriva in un periodo in cui del resto la tensione era già alle stelle per l’affare Google, il discorso sulla libertà della rete da parte del segretario di Stato Usa Hillary Clinton e in cui si inserisce anche la delicata situazione politica di Taiwan. Il partito nazionalista del Kuomintang, infatti, vittorioso alle ultime elezioni e su posizioni vicine ai cinesi, sente su di sé la pressione del partito indipendentista che spinge per una politica più libera dall’abbraccio di Pechino. Un risiko geopolitico in cui le relazione tra Usa e Cina, finiscono su un binario rischioso. Sicuramente morto, ad ora, per quanto riguarda le relazioni militari tra i due paesi, prossimi a incontri che invece sono stati congelati.

La Cina, per bocca del ministero della difesa e degli esteri – che ha prontamente convocato l’ambasciatore americano a Pechino – si è definita «indignata» e ha specificato come le relazioni tra i due paesi siano ufficialmente in dubbio: «La decisione degli Stati Uniti mette seriamente a rischio la sicurezza nazionale cinese e danneggia gli interessi vitali della Cina.

Il piano americano provocherà seri problemi alle relazioni tra i due paesi e le loro forze armate, danneggiando la cooperazione tra Stati Uniti e Cina e la pace e la stabilità con Taiwan». Primo risultato, stop agli incontri militari tecnici previsti e sanzioni per le aziende americane che mangeranno una fetta dei miliardi di dollari di armi, giustificati dagli Usa «come una chiara dimostrazione dell’impegno dell’amministrazione di fornire a Taiwan gli armamenti difensivi di cui ha bisogno».

Il Congresso americano, dopo l’annuncio della Casa Bianca di venerdì, ha 30 giorni di tempo per esprimere il suo parere. Se non saranno presentate obiezioni, la pratica andrà avanti: la Cina punta tutto su questo mese per bloccare la decisione e farsi sentire in ambito internazionale. Con le buone o le cattive.

[Pubblicato su Il Manifesto il 31 gennaio 2010]