In anteprima su China Files, il capitolo dedicato ai rapporti tra Cina e Pakistan in "Apocalisse Pakistan", libro scritto da Beniamino Natale e e Francesca Marino (con prefazione di Lucio Caracciolo) per Memori ed. Domani a Pechino presentazione in Istituto di Cultura, alle 17.30.
PAKISTAN E CINA: UN’ AMICIZIA A PROVA DI BOMBA
La regione del Gilgit-Baltistan, nell’ estremo angolo nordorientale del Pakistan è affascinante e selvaggia. Vi si trovano cinque vette superiori agli 8000 metri, tra cui il K2, e tre dei ghiacciai più alti del mondo – il Baltoro, il Biafo e il Batura. La popolazione locale è composta in maggioranza dall’ etnia dei Balti, di origine tibetana, che si sono convertiti all’ Islam sciita nel 16esimo secolo e si sono mischiati con le altre etnie che hanno avuto una presenza nella zona tra cui i dard di orgine afghana, i kashmiri, gli arabi, i persiani e gli uighuri. Una terra adatta agli etnologi, agli scalatori e ai turisti più audaci.
Che ci fanno allora tra quei picchi stagliati nel cielo azzurro della montagna migliaia di soldati dell’ Esercito di Liberazione Popolare della Cina? La presenza di sette-undicimila militari cinesi in quella impervia regione è stata denunciata da Selig S.Harrison, giornalista e studioso americano, che l’ ha rivelata nell’ agosto del 2010 dalle pagine del New York Times. Secondo Harrison “la Cina vuole controllare la regione per assicurarsi un accesso sicuro al Golfo attraverso il Pakistan. Per raggiungere il Golfo le petroliere cinesi impiegano tra i 16 e i 25 giorni. Quando una ferrovia ad alta velocità e un collegamento stradale attraverso il Gilgit-Baltistan saranno stati completati, la Cina sarà in grado di trasportare cargo dalla Cina orientale alle nuove basi navali pakistane costruite dai cinesi a Gwadar, Pasni ed Ormara, immediatamente ad est del Golfo, in 48 ore”.
“Molti dei soldati dell’ esercito cinese che si trovano nel Gilgit-Baltistan dovrebbero costruire la ferrovia” prosegue Harrison. “Altri lavorano all’ estensione della Karakoram Highway, costruita per collegare la provincia cinese del Xinjiang al Pakistan. Altri ancora sono impegnati per le dighe, le autostrade e in altri progetti. Il mistero circonda la costruzione di 22 tunnel in località segrete vietate ai pakistani. I tunnel sarebbero necessari per il progettato oleodotto dall’ Iran alla Cina, che passarebbe per l’ Himalaya a Gilgit. Ma potrebbero anche essere usati come deposito di missili”. Sia il Pakistan che la Cina hanno smentito le affermazioni di Harrison affermado che sono “frutto della fantasia”.
La smentita cinese è interessante sotto molti punti di vista. “La storia che la Cina ha schierato i suoi militari nella parte settentrionale del Pakistan è totalmente infondata”, ha sostenuto una portavoce del ministero degli esteri di Pechino in una delle regolari conferenze stampa bisettimanali. Un momento. “Parte settentrionale del Pakistan”? La regione di Gilgit-Baltistan faceva parte dell’ ex-regno del Jammu e Kashmir, principale oggetto della rivalità tra India e Pakistan che per il suo possesso hanno combattuto quattro guerre (compresa quella che viene chiamata il “conflitto di Kargil”). Il suo status internazionale è incerto e sicuramente non può essere indicato come “parte settentrionale del Pakistan”. Quando India e Pakistan nacquero dalla disgregazione dell’ impero britannico, nel 1947, il Jammu e Kashmir era governato dalla dinastia hindu dei Dogra. Il territorio comprendeva: l’ aerea di Jammu, in gran parte hindu; la valle del Kashmir – o di Srinagar – abitata quasi esclusivamente da musulmani; il Ladak, geograficamente e culturalmente parte del Tibet buddhista; e la zona del Gilgit-Baltistan, anche essa parte del Tibet “storico” ma quasi esclusivamente musulmana.
