L’incontro Austin-Dong e la competizione Usa-Cina. I toni forti su Taiwan e le scintille su Mar Cinese meridionale tra Pechino e le Filippine. I timori sudcoreani sull’asse tra Russia e Corea del Nord. L’evoluzione delle posizioni degli altri paesi asiatici. L’irruzione di Zelensky che cambia linea sulla Cina. Segnali dalle sessioni e retroscena dalle stanze e corridoi dello Shangri-La di Singapore. Il racconto di Lorenzo Lamperti dal luogo del massimo forum sulla difesa dell’Asia-Pacifico
“Noi paesi più piccoli siamo come gli hobbit nel Signore degli Anelli. Dovremmo tenere noi l’anello, perché le grandi potenze lo bramano troppo”. Ng Eng Hen, ministro della Difesa di Singapore, sa sempre come dosare analisi e “intrattenimento”. Lo ha fatto anche questa volta, parlando come da tradizione all’ultima sessione plenaria dello Shangri-La Dialogue, il massimo forum sulla difesa dell’Asia-Pacifico. Un finale però stravolto dall’arrivo non annunciato di Volodymyr Zelensky, che ha connesso anche fisicamente il fronte europeo a quello orientale.
In precedenza, il fulcro delle discussioni era stata la crescente competizione tra Stati Uniti e Cina, coi capi della difesa delle due potenze che si sono incontrati per la prima volta dopo quasi due anni. Tra tensioni sempre più forti sul Mar Cinese meridionale e i timori sudcoreani per l’alleanza militare tra Russia e Corea del Nord, lo Shangri-La Dialogue 2024 ha offerto parecchi spunti di riflessione e fatto emergere l’evoluzione di diverse dinamiche, non solo tramite le sessioni plenarie e quelle speciali, ma anche e soprattutto grazie alla condivisione di uno spazio informale in cui si può dialogare con protagonisti della difesa solitamente inaccessibili.
Giorno 1 – Austin-Dong, Paparo-Cui e Marcos
Lo Shangri-La Dialogue non era ancora ufficialmente iniziato che già si erano incontrati Lloyd Austin e Dong Jun, rispettivamente segretario della Difesa degli Stati Uniti e ministro della Difesa della Cina. Un netto cambio di passo rispetto al 2023, quando tra il capo del Pentagono e Li Shangfu c’era stata solo una rapida stretta di mano. La parte cinese aveva rifiutato il bilaterale, ufficialmente per la mancata rimozione delle sanzioni americane sul ministro per l’acquisto di armi dalla Russia. Nel frattempo, però, è stato rimosso proprio Li per motivi mai chiariti, anche se diverse fonti hanno collegato la scelta a un possibile legame con uno scandalo di corruzione che ha colpito altri ufficiali dell’Esercito popolare di liberazione e in cui Li sarebbe rimasto coinvolto quando ricopriva il precedente ruolo di responsabile delle forniture militari.
L’avvento di Dong, un veterano della marina militare, ha favorito il riavvio del dialogo. Il colloquio è durato 75 minuti, più dei previsti 60, e si è svolto in una delle stanze private dell’hotel. Da parte cinese, è stato descritto come “positivo e costruttivo”, aggettivi che mancavano nel confronto del novembre 2022 tra Austin e il predecessore di Li, Wei Fenghe. Nel suo esordio internazionale, Dong ha negato che la Cina stia fornendo armi e aiuti militari alla Russia per la guerra in Ucraina. Proprio alla vigilia dello Shangri-La Dialogue, Pechino ha imposto nuove restrizioni per le esportazioni di materiali a doppio uso come i giubbotti antiproiettile.
