Apocalisse Pakistan (in esclusiva su CF capitolo su Cina e Pakistan)

In Uncategorized by Simone

In anteprima su China Files, il capitolo dedicato ai rapporti tra Cina e Pakistan in "Apocalisse Pakistan", libro scritto da Beniamino Natale e e Francesca Marino (con prefazione di Lucio Caracciolo) per Memori ed. Domani a Pechino presentazione in Istituto di Cultura, alle 17.30.

PAKISTAN E CINA: UN’ AMICIZIA A PROVA DI BOMBA

La regione del Gilgit-Baltistan, nell’ estremo angolo nordorientale del Pakistan è affascinante e selvaggia. Vi si trovano cinque vette superiori agli 8000 metri, tra cui il K2, e tre dei ghiacciai più alti del mondo – il Baltoro, il Biafo e il Batura. La popolazione locale è composta in maggioranza dall’ etnia dei Balti, di origine tibetana, che si sono convertiti all’ Islam sciita nel 16esimo secolo e si sono mischiati con le altre etnie che hanno avuto una presenza nella zona tra cui i dard di orgine afghana, i kashmiri, gli arabi, i persiani e gli uighuri. Una terra adatta agli etnologi, agli scalatori e ai turisti più audaci.

Che ci fanno allora tra quei picchi stagliati nel cielo azzurro della montagna migliaia di soldati dell’ Esercito di Liberazione Popolare della Cina? La presenza di sette-undicimila militari cinesi in quella impervia regione è stata denunciata da Selig S.Harrison, giornalista e studioso americano, che l’ ha rivelata nell’ agosto del 2010 dalle pagine del New York Times. Secondo Harrison “la Cina vuole controllare la regione per assicurarsi un accesso sicuro al Golfo attraverso il Pakistan. Per raggiungere il Golfo le petroliere cinesi impiegano tra i 16 e i 25 giorni. Quando una ferrovia ad alta velocità e un collegamento stradale attraverso il Gilgit-Baltistan saranno stati completati, la Cina sarà in grado di trasportare cargo dalla Cina orientale alle nuove basi navali pakistane costruite dai cinesi a Gwadar, Pasni ed Ormara, immediatamente ad est del Golfo, in 48 ore”.

“Molti dei soldati dell’ esercito cinese che si trovano nel Gilgit-Baltistan dovrebbero costruire la ferrovia” prosegue Harrison. “Altri lavorano all’ estensione della Karakoram Highway, costruita per collegare la provincia cinese del Xinjiang al Pakistan. Altri ancora sono impegnati per le dighe, le autostrade e in altri progetti. Il mistero circonda la costruzione di 22 tunnel in località segrete vietate ai pakistani. I tunnel sarebbero necessari per il progettato oleodotto dall’ Iran alla Cina, che passarebbe per l’ Himalaya a Gilgit. Ma potrebbero anche essere usati come deposito di missili”. Sia il Pakistan che la Cina hanno smentito le affermazioni di Harrison affermado che sono “frutto della fantasia”.

La smentita cinese è interessante sotto molti punti di vista. “La storia che la Cina ha schierato i suoi militari nella parte settentrionale del Pakistan è totalmente infondata”, ha sostenuto una portavoce del ministero degli esteri di Pechino in una delle regolari conferenze stampa bisettimanali. Un momento. “Parte settentrionale del Pakistan”? La regione di Gilgit-Baltistan faceva parte dell’ ex-regno del Jammu e Kashmir, principale oggetto della rivalità tra India e Pakistan che per il suo possesso hanno combattuto quattro guerre (compresa quella che viene chiamata il “conflitto di Kargil”). Il suo status internazionale è incerto e sicuramente non può essere indicato come “parte settentrionale del Pakistan”. Quando India e Pakistan nacquero dalla disgregazione dell’ impero britannico, nel 1947, il Jammu e Kashmir era governato dalla dinastia hindu dei Dogra. Il territorio comprendeva: l’ aerea di Jammu, in gran parte hindu; la valle del Kashmir – o di Srinagar – abitata quasi esclusivamente da musulmani; il Ladak, geograficamente e culturalmente parte del Tibet buddhista; e la zona del Gilgit-Baltistan, anche essa parte del Tibet “storico” ma quasi esclusivamente musulmana.