Nel 1935 quella che allora era “l’ agenzia di Gilgit” fu concessa in affitto per 60 anni da Hari Singh, il maharaja hindu che era sul trono del Jammu e Kashmir, al governo dell’ India britannica. Negli anni seguenti quindi, l’ area che oggi viene chiamata Gilgit-Baltistan – quella nella quale si troverebbero, secondo Selig S. Harrison, i soldati cinesi – fu amministrata direttamente dal governo coloniale dell’ India. Era una zona a maggioranza musulmana, e su questo si basa la rivendicazione di sovranità del Pakistan. Però, restò formalmente sotto la sovranità dei maharaja Dogra, un caso simile a quello di Hong Kong che alla scadenza del periodo d’ affitto, nel 1997, è stata restituita dalla Gran Bretagna alla Cina. Nel 1947, quando fu il momento della spartizione dell’ Impero britannico tra India e Pakistan, Hari Singh aderì all’ India e questa è la base della rivendicazione di sovranità da parte di New Delhi. Una situazione estremamente spinosa, che ha le sue radici nella posizione di grande rilevanza strategica del Gilgit-Baltistan.
A nordovest confina con l’ Afghanistan e precisamente con il “corridio di Wakhan”, una zona rimasta ai margini della turbolenta storia del Paese degli ultimi decenni e che si ritiene sia di fatto sotto il controllo dell’ esercito pakistano. A nordest con la provincia cinese del Xinjinag, la patria dei musulmani uighuri che rifiutano di essere inglobati nella Cina e continuano a chiamare il loro Paese “Turkestan dell’ est”. A sud e a sudest c’ è il Kashmir sotto controllo indiano. Ad ovest, infine, il Gilgit-Baltistan confina con la Provincia della Frontiera di Nordovest, la zona a popolazione pashtun base dei cosidetti “Taliban pakistani”. Prendendo in extremis la decisione di adherire all’ India, Hari Singh si guardò bene dal consultare i suoi sudditi, in maggioranza musulmani, che con tutta probabilità avrebbero preferito entrare a far parte del Pakistan.
Irregolari sostenuti dal neonato esercito pakistano marciarono su Srinagar. Furono ricacciati indietro ma riuscirono a mantenere il controllo di circa un terzo del territorio: quello che oggi viene chiamato Azad Kashmir (Kashmir libero), con la capitale a Muzzafarabad. L’ “agenzia di Gilgit” fu consegnata al neonato Paese musulmano dalla guarnigione britannica che lo presidiva, comandata dall’ ufficiale filo-pakistano William Brown. Da allora quello che è stato il regno del Jammu e Kashmir è spaccato in due. Il plebiscito con il quale la popolazione avrebbe dovuto decidere a quale delle neonate Nazioni avrebbe aderito, accettato sia dall’ India che dal Pakistan e benedetto dal Consiglio di Sicurezza dell’ ONU con la risoluzione del 21 aprile 1948, non si e’ mai tenuto. Sia India che Pakistan lo rivendicano nella sua interezza. Non ci sono tra le varie fette dell’ ex-regno dei Dogra confini riconosciuti, né dall’ India, né dal Pakistan né – di conseguenza – dalla comunità internazionale. La porzione indiana e quella pakistana sono separate dalla cosidetta “Linea di controllo”, lungo la quale è stato concordato il cessate il fuoco nel 1971. Sui due versanti della “Linea di controllo” l’ esercito pakistano e quello indiano mantegono delle postazioni militari, delle lunghe strisce di bunker corazzati, che spesso si scambiano colpi di cannone. Un gruppo di osservatori dell’ Onu – basato ad Islamabad e a Srinagar – è incaricato di controllare e comunicare al Palazzo di Vetro le violazioni della tregua. Il Gilgit-Baltistan è parte del territorio conteso.