Resta come prevedibile una grande distanza su Taiwan. Austin si è detto preoccupato per le recenti esercitazioni militari cinesi intorno all’isola, definite “provocatorie”. Dong ha risposto accusando gli Stati Uniti di aver violato il principio della unica Cina mandando armi e delegazioni del Congresso a Taipei. All’origine del disaccordo, al di là delle reciproche manovre degli ultimi anni, ci sono peraltro due posizioni inconciliabili di partenza. A Pechino non basta la garanzia del rispetto della “unica Cina”, se i tre comunicati congiunti che avviarono i rapporti diplomatici continuano a essere accompagnati e in qualche modo sorpassati (ritiene la parte cinese) dal Taiwan Relations Act e le Sei Assicurazioni, strumenti ritenuti invece indispensabili da Washington per tutelare l’autodifesa di Taipei ed evitare azioni unilaterali sullo Stretto.
Qualche scintilla anche sul Mar Cinese meridionale. Austin ha ricordato che esiste un trattato di mutua difesa tra Stati Uniti e Filippine, coinvolte in una disputa territoriale sempre più tesa con la Cina. Nonostante l’assenza di risultati concreti, il colloquio ha comunque dato un segnale positivo. Il disaccordo politico, commerciale e strategico resta. Ma sul fronte militare parlarsi significa rendere meno difficile evitare che un potenziale incidente si trasformi in qualcosa di peggio.
Il confronto pare aver aiutato ad abbassare i toni della contrapposizione. Chi non era presente lo scorso anno potrebbe restare sorpreso, visto che lo scambio esplicito o implicito di accuse è sempre molto forte, ma rispetto al 2023 si è notata una de escalation retorica. Certo, la contrapposizione strategica resta tutta e anzi probabilmente si complica, sedimentandosi. Ma se la rivalità è ormai scontata, l’atmosfera nella quale si è giocata è quantomeno relativamente migliorata. Più volte sono stati visti componenti delle due nutrite delegazioni, anche di grado inferiore, interloquire brevemente nelle sale e nei corridoi dello Shangri-La.
A differenza della precedente edizione, una sessione speciale ha visto persino la partecipazione congiunta di speaker dei due paesi, il capo del comando dell’Indo-Pacifico Samuel Paparo e l’ex ambasciatore cinese a Washington Cui Tiankai. La sessione era dedicata al tema di “deterrenza e rassicurazione”. Paparo ha fatto un discorso centrato maggiormente sulla deterrenza, Cui ha parlato invece più del tono generale entro il quale vengono inseriti questi due concetti. “Se ci vediamo come potenziali o veri rivali, se percepiamo il mondo come un’arena di scontro tra grandi potenze, la deterrenza potrebbe sfociare in minacce più aperte e le rassicurazioni potrebbero perdere di credibilità. Si ci vediamo come potenziali partner non credo che avremo bisogno di così tanta deterrenza perché avremo sufficienti rassicurazioni”.
I due hanno dialogato a lungo direttamente durante le Q&A. Paparo ha assicurato: “Non siete voi gli unici a volere la pace, parli come se noi volessimo combattere ma non è così”. Curioso siparietto poi con entrambi che citano presunti colloqui avuti con Henry Kissinger poco prima che morisse. Interrogato sulla possibile formazione di una “Nato asiatica“, Paparo ha risposto di non vedere la necessità di una “struttura ufficiale”, ma semmai di una “coalizione che può entrare in azione rapidamente se sarà necessario”, risultato raggiungibile attraverso l’aumento dell’interoperabilità.
Cui ha parlato invece di Ucraina, utilizzando la parola “conflitto” al contrario della formula standard cinese “crisi”. E ha spiegato perché Pechino non parteciperà alla conferenza sulla pace che si terrà in Svizzera. “Supportiamo qualsiasi sforzo per la soluzione pacifica, ma per avere successo servono sia l’Ucraina sia la Russia. Senza una parte come si fa ad avere la pace? Deve essere chiaro che una conferenza deve portare alla pace, non una conferenza per continuare la guerra“.
Come aveva fatto anche l’anno scorso, Cui ha poi esaltato la “via asiatica” che mette al centro “pace e prosperità”, rivendicando la storica posizione cinese a favore della sovranità e dell’integrità territoriale e proponendo la costruzione di una nuova architettura di sicurezza globale che tenga conto sia della sovranità e integrità territoriale, ma anche delle “legittime preoccupazioni di sicurezza” di tutti i paesi, formula utilizzata sin dall’inizio della guerra in Ucraina e che ora viene ripetuta anche sulla penisola coreana.