Nel 1935 quella che allora era “l’ agenzia di Gilgit” fu concessa in affitto per 60 anni da Hari Singh, il maharaja hindu che era sul trono del Jammu e Kashmir, al governo dell’ India britannica. Negli anni seguenti quindi, l’ area che oggi viene chiamata Gilgit-Baltistan – quella nella quale si troverebbero, secondo Selig S. Harrison, i soldati cinesi – fu amministrata direttamente dal governo coloniale dell’ India. Era una zona a maggioranza musulmana, e su questo si basa la rivendicazione di sovranità del Pakistan. Però, restò formalmente sotto la sovranità dei maharaja Dogra, un caso simile a quello di Hong Kong che alla scadenza del periodo d’ affitto, nel 1997, è stata restituita dalla Gran Bretagna alla Cina. Nel 1947, quando fu il momento della spartizione dell’ Impero britannico tra India e Pakistan, Hari Singh aderì all’ India e questa è la base della rivendicazione di sovranità da parte di New Delhi. Una situazione estremamente spinosa, che ha le sue radici nella posizione di grande rilevanza strategica del Gilgit-Baltistan.

A nordovest confina con l’ Afghanistan e precisamente con il “corridio di Wakhan”, una zona rimasta ai margini della turbolenta storia del Paese degli ultimi decenni e che si ritiene sia di fatto sotto il controllo dell’ esercito pakistano. A nordest con la provincia cinese del Xinjinag, la patria dei musulmani uighuri che rifiutano di essere inglobati nella Cina e continuano a chiamare il loro Paese “Turkestan dell’ est”. A sud e a sudest c’ è il Kashmir sotto controllo indiano. Ad ovest, infine, il Gilgit-Baltistan confina con la Provincia della Frontiera di Nordovest, la zona a popolazione pashtun base dei cosidetti “Taliban pakistani”. Prendendo in extremis la decisione di adherire all’ India, Hari Singh si guardò bene dal consultare i suoi sudditi, in maggioranza musulmani, che con tutta probabilità avrebbero preferito entrare a far parte del Pakistan.

Irregolari sostenuti dal neonato esercito pakistano marciarono su Srinagar. Furono ricacciati indietro ma riuscirono a mantenere il controllo di circa un terzo del territorio: quello che oggi viene chiamato Azad Kashmir (Kashmir libero), con la capitale a Muzzafarabad. L’ “agenzia di Gilgit” fu consegnata al neonato Paese musulmano dalla guarnigione britannica che lo presidiva, comandata dall’ ufficiale filo-pakistano William Brown. Da allora quello che è stato il regno del Jammu e Kashmir è spaccato in due. Il plebiscito con il quale la popolazione avrebbe dovuto decidere a quale delle neonate Nazioni avrebbe aderito, accettato sia dall’ India che dal Pakistan e benedetto dal Consiglio di Sicurezza dell’ ONU con la risoluzione del 21 aprile 1948, non si e’ mai tenuto. Sia India che Pakistan lo rivendicano nella sua interezza. Non ci sono tra le varie fette dell’ ex-regno dei Dogra confini riconosciuti, né dall’ India, né dal Pakistan né – di conseguenza – dalla comunità internazionale. La porzione indiana e quella pakistana sono separate dalla cosidetta “Linea di controllo”, lungo la quale è stato concordato il cessate il fuoco nel 1971. Sui due versanti della “Linea di controllo” l’ esercito pakistano e quello indiano mantegono delle postazioni militari, delle lunghe strisce di bunker corazzati, che spesso si scambiano colpi di cannone. Un gruppo di osservatori dell’ Onu – basato ad Islamabad e a Srinagar – è incaricato di controllare e comunicare al Palazzo di Vetro le violazioni della tregua. Il Gilgit-Baltistan è parte del territorio conteso.

