Arcipelago laojiao

In by Gabriele Battaglia

La condanna ai lavori forzati è tuttora parte del diritto penale in Cina. Molto si è parlato dei campi di lavoro cinesi, anche avvicinandoli ai gulag sovietici e ai lager nazisti. Molto di meno del laojiao, il sistema di rieducazione attraverso il lavoro: un’istituzione, questa, che gli stessi cinesi vorrebbero presto abrogata. Si sente spesso parlare in Occidente dei laogai (laodong gaizao ‘riforma attraverso il lavoro’) come della versione cinese dei gulag sovietici, sorta di campi di concentramento in cui i detenuti, talvolta condannati per reati politici, vivono e lavorano in condizioni ai limiti della schiavitù.

Il documentario di Al Jazeera dedicato all’argomento, “Slavery: a 21st century evil”, ha riportato in tempi recenti l’attenzione sulla questione, per la quale da anni si battono numerosi attivisti cinesi.

Uno di questi, Harry Wu, reduce da un ventennio di reclusione in uno di questi campi e oggi esiliato negli Usa, ha creato una fondazione, la Laogai Foundation, proprio allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema e spingere le istituzioni americane a fare pressioni sulla Cina.

Quasi mai si fa invece riferimento alla sempre più forte opposizione, anche a livelli ‘alti’, nei confronti di una particolare forma di detenzione, il laojiao (abbreviazione di laodong jiaoyang, letteralmente : ‘rieducazione attraverso il lavoro’). Segno delle numerose spinte al cambiamento in atto in Cina, nel settore della giustizia come in altri campi.

Spesso le espressioni laogai e laojiao sono utilizzate interscambiabilmente fuori dalla Cina, ma in realtà esse descrivono due istituzioni completamente diverse. Il termine laogai è stato abolito nel 1990 e sostituito da un più generico "prigione". 

Nel 1997 una riforma del sistema penale ha ufficialmente messo fine alla politica dei laogai, ma il lavoro forzato esiste ancora. Mentre il laogai era soggetto al diritto penale e legato ad una sentenza comminata da un tribunale, il laojiao è un tipo di sanzione amministrativa che può essere decisa dalle autorità di polizia in particolari circostanze.

I condannati al laogai non ricevevano un salario ed erano privati dei diritti politici; i sottoposti all’odierno regime di laojiao, invece, ricevono un modesto stipendio e conservano i loro diritti politici. Laddove virtualmente non c’erano limiti alla durata della condanna al laogai, la detenzione in regime di laojiao può durare al massimo fino a tre anni.  Non di rado, però, le condanne di questo tipo vengono ripetutamente prolungate su pretesto di reati commessi durante la detenzione, giungendo così a superare i limiti prescritti dalla legge.

La distinzione tra diritto penale e diritto amministrativo in Cina risale alla formulazione di Mao Zedong del concetto di “contraddizioni in seno al popolo”, le quali, a differenza delle “contraddizioni di classe”, per definizione “antagoniste” e risolvibili solo con l’eliminazione della parte avversaria (i “nemici del popolo”), sono “non antagoniste” e vanno sciolte attraverso il compromesso, privilegiando l’armonia sociale e l’interesse comune.

Originariamente utilizzato come strumento punitivo degli “elementi controrivoluzionari”, colpevoli di indisciplina o non conformità ai dettami del Partito (se ne fece largo uso nel corso delle prime “campagne contro la destra”, nel 1955 e 1957), il laojiao si applica oggi nel caso di reati minori e non classificabili nell’ambito penale.

Le “contraddizioni in seno al popolo” sono ormai più che evidenti e accettate nel quadro del “socialismo con caratteristiche cinesi”, e il laojiao rientra nella strategia di controllo sociale attuata dal Partito, che ne ha fatto uno strumento per contenere gli elementi di ‘disordine’ all’interno del sistema. Prostitute, tossicodipendenti e piccoli criminali costituiscono infatti la maggioranza dei detenuti dei laojiao.

La percentuale di condannati per reati politici è notevolmente diminuita negli ultimi 30 anni, eppure il laojiao è ancora usato come mezzo di persecuzione dei “nemici dello Stato”.

Chi diffonde materiale diffamatorio nei confronti dei leader politici o che metta in discussione l’unità della Rpc o l’ordinamento socialista, chi prende contatti con il governo di Taiwan o di altri Paesi “ostili”, chi è accusato di “terrorismo” (è il caso ad esempio degli attivisti autonomisti del Xinjiang che ricadono sotto questa etichetta soprattutto in seguito all’avvio della “guerra globale al terrore” guidata dagli Usa nel post-11 settembre), chi pratica culti non ufficialmente riconosciuti (come i membri del gruppo religioso falun gong), chi presenta petizioni al governo centrale o alle autorità locali disturbando l’ordine pubblico: sono tutte categorie di persone passabili di condanna al laojiao.