In serata c’è poi stata l’apertura ufficiale dello Shangri-La Dialogue, con il keynote address di Ferdinand Marcos Jr, dopo quelli degli scorsi due anni del premier australiano Anthony Albanese e di quello giapponese Fumio Kishida, che proprio da Singapore nel 2022 disse per la prima volta che l’Asia orientale rischia di essere “la prossima Ucraina”. Marcos è stato davvero eloquente, con un discorso molto forte e netto. Il presidente filippino ha invitato i membri della regione a unirsi e a “prendere una posizione coraggiosa contro le violazioni degli ordini internazionali basati sulle regole nel Mar Cinese meridionale”. Ha sottolineato che i paesi dell’area non sono solo “spettatori degli eventi mondiali”, respingendo la descrizione dell’Asia-Pacifico come una “arena di confronto tra grandi potenze“.
Aggiungendo: “Dovremmo trascendere la geopolitica, trovare un terreno comune e lavorare per rafforzare le istituzioni globali. Ciò richiede una leadership attiva da parte delle medie potenze, che hanno la capacità di attraversare le linee politiche e ideologiche, forgiare un consenso genuino e guidare sforzi credibili verso soluzioni multilaterali decisive”. Rivolgendosi direttamente alle dispute marittime con la Cina, Marcos ha garantito che Manila difenderà “ogni centimetro” d’acqua e della barriera corallina, sostenendo che la sovranità filippina è basata sulle regole internazionali e non su “fantasie“. Soprattutto, ha per la prima volta chiarito che cosa potrebbe far scattare la richiesta di azionare il trattato di mutua difesa con gli Stati Uniti. Secondo Marcos, l’uccisione su azione volontaria di un marinaio o funzionario cinese costituirebbe il “passaggio del Rubicone”.
Era già tarda sera, ma nella delegazione cinese c’era parecchio movimento per un discorso accolto molto male. Nel percorso verso la sua stanza, ancora Cui dice: “Fino a due anni fa eravamo riusciti a gestire la situazione con successo, le cose erano molto stabili. Poi che cosa è cambiato?“, alludendo all’elezione di Marcos nella primavera del 2022, che ha ribaltato la politica estera filocinese del predecessore Rodrigo Duterte. Eppure, viene ricordato, il primo viaggio di Marcos all’estero era stato proprio a Pechino, ben prima della visita alla Casa Bianca del 1° maggio 2023. Da parte filippina, emerge insoddisfazione per il fatto che la Cina abbia continuato a coltivare i rapporti con Duterte, che ha incontrato Xi Jinping già ben dentro il mandato di Marcos. “Un’interferenza per dividerci”, viene detto. Fatto sta che è proprio questo il confronto più acceso dell’edizione 2024 dello Shangri-La Dialogue, quello tra Cina e Filippine.
Giorno 2 – Austin, Prabowo, Shin, Minoru
La seconda giornata si è aperta con il discorso di Austin, che ha avuto toni decisamente più morbidi di quelli del 2023. Già dal titolo dell’intervento: “Le partnership strategiche degli Usa nell’Indo-Pacifico”. Lo scorso anno al posto della formula “partnership strategiche” appariva la ben più pretenziosa parola “leadership“. Cosa che era stata criticatissima dai cinesi. Austin ha esordito parlando del colloquio di Dong, auspicando altri confronti tra i due eserciti e ha poi elaborato il discorso intorno le attività degli Usa nella regione, piuttosto che criticare quelle di Pechino.
Il capo del Pentagono non ha praticamente mai citato esplicitamente la Cina per tutto l’intervento. Ha comunque ancorato la presenza statunitense nella regione: “Gli Usa sono vitali per il futuro dell’Indo-Pacifico e l’Indo-Pacifico è vitale per il futuro degli Usa”. Frase standard su Taiwan, con solo una critica indiretta alla “punizione” verso il neo presidente Lai Ching-te, formula utilizzata da Pechino nel lanciare le recenti esercitazioni.