Definirlo “parte settentrionale del Pakistan” è, in termini diplomatici, una bestemmia. La Cina lo ha ammesso implicitamente quando, in seguito alle proteste dell’ India, l’ espressione è scomparsa sia dal sito del ministero degli esteri di Pechino che dal resoconto della conferenza stampa dell’ agenzia ufficiale Xinhua. Quando gli fu chiesto quella definizione indicava il sostegno della Cina alla rivendicazione pakistana, il ministero degli esteri di Pechino rispose, per bocca della portavoce Jiang Yu, che la posizione di Pechino “è chiara”. “Pensiamo – affermò la signora – che il problema del Kashimr sia un’ eredità lasciata dalla storia ad India e Pakistan. Come vicina ed amica di entrambi i Paesi, la Cina pensa che tocchi a loro risolverlo attraverso il dialogo e i negoziati”. Le rivelazioni di Harrison sono venute circa un mese dopo che Pechino aveva negato il visto al generale B.S.Jaswal, capo del Comando Settentrionale dell’ esercito indiano sotto la cui responsabilità cade il Kashmir. Più o meno nello stesso momento, Pechino ha dato il via alla pratica di dare i visti ai cittadini indiani residenti in Kashmir su un foglio separato. Richiesto di chiarimenti, il ministero degli esteri sostenne che “la nostra politica verso gli abitanti indiani del Kashmir sotto il controllo indiano è coerente e rimane immutata”. Da tempo la Cina ha reso chiaro che non riconosce la sovranità dell’ India sulla sua provincia dell’ Arunachal Pradesh. Storicamente e culturalmente l’ Arunachal fa parte del Tibet. Siccome Pechino ritiene che il Tibet le appartenga, di conseguenza pensa che le appartenga anche quel territorio.

Probabilmente si tratta semplicemente di una carta che la Cina si vuole tenere nella manica per giocarla sul tavolo delle trattative sui confini con l’ India, che sono in corso da quasi vent’ anni e non hanno prodotto alcun risultato. Se anche le cose stanno così, questo non toglie che, mettendo il Kashmir sul piatto della bilancia, la Cina ha impresso una decisa accelerazione al processo con il quale sta assumendo il ruolo di protettrice del Pakistan e di antagonista dell’ India per la supremazia in Asia e, in prospettiva, nel mondo. L’ interessamento della Cina per il Kashmir – per la precisione, per i territori che facevano parte del regno del Jammu e Kashmir sotto la dinastia dei Dogra – non è nuovo. Il rapporto speciale del Pakistan con la Cina, sviluppatosi in seguito nell’ attuale alleanza di ferro, e’ nato negli anni sessanta ed e’ in buona parte frutto dell’ iniziativa di Zulfikar Ali Bhutto, allora all’ apice del suo potere (vedi il capitolo….).

Alla fine degli anni cinquanta, a dispetto della retorica terzomondista cara al leader indiano Jawaharlal Nehru (che lancio’ lo slogan ‘hindi-chini bai bai’ , ‘indiani e i cinesi sono fratelli’), il problema delle frontiere tra India e Cina cominciava ad emergere come un grosso ostacolo nelle relazioni tra i due Paesi. L’ India si considera l’ erede dell’ Impero Britannico e ritiene suo diritto ereditarne anche i confini. La Cina ritiene invece di essere la legittima erede dell’ Impero dei Qing, la dinastia spazzata via nel 1911 dalla rivoluzione nazionalista di Sun Yatsen. I confini dei due Imperi, al momento della loro dissoluzione, erano in larga parte indefiniti e non solo nella porzione del Kashmir. La Cina era frazionata in piccole regioni dominate o da potenze straniere o da signori della guerra. Lungo quasi tutti i 4.600 chilometri della frontiera tra i due giganti asiatici, che corre lungo la catena montuosa dell’ Himalaya e ad ovest arriva sui contrafforti del Karakorum, pattuglie dell’ esercito cinese e di quello indiano spesso si incontravano sul territorio conteso, e le scaramucce erano frequenti.

