Il momento Nike della Apple

In by Simone

Non c’è fine ai problemi di Foxconn in Cina. L’accettazione di controlli da parte delle associazioni e le promesse di Tim Cook non sono bastate. Un nuovo report fotografa una situazione di stage forzati, irregolarità e promesse mancate.  Lo hanno definito il “momento Nike” della Apple. È quando un marchio internazionale entra nel mirino delle associazioni delle società civile che si occupano di rispetto dei lavoratori e di tutela dell’ambiente.

Segna la fase di maturità, come capitò alla Nike negli anni Novanta: raggiunto l’apice in termini commerciali e di visibilità i riflettori puntano sulle pratiche di produzione. E in genere scoprono qualcosa di marcio.

La Apple, sotto accusa dagli stessi media americani, deve ora ripulirsi l’immagine. Per questo ha accettato l’ispezione della Fair Labor Association presso gli stabilimenti che producono il suo hardware e – per bocca di Tim Cook, nel suo primo viaggio in Cina da amministratore delegato – ha promesso quanto Jobs non aveva ancora fatto: porre rimedio alle violazioni dei diritti dei lavoratori negli impianti cinesi.

La Fair Labor Association ha condotto infatti indagini su oltre 35mila operai intenti a produrre iPod, iPad e iPhone in due impianti della Foxconn a Shenzhen (Guanlan e Longhua) e uno a Chengdu.

Le 13 pagine del rapporto documentano ben cinquanta violazioni dei diritti dei lavoratori. La più grave sarebbe che i lavoratori di tutte e tre le strutture avrebbero lavorato una media di oltre 60 ore alla settimana, superando in molti casi le 36 ore di straordinario al mese – tetto massimo consentito dalla legge cinese – e con periodi in cui alcuni lavoratori non avrebbero avuto nemmeno un giorno di pausa a settimana.

Nel frattempo Li Keqiang, attuale vice premier (e più che probabile futuro primo ministro) cinese, ha invitato Apple a condurre gli affari in Cina “in un modo onesto e rispettoso della legge” esplicitando allo stesso Cook la convinzione che “le imprese straniere devono proteggere i lavoratori”.

La Foxconn è l’azienda privata in Cina che impiega il maggior numero di lavoratori (sono circa un milione 200mila) ed è sicuramente una conquista che il suo presidente, Terry Gou, abbia accettato – anche se solo entro il 2013 – di riportare le sue fabbriche nei limiti della legge cinese: 40 ore di lavoro a settimana e 36 ore di straordinario mensile.

Sembra un lieto fine. E invece no. Un report della Students and Scholars Against Corporate Misbehaviour (Sacom) rivela una situazione ben diversa, facendo notare che il rapporto della FLA non avrebbe identificato il regime militaristico delle fabbriche, l’uso degli studenti con finalità di formazione, né avrebbe chiesto espliciti miglioramenti salariali all’azienda.

Il gruppo messo in piedi dai professori delle Università, ha infatti prodotto uno studio alternativo, dopo avere indagato diciannove stabilimenti Foxconn in quattordici città del paese nel corso degli ultimi due anni, completando 2.409 questionari.

I ricercatori avrebbero condotto oltre 500 interviste e avrebbe inviato anche venti investigatori, sotto copertura, a lavorare presso impianti della società.

Non si è trattato di una novità: il gruppo aveva pubblicato due rapporti precedenti, nel mese di ottobre 2010 e nel maggio 2011. Secondo i suoi promotori però la Foxconn non aveva proceduto a nessun miglioramento, rendendo necessaria una nuova ricerca.

Secondo il quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, il governo dello Henan avrebbe speso 16 milioni di yuan (quasi due milioni di euro) per assicurarsi che Foxconn investisse nella sua regione e il quotidiano presume che il costo pubblico di ogni lavoratore assunto fosse di 600 yuan (circa 70 euro) e che questo costo costituisca “un abuso di denaro pubblico”.

Non solo. Il report della Sacom ha accusato la Fla di aver sottostimato il problema degli stage forzati. Lo Yancheng Evening News ha riportato che a dicembre scorso 1500 studenti dello Henan, la regione più popolosa della Cina, sono stati forzati a un periodo di “stage” nella fabbrica Foxconn di Zhengzhou, proprio quella che lo stesso Tim Cook ha visitato in questi giorni.

Studenti di lingue, arte, musica e qualsivoglia disciplina della regione, per laurearsi erano costretti a un internship in fabbrica dai tre ai sei mesi.

Un “periodo di formazione” da svolgere durante le vacanze estive o invernali, in cui lavorare dieci ore al giorno per sette giorni alla settimana non era affatto inusuale.

Il quotidiano britannico The Guardian ha verificato i dati della Sacom e ha confermato che per gli studenti in “formazione” dalla Foxconn 10 ore lavorative per sei giorni alla settimana erano lo standard.

Le scuole che inviano studenti a lavorare per la Foxconn ricevono premi da parte delle autorità locali”, ha detto un testimone, “Gli studenti lavorano quanto gli assunti in modo normale, ma Foxconn li paga come stagisti, senza assicurazione sociale o sanitaria”.

Gli studenti delle scuole professionali sono costretti a lavorare in Foxconn, come manodopera a basso costo, spinti dalla paura di provvedimenti disciplinari da parte delle loro scuole e dei governi locali”, recita il rapporto.

Nell’estate del 2010, quando la Foxconn era in crisi a seguito della famosa ondata di suicidi, gli studenti di istituti professionali che dallo Henan furono mandati a lavorare nello stabilimento di Shenzhen erano addirittura centomila.

Ma il rapporto Fla, che pure parla degli stage in fabbrica degli studenti, non dice molto al riguardo giustificandosi con la difficoltà di regolarizzare gli stagisti. Per la legge cinese, infatti, non sono impiegati e quindi non hanno alcun rapporto lavorativo con la fabbrica che li “ospita”.

La conclusione è che, come spesso accade, in Foxconn i lavoratori più deboli sono i meno tutelati.

Infine ci sono i mancati aumenti di stipendio. Il South China Morning Post riporta le lamentele, segnalate anche dalla ricerca universitaria, circa l’opera di public relation di Foxconn, che non avrebbe però portato alla richiesta formale fatta dai suoi lavoratori: aumenti salariali.

Lu Yi, un operaio di Jiangxi che ha lavorato in uno stabilimento di Foxconn a Shenzhen, ha detto che “almeno 16 dei circa 100 lavoratori sulla mia linea di produzione Foxconn sono andati via, si sono licenziati, perché erano arrabbiati che la Foxconn non ha mantenuto la sua promessa di un aumento salariale: la Foxconn aveva detto in febbraio di voler aumentare gli stipendi dei lavoratori nei suoi stabilimenti continentali del 16 al 25 per cento, portando l’aumento a circa 400 yuan al mese (quasi 50 euro), ma io ho ottenuto solo a 160 yuan (circa 18 euro) di aumento questo mese”.

[Alcune parti di questo articolo sono state pubblicate su Rassegna.it e altre su Wired; Foto Credits: japanfocus.org]