Austin ha poi elencato tutti gli accordi sottoscritti con i vari paesi asiatici durante l’amministrazione Biden, ma nella session Q&A ha negato la possibilità di una “Nato asiatica” in risposta al cinese Cao Yanzhong, parlando di una “nuova convergenza” contro coercizione e aggressione, con “lunghe amicizie che si sviluppano in forme profonde di cooperazione sul fronte della sicurezza e su quello industriale”.
Interessanti altre due risposte di Austin. A un delegato sudcoreano dice di essere “altamente dubbioso” che si possa sviluppare un programma di produzione congiunta di sottomarini a propulsione nucleare con Seul, dopo quello già avviato con l’Australia nella cornice di Aukus. Soprattutto, prova ad abbassare la temperatura sulle Filippine, con un’affermazione molto vaga su che cosa potrebbe far scattare il trattato di mutua difesa, non confermando dunque la linea chiara di Marcos.
La risposta ufficiale cinese al discorso è stata critica, denunciando nuovamente l’intenzione americana di costruire una Nato asiatica in funzione anti cinese che rischia di portare instabilità e conflitti, fomentando le dispute già aperte trasformandole in crisi aperte. A partire proprio da quella con le Filippine. Off the record, però, è stato notato il tono più soft e cauto di Austin rispetto allo scorso anno. Anche se la sensazione di “accerchiamento resta”, visto che viene fatto notare che l’approccio dialogante di Austin è accompagnato da quello più critico e assertivo degli alleati asiatici degli Usa.
A proposito di alleati asiatici di Washington, durante la seconda giornata sono intervenuti anche i ministri della Difesa di Corea del Sud e Giappone. Shin Won-sik ha elencato i numeri dei lanci balistici della Corea del Nord, denunciando con grande forza la cooperazione tra Pyongyang e Mosca, citando il passaggio di 10 mila container. “La Russia usa armi e razzi nordcoreani in Ucraina e in cambio fornisce trasferimento tecnologico anche sul campo satellitare e militare. Mosca fa parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e dovrebbe essere un guardiano della sicurezza e delle risoluzioni delle Nazioni Unite. Invece ha tradito la comunità internazionale”, ha detto Shin, sostenendo che l’alleanza ormai quasi esplicita tra Russia e Corea del Nord dimostra che la crisi della penisola coreana non è un problema solo regionale, ma globale.
Allo stesso tempo, Shin ha allontanato la possibilità di esportare direttamente armi a Kiev. “Abbiamo una legge che esclude l’export di armi a paesi in conflitto. Per cambiarla serve prima costruire un consenso dentro il paese”. Difficile, se non impossibile, che ciò accada. A maggior ragione dopo la batosta ricevuta dal partito di governo filostatunitense alle elezioni legislative dello scorso aprile. Shin ha infine esaltato la cooperazione ritrovata con il Giappone, che ha definito come “un obbligo, non una scelta”.
Il giapponese Kihaka Minoru ha fatto un discorso ampio, concentrandosi sulla necessità di coltivare partnership globali per far fronte alle nuove minacce che non sono solo sul fronte militare ma anche su quello civile e infrastrutturale, attraverso la sfera cyber. “Il confine tra periodo di pace e di guerra è sempre più labile”, ha avvertito, giustificando la crescente cooperazione con gli Usa e con la Nato con la necessità di far fronte all’autoritarismo e ai tentativi di cambiare lo status quo con la forza.
C’è poi stato il discorso di un altro capo di Stato, seppure non ancora ufficialmente in carica, cioè quello del presidente eletto indonesiano Prabowo Subianto. Ha parlato a lungo di Israele e Palestina, chiedendo la soluzione dei due Stati e promettendo assistenza umanitaria. Ha lodato la richiesta di Joe Biden di mettere fine alla guerra e ha ricordato la sua proposta di cessate il fuoco in Ucraina, riferendosi al piano di “pace alla coreana” con congelamento del conflitto che aveva lanciato lo scorso anno. Come aveva già fatto nel 2023, ha definito obbligatoria la presenza sia degli Usa che della Cina nella regione, elogiandone le rispettive “grandi civiltà” lanciando un appello ai loro leader: “Noi dipendiamo dalla loro saggezza, gli domandiamo di averla e di ricordare che da un grande potere deriva una grande responsabilità”, con citazione di Peter Parker aka Uomo Ragno.