Nel 1962 successe l’ inevitabile: l’ ennesima sparatoria sfociò in una guerra di frontiera, che si concluse dopo tre settimane con l’ avanzata dell’ Esercito di Liberazione Popolare in varie porzioni del territorio indiano, una delle quali si trova sul massiccio dell’ Aksai Chin, all’ estremita’ occidentale dell’ altipiano del Tibet. Come la regione del Gilgit-Baltistan, l’ Aksai Chin faceva parte dell’ area del Ladakh, che a sua volta era parte del regno del Jammu e Kashmir. La Cina si ritirò dalle altre aree che aveva occupato ma lasciò i suoi militari a presidiare l’ Aksai Chin. Bhutto capì al volo che per il Pakistan si trattava di un’ occasione da non perdere. Volò a Pechino e mise in piedi un’ “amichevole” trattativa per la definizione delle frontiere tra i due paesi. Infliggendo all’ India, già umiliata nella guerra di frontiera, un duro colpo psicologico, Cina e Pakistan raggiunsero un accordo dopo pochi mesi, nel marzo del 1963: la Cina cedeva una porzione di territorio sul Karakorum in cambio di una fetta di oltre cinquemila chilometri quadrati del Kashmir settentrionale adiacente all’Aksai Chin, sul quale già controllava un territorio di 38mila chilometri quadrati. All’ Onu, Ali Bhutto ebbe facile gioco a difendersi dai furiosi attacchi degli indiani. “Il Pakistan non ha ceduto niente”, disse riferendosi al “diritto” della Cina ad inglobare il Tibet e con esso l’ Aksai Chin, che nel corso dei secoli era stato per alcuni periodi annesso dalle dinastie tibetane. Al contrario, aggiunse, “ha guadagnato 750 miglia…che in precedenza erano sotto il controllo cinese” (nella valle di Hunza sul Karakorum).

L’ allora ministro degli esteri pakistano defini’ “oltraggiose” le accuse indiane e dichiarò che “al contrario, accettando di delimitare e marcare i suoi confini con la Cina, il Pakistan ha rafforzato le prospettive di pace per la regione”. Le relazioni tra Cina e Pakistan, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, hanno avuto nel corso dei decenni uno sviluppo costante, seguendo una chiara linea che unisce tutti i governanti che si sono succeduti al potere ad Islamabad, dall’ autocrate Yahya Khan al socialista Zlufikar Bhutto, dal fanatico musulmano Zia ul-Haq al laico Asif Ali Zardari. Nel 1998, quando il Pakistan effettuò una serie di test atomici suscitando l’ ira di Washington e distaccandosi dalla comunità internazionale, solo Pechino si mostrò comprensiva. “L’ amicizia tra Pakistan e Cina – commentò l’ allora primo ministro Nawaz Sharif – si e’ dimostrata piu’ forte e piu’ significativa di qualsiasi prova e problema. Noi siamo orgogliosi del nostro grande vicino’’.

Anche nel delicato settore nucleare la stretta collaborazione tra i due Paesi iniziò quando il presidente del Pakistan era il generale Yahya Khan e Bhutto era il suo ministro degli esteri e continua a svilupparsi ai giorni nostri. I rapporti Cina e Pakistan nel campo della tecnologia nucleare sono descritti in dettaglio nel capitolo “La Bomba”. Qui basti ricordare che l’ aiuto cinese fu fondamentale nei primi anni del programma nucleare del Pakistan, quando Pechino fornì all’ alleato, secondo i servizi d’ informazione occidentali, disegni delle armi e uranio arricchito. Senza la cooperazione attiva della Cina, il Pakistan non sarebbe mai diventato una potenza nucleare. Le “preoccupazioni” dell’ Occidente si sono risvegliate nel giugno del 2010 quando due grandi imprese cinesi specializzate in progetti nucleari all’estero, la China Nuclear Industry Fifth Construction Company e la CNNC China Zhongyuan Engineering Corporation, hanno annunciato a Shanghai di essersi accordate col governo di Islamabad per costruire due impianti nucleari a Chasma, nel Punjab pakistano. I due nuovi impianti si aggiungeranno ai due già esistenti, costruiti anch’essi con la collaborazione cinese.

Nel novembre dello stesso anno, visitando la Cina per la sesta volta da quando ha assunto la carica, il presidente Zardari ha aggiunto che è in discussione la costruzione di un altro reattore, il quinto. Pakistan e Cina hanno sottolineato che si tratta semplicemente della prosecuzione di una antica collaborazione per lo sviluppo l’ energia nucleare pacifica. I nuovi impegni cinesi possono essere letti come una risposta all’ accordo raggiunto nel 2008 tra il governo di New Delhi e quello di Washington, che consente agli operatori statunitensi di fornire all’ India la tecnologia per lo sviluppo dell’ energia nucleare, sempre “a scopi pacifici”, chiaro.