Definirlo “parte settentrionale del Pakistan” è, in termini diplomatici, una bestemmia. La Cina lo ha ammesso implicitamente quando, in seguito alle proteste dell’ India, l’ espressione è scomparsa sia dal sito del ministero degli esteri di Pechino che dal resoconto della conferenza stampa dell’ agenzia ufficiale Xinhua. Quando gli fu chiesto quella definizione indicava il sostegno della Cina alla rivendicazione pakistana, il ministero degli esteri di Pechino rispose, per bocca della portavoce Jiang Yu, che la posizione di Pechino “è chiara”. “Pensiamo – affermò la signora – che il problema del Kashimr sia un’ eredità lasciata dalla storia ad India e Pakistan. Come vicina ed amica di entrambi i Paesi, la Cina pensa che tocchi a loro risolverlo attraverso il dialogo e i negoziati”. Le rivelazioni di Harrison sono venute circa un mese dopo che Pechino aveva negato il visto al generale B.S.Jaswal, capo del Comando Settentrionale dell’ esercito indiano sotto la cui responsabilità cade il Kashmir. Più o meno nello stesso momento, Pechino ha dato il via alla pratica di dare i visti ai cittadini indiani residenti in Kashmir su un foglio separato. Richiesto di chiarimenti, il ministero degli esteri sostenne che “la nostra politica verso gli abitanti indiani del Kashmir sotto il controllo indiano è coerente e rimane immutata”. Da tempo la Cina ha reso chiaro che non riconosce la sovranità dell’ India sulla sua provincia dell’ Arunachal Pradesh. Storicamente e culturalmente l’ Arunachal fa parte del Tibet. Siccome Pechino ritiene che il Tibet le appartenga, di conseguenza pensa che le appartenga anche quel territorio.
Probabilmente si tratta semplicemente di una carta che la Cina si vuole tenere nella manica per giocarla sul tavolo delle trattative sui confini con l’ India, che sono in corso da quasi vent’ anni e non hanno prodotto alcun risultato. Se anche le cose stanno così, questo non toglie che, mettendo il Kashmir sul piatto della bilancia, la Cina ha impresso una decisa accelerazione al processo con il quale sta assumendo il ruolo di protettrice del Pakistan e di antagonista dell’ India per la supremazia in Asia e, in prospettiva, nel mondo. L’ interessamento della Cina per il Kashmir – per la precisione, per i territori che facevano parte del regno del Jammu e Kashmir sotto la dinastia dei Dogra – non è nuovo. Il rapporto speciale del Pakistan con la Cina, sviluppatosi in seguito nell’ attuale alleanza di ferro, e’ nato negli anni sessanta ed e’ in buona parte frutto dell’ iniziativa di Zulfikar Ali Bhutto, allora all’ apice del suo potere (vedi il capitolo….).
Alla fine degli anni cinquanta, a dispetto della retorica terzomondista cara al leader indiano Jawaharlal Nehru (che lancio’ lo slogan ‘hindi-chini bai bai’ , ‘indiani e i cinesi sono fratelli’), il problema delle frontiere tra India e Cina cominciava ad emergere come un grosso ostacolo nelle relazioni tra i due Paesi. L’ India si considera l’ erede dell’ Impero Britannico e ritiene suo diritto ereditarne anche i confini. La Cina ritiene invece di essere la legittima erede dell’ Impero dei Qing, la dinastia spazzata via nel 1911 dalla rivoluzione nazionalista di Sun Yatsen. I confini dei due Imperi, al momento della loro dissoluzione, erano in larga parte indefiniti e non solo nella porzione del Kashmir. La Cina era frazionata in piccole regioni dominate o da potenze straniere o da signori della guerra. Lungo quasi tutti i 4.600 chilometri della frontiera tra i due giganti asiatici, che corre lungo la catena montuosa dell’ Himalaya e ad ovest arriva sui contrafforti del Karakorum, pattuglie dell’ esercito cinese e di quello indiano spesso si incontravano sul territorio conteso, e le scaramucce erano frequenti.
Nel 1962 successe l’ inevitabile: l’ ennesima sparatoria sfociò in una guerra di frontiera, che si concluse dopo tre settimane con l’ avanzata dell’ Esercito di Liberazione Popolare in varie porzioni del territorio indiano, una delle quali si trova sul massiccio dell’ Aksai Chin, all’ estremita’ occidentale dell’ altipiano del Tibet. Come la regione del Gilgit-Baltistan, l’ Aksai Chin faceva parte dell’ area del Ladakh, che a sua volta era parte del regno del Jammu e Kashmir. La Cina si ritirò dalle altre aree che aveva occupato ma lasciò i suoi militari a presidiare l’ Aksai Chin. Bhutto capì al volo che per il Pakistan si trattava di un’ occasione da non perdere. Volò a Pechino e mise in piedi un’ “amichevole” trattativa per la definizione delle frontiere tra i due paesi. Infliggendo all’ India, già umiliata nella guerra di frontiera, un duro colpo psicologico, Cina e Pakistan raggiunsero un accordo dopo pochi mesi, nel marzo del 1963: la Cina cedeva una porzione di territorio sul Karakorum in cambio di una fetta di oltre cinquemila chilometri quadrati del Kashmir settentrionale adiacente all’Aksai Chin, sul quale già controllava un territorio di 38mila chilometri quadrati. All’ Onu, Ali Bhutto ebbe facile gioco a difendersi dai furiosi attacchi degli indiani. “Il Pakistan non ha ceduto niente”, disse riferendosi al “diritto” della Cina ad inglobare il Tibet e con esso l’ Aksai Chin, che nel corso dei secoli era stato per alcuni periodi annesso dalle dinastie tibetane. Al contrario, aggiunse, “ha guadagnato 750 miglia…che in precedenza erano sotto il controllo cinese” (nella valle di Hunza sul Karakorum).