Da notare anche una maggiore partecipazione del Vietnam alle discussioni. Il comandante della guardia costiera di Hanoi ha parlato a una sessione speciale insieme ai colleghi di Filippine, Indonesia e Usa, sottolineando la validità dell’Unclos del 1982 sulle questioni marittime. Toni cauti, come da tradizione, ma negli scorsi anni i funzionari vietnamiti erano stati quasi sempre in silenzio, tra i timori delle conseguenze di un possibile allineamento nel rapporto tra Pechino e Mosca, di cui invece Hanoi ha sempre sfruttato alcune asimmetrie. Aver ospitato nei mesi scorsi sia Biden sia Xi ha dato evidentemente maggiore fiducia sulla tenuta della sua sua bamboo diplomacy vietnamita.
Giorno 3 – Dong e Zelensky
L’ultimo giorno si è aperto condizionato dall’arrivo di Zelensky, giunto allo Shangri-La nel tardo pomeriggio di sabato. La sua certa richiesta di incontrare Dong è stata sin da subito vissuta con imbarazzo da parte cinese. La diplomazia di Pechino ha regole molto meno flessibili di quelle di molti paesi occidentali e gli incontri tra funzionari di non pari grado, in un senso o nell’altro, sono assai rari. La contingenza ha complicato ulteriormente la situazione: era difficile immaginare che il ministro della Difesa Dong potesse incontrare un capo di Stato straniero nell’ambito di un viaggio non preannunciato, senza il placet diretto della leadership e soprattutto senza preparativi.
Dong è stato impegnato a rivedere parzialmente il suo discorso, tenendo conto dell’approccio cauto di Austin ma anche di quello assertivo di Marcos. Il risultato è un intervento piuttosto in linea con quello dello scorso anno di Li, anche se vi sono maggiori richiami alla necessità e all’auspicio di maggiori scambi militari con gli Usa, descritti come una “necessità“. Un tentativo di allontanare lo spettro di un conflitto, dunque.
Ma attenzione perché le divergenze strutturali restano e anzi sembrano ormai sedimentate, facendo emergere visioni di mondo contrapposte. Come detto, gli Usa rivendicano il legame indissolubile con l’Indo-Pacifico, presentandosi come tutori della libertà di navigazioni e garanti delle capacità di difesa dei vari paesi nel mirino delle azioni assertive di Pechino, soprattutto sul fronte marittimo. La Cina usa invece il “noi” per parlare di Asia e presenta Washington come un “corpo estraneo” che genera instabilità a causa di una mentalità da guerra fredda che fomenta la divisione e il confronto tra blocchi. La Cina denuncia il tentativo americano di costruire una “Nato asiatica”, mentre gli Usa parlano di “nuova convergenza” composta da iniziative bilaterali o minilaterali complementari tra loro. Washington accusa Pechino di dire una cosa e farne un’altra, soprattutto in riferimento alla volontà di dialogo per risolvere le controversie, sottolineando le azioni “aggressive” nei confronti dei vicini più piccoli. Azioni che Pechino giustifica come autodifesa di fronte alle interferenze americane.