La Cina e gli USA, le superpotenze che hanno cominciato a incrociare le spade – diplomaticamente – nel Pacifico nel 2010, sono sostenitrici a spada tratta della non proliferazione, come i loro diplomatici non perdono occasione di affermare. Al contrario, in una straordinaria coincidenza di opinioni e di comportamenti tra i due acerrimi nemici, né India né Pakistan hanno firmato il Trattato di Non Proliferazione Nucleare, che entrambi ritengono “discriminatorio”. Islamabad e Pechino si considerano partner preferenziali nel settore della difesa. Tra l’altro stanno costruendo insieme un jet da combattimento chiamato JF-17 che sarà equipaggiato con un sistema di radar (Airborne Early Warning & Control) di fabbricazione cinese e di missili SD-10, anch’essi prodotti in Cina. Col crescere della collaborazione in tutti i campi tra i due Paesi, la presenza di cittadini cinesi in Pakistan si è moltiplicata. Secondo l’esperto pakistano Tarique Niazi, nel 2007 in Pakistan lavoravano circa 8.500 cinesi“almeno il triplo degli americani presenti nel paese”. “Di questi – ha scritto Niazi sulla rivista “Foreign Affairs” – 3.500 sono ingegneri e tecnici addetti a una varietà di progetti sino-pakistani. Gli altri 5.000 lavorano nel settore privato.

Gli investimenti della Cina in Pakistan sono schizzati alla cifra di quattro miliardi di dollari. Sono cinesi il 12 per cento (60 su 500) del totale delle imprese straniere che operano in Pakistan. La presenza cinese in Pakistan è cresciuta drammaticamente dall’ invasione americana dell’ Afghanistan, che ha portato Pechino e Islamabad a costruire un porto commerciale a Gwadar, una città sulla costa del Baluchistan. Nel solo porto di Gwadar, la cui costruzione è iniziata nel 2002, lavorano 500 ingegneri e tecnici cinesi’’ (altre fonti parlato di un numero più alto di esperti cinesi, che sarebbero poco meno di duemila). Il tutto senza contare – se le rivelazioni di Harrison corrispondono al vero – le migliaia di soldati impegnati nei “Territori del Nord”. Pechino è cosciente dei rischi che corre in Pakistan e cerca con cura di coprirsi le spalle. Non per niente mantiene aperti i cosidetti “canali di comunicazione” con tutti i gruppi politici pakistani compresa la Jamaat-Islamì, il partito storico degli integralisti musulmani il cui leader Qazi Ahmed Hussein ha visitato più volte la Cina “su invito – come tengono a precisare i cinesi quando ne hanno l’ occasione – del Partito Comunista Cinese”. Questi sforzi hanno avuto finora solo un successo parziali e gli attacchi contro i cinesi già sono aumentati di numero e di frequenza e, come vedremo, vengono da varie parti.

L’ escalation è impressionante, e parla da sola: il 3 maggio del 2004 una bomba esplode nell’ enorme cantiere di Gwadar: tre cinesi rimangono uccisi, nove feriti. L’ attacco terroristico è attribuito a uno dei principali e più feroci gruppi della minoranza etnica dei Baluchi, la Baluchistan Liberation Army (Bla). Nell’ ottobre dello stesso anno, l’ emergente leader integralista Abdullah Mahsud fa rapire due ingegneri cinesi nei pressi di Chagmalai nel Waziristan del Sud, una delle ‘’Federal Administred Tribal Aerea (Fata)’’, alla frontiera con l’ Afghanistan, non lontano da dove si ritiene siano rifugiati i leader dell’ organizzazione terroristica Al Qaeda Osama Bin Laden e Ayaman Al Zawahiri. Abdullah è un giovane leader dei Mahsud, una delle più importanti tribù pashtun, e si è conquistato i galloni sul campo, combattendo in Afghanistan con i Taliban (dove ha perso una gamba) e passando due anni nella prigione americana di Guantanamo Bay prima di essere inspiegabilmente liberato.