L’ allora ministro degli esteri pakistano defini’ “oltraggiose” le accuse indiane e dichiarò che “al contrario, accettando di delimitare e marcare i suoi confini con la Cina, il Pakistan ha rafforzato le prospettive di pace per la regione”. Le relazioni tra Cina e Pakistan, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, hanno avuto nel corso dei decenni uno sviluppo costante, seguendo una chiara linea che unisce tutti i governanti che si sono succeduti al potere ad Islamabad, dall’ autocrate Yahya Khan al socialista Zlufikar Bhutto, dal fanatico musulmano Zia ul-Haq al laico Asif Ali Zardari. Nel 1998, quando il Pakistan effettuò una serie di test atomici suscitando l’ ira di Washington e distaccandosi dalla comunità internazionale, solo Pechino si mostrò comprensiva. “L’ amicizia tra Pakistan e Cina – commentò l’ allora primo ministro Nawaz Sharif – si e’ dimostrata piu’ forte e piu’ significativa di qualsiasi prova e problema. Noi siamo orgogliosi del nostro grande vicino’’.
Anche nel delicato settore nucleare la stretta collaborazione tra i due Paesi iniziò quando il presidente del Pakistan era il generale Yahya Khan e Bhutto era il suo ministro degli esteri e continua a svilupparsi ai giorni nostri. I rapporti Cina e Pakistan nel campo della tecnologia nucleare sono descritti in dettaglio nel capitolo “La Bomba”. Qui basti ricordare che l’ aiuto cinese fu fondamentale nei primi anni del programma nucleare del Pakistan, quando Pechino fornì all’ alleato, secondo i servizi d’ informazione occidentali, disegni delle armi e uranio arricchito. Senza la cooperazione attiva della Cina, il Pakistan non sarebbe mai diventato una potenza nucleare. Le “preoccupazioni” dell’ Occidente si sono risvegliate nel giugno del 2010 quando due grandi imprese cinesi specializzate in progetti nucleari all’estero, la China Nuclear Industry Fifth Construction Company e la CNNC China Zhongyuan Engineering Corporation, hanno annunciato a Shanghai di essersi accordate col governo di Islamabad per costruire due impianti nucleari a Chasma, nel Punjab pakistano. I due nuovi impianti si aggiungeranno ai due già esistenti, costruiti anch’essi con la collaborazione cinese.
Nel novembre dello stesso anno, visitando la Cina per la sesta volta da quando ha assunto la carica, il presidente Zardari ha aggiunto che è in discussione la costruzione di un altro reattore, il quinto. Pakistan e Cina hanno sottolineato che si tratta semplicemente della prosecuzione di una antica collaborazione per lo sviluppo l’ energia nucleare pacifica. I nuovi impegni cinesi possono essere letti come una risposta all’ accordo raggiunto nel 2008 tra il governo di New Delhi e quello di Washington, che consente agli operatori statunitensi di fornire all’ India la tecnologia per lo sviluppo dell’ energia nucleare, sempre “a scopi pacifici”, chiaro.
La Cina e gli USA, le superpotenze che hanno cominciato a incrociare le spade – diplomaticamente – nel Pacifico nel 2010, sono sostenitrici a spada tratta della non proliferazione, come i loro diplomatici non perdono occasione di affermare. Al contrario, in una straordinaria coincidenza di opinioni e di comportamenti tra i due acerrimi nemici, né India né Pakistan hanno firmato il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, che entrambi ritengono “discriminatorio”. Islamabad e Pechino si considerano partner preferenziali nel settore della difesa. Tra l’altro stanno costruendo insieme un jet da combattimento chiamato JF-17 che sarà equipaggiato con un sistema di radar (Airborne Early Warning & Control) di fabbricazione cinese e di missili SD-10, anch’essi prodotti in Cina. Col crescere della collaborazione in tutti i campi tra i due Paesi, la presenza di cittadini cinesi in Pakistan si è moltiplicata. Secondo l’esperto pakistano Tarique Niazi, nel 2007 in Pakistan lavoravano circa 8.500 cinesi“almeno il triplo degli americani presenti nel paese”. “Di questi – ha scritto Niazi sulla rivista “Foreign Affairs” – 3.500 sono ingegneri e tecnici addetti a una varietà di progetti sino-pakistani. Gli altri 5.000 lavorano nel settore privato.