Molto ampio il passaggio di Dong su Taiwan. che ha usato una retorica anche più aggressiva di quella degli anni scorsi, con le varie formule utilizzate dai funzionari del Partito comunista in risposta all’insediamento del nuovo presidente Lai Ching-te. Dong ha definito le autorità del DPP (il partito al governo a Taipei) dei “separatisti” che con le loro “dichiarazioni farneticanti tradiscono gli antenati cinesi” e vanno verso “l’autodistruzione”. Il passaggio davvero significativo è il seguente: “Restiamo impegnati alla riunificazione pacifica, ma questa prospettiva viene costantemente erosa dai separatisti e dalle forze straniere. L’Esercito popolare di liberazione resterà una forza vigile per perseguire la riunificazione”. Si tratta di un elemento rilevante perché dà una prospettiva dinamica e non statica alla situazione e fa intendere che la Cina possa in futuro anche iniziare a pensare che resti poco spazio per un’azione di tipo politico per raggiungere i suoi obiettivi. Proprio il lasciare intravedere quello spazio è sempre stato cruciale per il mantenimento dello status quo, come ha ricordato il ministro di Singapore Ng Eng Hen durante l’ultima sessione plenaria.
Sulle Filippine, Dong ha accusato Manila di non rispettare accordi presi dalle amministrazioni precedenti e di aver violato i principi Asean consentendo al dispiegamento di missili a medio raggio di un paese terzo. “Finora abbiamo esercitato molta pazienza e moderazione, ma c’è un limite alla nostra moderazione”, avvisa.
Nel suo discorso, Dong ha ribadito che Pechino non ha fornito e non fornirà armi a nessuna delle due parti in conflitto, sottolineando la recente stretta alle esportazioni di materiali dual use. Non si è invece espresso esplicitamente sulla Conferenza in svizzera, ma i delegati cinesi hanno detto piu volte che sosterranno, forse di sponda col Brasile a cavallo del G20, un’eventuale seconda conferenza riconosciuta anche dalla Russia. Ipotesi allontanata da Zelensky, che ha rivendicato il diritto di iniziare a suo modo il processo di pace.
Dong non era presente al discorso di Zelensky, entrato in sala negli ultimi 30 minuti dell’ultima sessione plenaria dove stavano parlando i ministri della Difesa di Malaysia e Singapore. L’obiettivo è quello di ottenere la partecipazione dei paesi asiatici alla conferenza sulla pace in Svizzera. Ha spiegato che l’obiettivo della conferenza è raggiungere consenso su tre puinti: sicurezza nucleare, sicurezza alimentare e il rilascio dei prigionieri di guerra e dei bambini ucraini trattenuti in Russia. Zelensky ha molto insistito sul fatto che la conferenza è il primo passo necessario a innescare un processo che porti alla pace, attraverso un aumento della pressione internazionale su Mosca. Sottolineando che 106 paesi e organizzazioni internazionali hanno confermato la loro presenza e dicendosi “deluso” della probabile assenza di altri, Zelensky si è rivolto soprattutto alla Cina. Dapprima implicitamente, come quando ha detto che “la conferenza è un passo verso la pace e non un modo per continuare la guerra”, definizione utilizzata nei giorni precedenti da Pechino per giustificare la sua assenza in Svizzera.
Poi, in una breve conferenza stampa, Zelensky ha alzato i toni, lamentando il mancato incontro con la delegazione cinese e denunciando “supporto alla Russia”. Soprattutto dal punto di vista diplomatico, aiutando il “boicottaggio” della conferenza svizzera. Per la prima volta, Zelensky ha detto che secondo l’intelligence ucraina delle componenti belliche provenienti dalla Cina starebbero entrando nel mercato russo, aggiungendo però che nelle armi di Mosca ci sono anche componenti di altri paesi, che potrebbero dunque non esserne al corrente. La critica più forte resta dunque sul piano politico: “Non supportare la conferenza in Svizzera significa di fatto supportare l’aggressore e la guerra”, ha detto. Si tratta di un salto di qualità: fin qui Kiev era sempre stata attenta a non alienarsi le possibilità di dialogo con Pechino, ritenute decisive per fermare l’azione militare di Mosca. Le parole di Zelensky portano alla luce una frattura che potrebbe complicare di non poco anche le relazioni della Cina con l’Europa. A meno che l’occasione non sia sfruttata dai vertici cinesi per riallacciare un filo anche sottile di dialogo con Kiev.
Di Lorenzo Lamperti
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.