Uno dei due cinesi, Wang Peng, è ucciso quando i cecchini dell’ esercito pakistano aprono il fuoco sul gruppetto dei rapitori. Anche cinque dei rapitori rimangono sul terreno mentre l’ altro cittadino cinese, Wang Ende, è tratto in salvo dai militari. Raccontando sul giornale The News, ”quello che è veramente successo’’ a Chagmalai Rahimullah Yusufzai, un autorevole giornalista pashtun, ricorda di aver fatto presente a Mahsud che attaccando la Cina colpiva “un buon amico del Pakistan e delle popolazioni tribali’’. “Noi non siamo nemici del popolo cinese, e sono triste perché siamo costretti a rapire gli ingegneri cinesi’’, risponde l’ estremista. “Ma le persone disperate fanno cose disperate e abbiamo pensato che l’ unico modo per costringere il governo pakistano a mettere fine alle sue operazioni militari nel Waziristan del Sud fosse di rapire degli ingegneri che appartengono al migliore amico del Pakistan, la Cina’’. Abdullah Mahsud prosegue per altri tre anni la sua carriera ed è già diventato una leggenda tra le popolazioni tribali quando, nel luglio 2007, è circondato dai soldati pakistani in una casa di Zhob, un piccolo centro del Waziristan.

Mahsud sceglie il “martirio’’ e, prima di essere catturato, si fa saltare in aria con una delle bombe a mano che porta abitualmente appese alla cintura. La lista delle violenze anticinesi prosegue con l’ assalto contro un gruppo di cinesi a Hub, non lontano da Karachi, il 15 febbraio del 2006: mujaheddin armati attaccano, sparando all’ impazzata dalle loro motociclette, un convoglio di auto di tecnici cinesi, uccidendone tre. Poco più di un anno dopo, il 23 giugno del 2007, la storia della guerra lanciata contro i cinesi in Pakistan dagli estremisti musulmani si arricchisce di un nuovo capitolo: sei donne e un uomo che lavorano in un salone di massaggi a Islamabad vengono sequestrati da un gruppo di studenti della madrasa (la scuola coranica) annessa alla Lal Masjid, la Moschea Rossa, che li accusano di praticare in realtà la prostituzione. Questa volta, “il migliore amico’’ del Pakistan perde la pazienza e chiede a Islamabad di “proteggere la vita dei cittadini cinesi’’. Il presidente Pervez Musharraf ottiene che i sette vengano liberati senza condizioni. Gli estremisti restano però asserragliati nella moschea con altri ostaggi , in pieno centro di Islamabad, chiedendo l’ applicazione integrale della “sharia” – la legge islamica – e inizia un confronto che si conclude con un massacro tre settimane dopo (la vicenda della Moschea Rossa è raccontata dettagliatamente nel capitolo…).

Non è finita. L’ 8 luglio tre commercianti cinesi vengono assassinati nei pressi di Peshawar da “uomini armati e mascherati” (una categoria piuttosto numerosa in Pakistan), in una evidente rappresaglia per l’ attacco contro la Moschea Rossa. Pochi giorni dopo, Abdullah Mahsud viene circondato e si suicida. Non sembrano esserci possibilità che gli attacchi contro i cinesi si fermino nel prossimo futuro. Anzi, sia quelli dei secessionisti baluchi che quelli degli estremisti islamici appaiono destinati a continuare. Per i primi Gwadar, un mastodontico progetto da oltre 260 milioni di dollari, forniti per il 70 per cento della Cina, rappresenta un obiettivo relativamente facile, e un simbolo di tutto quello che è andato storto nelle relazioni tra il Baluchistan e il Pakistan, un simbolo di come le sue ricche risorse naturali siano sfruttate dagli stranieri (ieri inglesi, oggi pakistani e cinesi).