Gli investimenti della Cina in Pakistan sono schizzati alla cifra di quattro miliardi di dollari. Sono cinesi il 12 per cento (60 su 500) del totale delle imprese straniere che operano in Pakistan. La presenza cinese in Pakistan è cresciuta drammaticamente dall’ invasione americana dell’ Afghanistan, che ha portato Pechino e Islamabad a costruire un porto commerciale a Gwadar, una città sulla costa del Baluchistan. Nel solo porto di Gwadar, la cui costruzione è iniziata nel 2002, lavorano 500 ingegneri e tecnici cinesi’’ (altre fonti parlato di un numero più alto di esperti cinesi, che sarebbero poco meno di duemila). Il tutto senza contare – se le rivelazioni di Harrison corrispondono al vero – le migliaia di soldati impegnati nei “Territori del Nord”. Pechino è cosciente dei rischi che corre in Pakistan e cerca con cura di coprirsi le spalle. Non per niente mantiene aperti i cosidetti “canali di comunicazione” con tutti i gruppi politici pakistani compresa la Jamaat-Islamì, il partito storico degli integralisti musulmani il cui leader Qazi Ahmed Hussein ha visitato più volte la Cina “su invito – come tengono a precisare i cinesi quando ne hanno l’ occasione – del Partito Comunista Cinese”. Questi sforzi hanno avuto finora solo un successo parziali e gli attacchi contro i cinesi già sono aumentati di numero e di frequenza e, come vedremo, vengono da varie parti.
L’ escalation è impressionante, e parla da sola: il 3 maggio del 2004 una bomba esplode nell’ enorme cantiere di Gwadar: tre cinesi rimangono uccisi, nove feriti. L’ attacco terroristico è attribuito a uno dei principali e più feroci gruppi della minoranza etnica dei Baluchi, la Baluchistan Liberation Army (Bla). Nell’ ottobre dello stesso anno, l’ emergente leader integralista Abdullah Mahsud fa rapire due ingegneri cinesi nei pressi di Chagmalai nel Waziristan del Sud, una delle ‘’Federal Administred Tribal Aerea (Fata)’’, alla frontiera con l’ Afghanistan, non lontano da dove si ritiene siano rifugiati i leader dell’ organizzazione terroristica Al Qaeda Osama Bin Laden e Ayaman Al Zawahiri. Abdullah è un giovane leader dei Mahsud, una delle più importanti tribù pashtun, e si è conquistato i galloni sul campo, combattendo in Afghanistan con i Taliban (dove ha perso una gamba) e passando due anni nella prigione americana di Guantanamo Bay prima di essere inspiegabilmente liberato.
Uno dei due cinesi, Wang Peng, è ucciso quando i cecchini dell’ esercito pakistano aprono il fuoco sul gruppetto dei rapitori. Anche cinque dei rapitori rimangono sul terreno mentre l’ altro cittadino cinese, Wang Ende, è tratto in salvo dai militari. Raccontando sul giornale The News, ”quello che è veramente successo’’ a Chagmalai Rahimullah Yusufzai, un autorevole giornalista pashtun, ricorda di aver fatto presente a Mahsud che attaccando la Cina colpiva “un buon amico del Pakistan e delle popolazioni tribali’’. “Noi non siamo nemici del popolo cinese, e sono triste perché siamo costretti a rapire gli ingegneri cinesi’’, risponde l’ estremista. “Ma le persone disperate fanno cose disperate e abbiamo pensato che l’ unico modo per costringere il governo pakistano a mettere fine alle sue operazioni militari nel Waziristan del Sud fosse di rapire degli ingegneri che appartengono al migliore amico del Pakistan, la Cina’’. Abdullah Mahsud prosegue per altri tre anni la sua carriera ed è già diventato una leggenda tra le popolazioni tribali quando, nel luglio 2007, è circondato dai soldati pakistani in una casa di Zhob, un piccolo centro del Waziristan.