La mancanza di controlli e, in alcuni casi, la genericità delle norme, fanno sì che le autorità di polizia possano disporre in maniera arbitraria dello strumento del laojiao, utilizzandolo anche per la detenzione di persone sottoposte ad indagine giudiziaria, sebbene questo sia stato espressamente vietato nelle “Misure riguardanti la gestione del laojiao da parte degli organi di pubblica sicurezza” del 2002.

Le stesse norme prevedono infatti che la polizia possa legittimamente usare il laojiao dopo che un procuratore abbia deciso di non perseguire penalmente il sospettato o in seguito alla decisione di un tribunale di non procedere ai danni di un imputato perché le conseguenze dei suoi atti sono minime.

Da non sottovalutare sono poi i profitti economici che lo Stato e alcuni privati ricavano dallo sfruttamento del lavoro più che a buon mercato dei detenuti. Sebbene non se ne conoscano i dati precisi, la motivazioni economiche sono tra le più usate nel sostegno all’istituzione del laojiao. Spesso i campi sono gestiti direttamente da imprese private, e in molti casi i prodotti del lavoro forzato sono destinati all’esportazione anche verso l’Europa e gli Usa. 

Negli ultimi anni, esponenti della società civile cinese (soprattutto avvocati e docenti di diritto) hanno espresso critiche al sistema del laojiao, chiedendone la riforma o l’abrogazione. La base su cui si fonda la condanna della rieducazione attraverso il lavoro è l’articolo della Costituzione che sancisce che nessun cittadino può essere arrestato senza l’approvazione di un tribunale o di un procuratore.

Diverse petizioni al riguardo sono state presentate al governo centrale e il dibattito è acceso (e, a quanto pare, consentito e favorito ‘dall’alto’) sia nei contesti accademici che in quelli più generalisti. Una serie di articoli sull’argomento apparsi nell’ultimo mese sul Global Times (lo spin off in inglese del Quotidiano del Popolo, storico organo del Pcc) riporta i pareri di esperti in materia e sottolinea l’illegittimità e la mancanza di trasparenza di questo sistema.

La versione internazionale della ‘voce del regime’, racconta con simpatia di Wang Cheng, avvocato di Hangzhou, e della sua raccolta di firme per una petizione da presentare al governo centrale volta a chiedere l’abolizione del laojiao, e di Chen Zhonglin, deputato dell’Assemblea Nazionale del Popolo, che dal 2003 presenta proposte relative alla spinosa questione.

L’attenzione pubblica sui laojiao è scaturita negli ultimi tempi anche dalle numerose denunce da parte di ex detenuti nei campi di rieducazione contro i comitati responsabili della loro condanna.

È tristemente nota la storia di Tang Hui, la madre di una ragazzina vittima di stupro nella provincia meridionale dello Hunan, condannata alla rieducazione attraverso il lavoro con l’accusa di aver “seriamente disturbato l’ordine pubblico con ripetute petizioni” per denunciare le ingiustizie commesse dalle autorità nella gestione del caso. Lo scalpore suscitato dalla diffusione della notizia ha costretto il governo locale ad acconsentire al suo rilascio, lo scorso agosto.

Anche le autorità hanno dovuto prendere atto della situazione: attualmente, progetti pilota di riforma del laojiao, i cui dettagli non sono ancora stati resi noti, sono in fase di sperimentazione in diverse province del Paese.

Nonostante siano ancora forti le resistenze dei diversi gruppi di interesse che si oppongono all’abolizione del sistema, non sembra lontano il momento in cui questa istituzione (come altre nella storia recente) diventi solo un oscuro ricordo del passato, segnando un passo in avanti nella difficile battaglia per la costruzione di uno stato di diritto in Cina.

[foto credits: wikimedia.org]

*Fortuna Balzano nel 2012 ha conseguito, presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, la laurea magistrale in Letterature e Culture Comparate, specializzandosi in lingua cinese e inglese. È redattrice della sezione esteri della rivista online Il Levante. Attualmente si trova a Pechino per uno stage presso l’Ufficio Stampa dell’Ambasciata italiana.

** L’immagine di copertina è una mappa dei campi di lavoro cinesi. Aggiornata all’anno 2006, è basata sui dati di Wu H., Fang L., Laogai–The Chinese Gulag, 1992, Westview Press, pp. 264