Il 13 settembre scorso il mondo dei semiconduttori è stato scosso dall’annuncio dell’accordo di vendita più costoso nella storia dell’industria: ARM, un’impresa britannica specializzata nella progettazione di microchip, sarebbe stata ceduta per 40 miliardi di dollari da SoftBank a Nvidia, il gigante statunitense della produzione di microchip GPU.
Nonostante l’annuncio, però, la vendita deve ancora passare attraverso la fase di approvazione da parte delle autorità anti-trust dei maggiori mercati. Ed è tutto fuorché scontato che l’accordo possa ricevere il via libera, dal momento che anche la Cina dovrà esprimere il proprio giudizio in proposito.
All’origine del problema sta la centralità di ARM nel mondo della produzione di semiconduttori. L’azienda britannica rappresenta infatti più del 40% delle vendite di proprietà intellettuali utilizzate (PI) per costruire microchip a livello globale, e sono oltre 500 le imprese licenziatarie che si servono dei suoi prodotti. Tra queste circa 200 sono imprese cinesi, per le quali l’azienda britannica ricopre un ruolo imprescindibile dal momento che fornisce le licenze necessarie alla progettazione del 95% dei microchip prodotti in Cina.
Il settore dei semiconduttori cinese ha espresso i propri timori attraverso le dichiarazioni di Zhu Jing, un dirigente della Beijing Semiconductor Association, secondo il quale non ci si può fidare che una compagnia statunitense controlli ARM. Su una nota molto simile è stato anche l’editoriale del Global Times, il giornale cinese considerato come portavoce del governo, che si è definito preoccupato per il rischio che la logica del conflitto tecno-commerciale tra Washington e Pechino possa trasformare l’acquisto in uno svantaggio di mercato per le aziende cinesi. D’altronde, il caso delle sanzioni imposte a Huawei è stato un monito importante per la Cina sulle pesanti controindicazioni della dipendenza tecnologica dall’estero. E in effetti è probabile che con l’afflusso di personale, finanziamenti e tecnologie statunitensi, ARM possa ben presto rientrare nella sfera della giurisdizione statunitense per quanto riguarda l’imposizione di sanzioni.
Nvidia, in quanto leader mondiale nella produzione di GPU, è anche un rivale delle aziende cinesi nella corsa allo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Di conseguenza risulta abbastanza fondato il sospetto che la ben nota “neutralità” e l’accessibilità dimostrate da ARM nel corso degli anni potrebbero venire alterate dai nuovi proprietari, che potrebbero volersi assicurare un accesso preferenziale. Il problema, ovviamente, tocca molti degli attuali clienti dell’azienda britannica al di fuori di quelli cinesi (che pure rappresentano un quinto delle vendite di ARM), e infatti non è un caso se il fondatore ha pubblicato una lettera aperta al governo di Londra per chiedere che l’acquisto venga impedito.
Nvidia si aspetta di riuscire a ricevere l’approvazione dalle autorità anti-trust entro 18 mesi, ma la prospettiva appare quantomeno azzardata. È difficile infatti che i funzionari cinesi che dovranno revisionare l’accordo possano dare il loro consenso: in primo luogo perché la legge sulla concorrenza di Pechino prescrive che la decisione va adottata tenendo in considerazione l’impatto sullo sviluppo nazionale cinese, il quale molto verosimilmente non potrebbe che essere negativo date le attuali tensioni geopolitiche. In secondo luogo, due anni fa la riluttanza delle autorità cinesi aveva già fatto crollare un altro mega accordo nell’industria dei semiconduttori ossia l’acquisto di NXP da parte della statunitense Qualcomm. Più che un esplicito rifiuto, Pechino potrebbe dilungare di molto le decisioni o imporre clausole scomode in modo da far fallire l’accordo.
È possibile che Nvidia stia considerando una contropartita tale da convincere le autorità cinesi, però appare difficile immaginare a quali condizioni Pechino potrebbe decidere di acconsentire all’acquisto. Paul Triolo ha suggerito che ARM China, il braccio cinese dell’azienda costituito da una joint venture di proprietà per il 51% di un consorzio d’investitori cinesi sostenuti dal governo, potrebbe essere staccato dalla casa madre in modo tale da evitarne il passaggio sotto la possibile giurisdizione statunitense. Al di là delle complesse vicende della joint venture, dove l’amministratore Allen Wu è al centro di un contenzioso con la casa madre britannica, sembra però improbabile che Pechino decida di accettare di esporsi a una condizione di rischio ipotetico.
Se da un lato, quindi, preservare lo status quo permette di mantenere un livello di rischio basso, dall’altro la ricerca di possibili soluzioni alternative è già in corso. Nonostante il ritardo tecnologico nei confronti di ARM, il RISC-V fornisce standard per microchip gratuiti e open-source che sembrano essere al di là della portata delle sanzioni statunitensi. Alcune grandi aziende tecnologiche cinesi hanno già deciso di integrarlo nei propri prodotti, come Alibaba e Unisoc.
Dato che la logica della competizione tecno-commerciale tra USA e Cina spinge ad allargare i fronti del conflitto, molto difficilmente la questione dell’acquisto di ARM potrà risolversi in modo consensuale. Mentre Donald Trump espande l’offensiva contro la tecnologia cinese, Pechino tenta di proteggere il proprio “perimetro” tecnologico dalla penetrazione statunitense ed è in tale ottica che va letta la vicenda. Sebbene l’acquisto di ARM sia ancora nelle se fasi iniziali, è verosimile che la dimensione politica sia destinata a essere la discriminante dell’accordo di vendita. Lasciando ben poco spazio all’ottimismo.
Guido Alberto Casanova*
*Ricercatore specializzato sui rapporti tra Stato e società civile in Cina e nei paesi dell’Asia orientale. Ha conseguito un master in Asian Politics alla School of Oriental and African Studies di Londra, dove si è laureato con una tesi sul ruolo della competizione tecnologica nel conflitto commerciale tra Cina e Stati Uniti.