Mahsud sceglie il “martirio’’ e, prima di essere catturato, si fa saltare in aria con una delle bombe a mano che porta abitualmente appese alla cintura. La lista delle violenze anticinesi prosegue con l’ assalto contro un gruppo di cinesi a Hub, non lontano da Karachi, il 15 febbraio del 2006: mujaheddin armati attaccano, sparando all’ impazzata dalle loro motociclette, un convoglio di auto di tecnici cinesi, uccidendone tre. Poco più di un anno dopo, il 23 giugno del 2007, la storia della guerra lanciata contro i cinesi in Pakistan dagli estremisti musulmani si arricchisce di un nuovo capitolo: sei donne e un uomo che lavorano in un salone di massaggi a Islamabad vengono sequestrati da un gruppo di studenti della madrasa (la scuola coranica) annessa alla Lal Masjid, la Moschea Rossa, che li accusano di praticare in realtà la prostituzione. Questa volta, “il migliore amico’’ del Pakistan perde la pazienza e chiede a Islamabad di “proteggere la vita dei cittadini cinesi’’. Il presidente Pervez Musharraf ottiene che i sette vengano liberati senza condizioni. Gli estremisti restano però asserragliati nella moschea con altri ostaggi , in pieno centro di Islamabad, chiedendo l’ applicazione integrale della “sharia” – la legge islamica – e inizia un confronto che si conclude con un massacro tre settimane dopo (la vicenda della Moschea Rossa è raccontata dettagliatamente nel capitolo…).
Non è finita. L’ 8 luglio tre commercianti cinesi vengono assassinati nei pressi di Peshawar da “uomini armati e mascherati” (una categoria piuttosto numerosa in Pakistan), in una evidente rappresaglia per l’ attacco contro la Moschea Rossa. Pochi giorni dopo, Abdullah Mahsud viene circondato e si suicida. Non sembrano esserci possibilità che gli attacchi contro i cinesi si fermino nel prossimo futuro. Anzi, sia quelli dei secessionisti baluchi che quelli degli estremisti islamici appaiono destinati a continuare. Per i primi Gwadar, un mastodontico progetto da oltre 260 milioni di dollari, forniti per il 70 per cento della Cina, rappresenta un obiettivo relativamente facile, e un simbolo di tutto quello che è andato storto nelle relazioni tra il Baluchistan e il Pakistan, un simbolo di come le sue ricche risorse naturali siano sfruttate dagli stranieri (ieri inglesi, oggi pakistani e cinesi).
Come tutta la zona delle Fata, infatti, il Baluchistan è stato incorporato nel Pakistan arbitrariamente: se India e Pakistan sono i successori dell’ Impero Britannico, affermano i nazionalisti baluchi , perché mai zone che non ne hanno mai fatto parte devono essere attribuite a uno dei due paesi? Per i pakistani (e per i cinesi), invece, Gwadar rappresenta uno sbocco prezioso sulla rotta del petrolio. Inoltre i punjabi che dominano l’ establishment pakistano considerano la costruzione del nuovo porto come un’ opportunità per decongestionare logisticamente Karachi e indebolire politicamente i suoi infidi politici, siano essi di etnia sindhi come i Bhutto o “mohajir” immigrati dall’ India, come i dirigenti del più forte partito locale, il Muttaidha Quami Movement (Mqm). La maggior parte delle riserve di gas naturale del Pakistan si trova nelle tre aree di Khuzdar, Kohlu e Dera Bugti, nel Baluchistan. Inoltre, la posizione strategica della regione al crocevia con paesi caldi come Iran e Afghanistan e la vicinanza al Golfo Arabico la rendono estremamente appettibile per i militari, che vi hanno costruito importanti basi come quella aerea di Pasni, usata dall’ esercito americano per l’ attacco del 2001 ai Taliban. Sempre secondo Tarique Niazi, “i nazionalisti baluchi hanno avuto un grande beneficio dalla situazione post 9/11 in Afghanistan. Dall’ invasione dell’ Afghanistan da parte degli americani il Pakistan ha schierato un terzo delle sue forze sulla frontiera con quel paese”, indebolendo la presenza militare nella regione, che dal 1947 a oggi ha conosciuto solo brevi periodi di pace.