Come tutta la zona delle Fata, infatti, il Baluchistan è stato incorporato nel Pakistan arbitrariamente: se India e Pakistan sono i successori dell’ Impero Britannico, affermano i nazionalisti baluchi , perché mai zone che non ne hanno mai fatto parte devono essere attribuite a uno dei due paesi? Per i pakistani (e per i cinesi), invece, Gwadar rappresenta uno sbocco prezioso sulla rotta del petrolio. Inoltre i punjabi che dominano l’ establishment pakistano considerano la costruzione del nuovo porto come un’ opportunità per decongestionare logisticamente Karachi e indebolire politicamente i suoi infidi politici, siano essi di etnia sindhi come i Bhutto o “mohajir” immigrati dall’ India, come i dirigenti del più forte partito locale, il Muttaidha Quami Movement (Mqm). La maggior parte delle riserve di gas naturale del Pakistan si trova nelle tre aree di Khuzdar, Kohlu e Dera Bugti, nel Baluchistan. Inoltre, la posizione strategica della regione al crocevia con paesi caldi come Iran e Afghanistan e la vicinanza al Golfo Arabico la rendono estremamente appettibile per i militari, che vi hanno costruito importanti basi come quella aerea di Pasni, usata dall’ esercito americano per l’ attacco del 2001 ai Taliban. Sempre secondo Tarique Niazi, “i nazionalisti baluchi hanno avuto un grande beneficio dalla situazione post 9/11 in Afghanistan. Dall’ invasione dell’ Afghanistan da parte degli americani il Pakistan ha schierato un terzo delle sue forze sulla frontiera con quel paese”, indebolendo la presenza militare nella regione, che dal 1947 a oggi ha conosciuto solo brevi periodi di pace.

Ancora meno probabile è che rallentino gli attacchi dei terroristi islamici. Robert Gates, segretario alla difesa degli Usa, ha sostenuto nel 2008 che “Al Qaeda sembra aver messo gli occhi sul Pakistan, moltiplicando gli attacchi contro il popolo e il governo pakistani’’. Carlotta Gall del New York Times, citando “analisti e funzionari della sicurezza” ha scritto pochi giorni dopo l’ assassinio di Benazir Bhutto che “il network di Al Qaeda è sempre più composto non da combattenti stranieri ma da militanti pakistani il cui obiettivo è quello di destabilizzare il Paese”. La storia dei rapporti della Cina col Pakistan – non diversamente da quella dei rapporti tra gli Usa e il Pakistan – ha un fondamentale punto di passaggio nella “jihad” dell’ Afghanistan, una grande operazione politico militare internazionale che ha dato un importante contributo al collasso dell’ Urss. Se a livello globale l’ organizzazione delle “brigate internazionali” islamiche che combatterono prima contro i governi afghani alleati di Mosca, poi contro i sovietici stessi, fu affidata nelle sue prime fasi a un terzetto composto dallo Shah di Persia Mohammad Reza Pahalevi, da Re Hassan del Marocco e dal leader egiziano filo-occidentale Anwar El Sadat, per imbarcare la Cina gli Usa si mossero in prima persona. L’ allora leader Deng Xiaoping accettò di contribuire alla grande mobilitazione nel 1980, in un incontro con Harold Brown, segretario alla difesa col presidente Jimmy Carter.

Secondo John H. Cooley, giornalista della rete televisiva ABC e autore di numerosi studi sul mondo islamico, in cambio della partecipazione cinese alla “jihad”, gli Usa fornirono a Pechino “…una vasta gamma di strumenti ‘non letali’ come aerei da trasporto, elicotteri e radar per la difesa aerea’’, che furono schierati sulla frontiera con l’ Urss e su quella col Vietnam, alleato di Mosca. Parte dell’ accordo negoziato da Brown, aggiunge Cooley, era la costruzione di due centri di ascolto degli Usa dotati della tecnologia più avanzata a Qitai e Korla nella provincia cinese del Xinjiang, che confina con l’ Afghanistan e col Pakistan. Negli anni seguenti e fino alla vittoriosa conclusione della “jihad” nel 1989, il Dipartimento Numero Due dell’ Esercito di Liberazione Popolare cinese partecipò attivamente all’ addestramento e all’ armamento dei guerriglieri afghani che combattevano contro i sovietici. Il generale Mohammad Youssaf dell’ Inter Service Intelligence ha raccontato a Cooley che, al contrario di altri fornitori di armi della jihad, i cinesi erano sempre “meticolosi” e puntuali nel loro lavoro. E’ anche per questo, ha aggiunto il generale, che “fino al 1984, la maggior parte degli acquisti di armi e munizioni furono fatti in Cina…”.

Pechino fornì anche un contributo di uomini alla “guerra santa”. Centinaia, forse migliaia di giovani uighuri, una minoranza etnica turcofona e musulmana originaria del Xinjiang, furono addestrati e mandati a combattere in Afghanistan. Oggi il Xingjiang è la regione più chiusa della Cina: ci si può andare ma il controllo è forte, molto più forte che, ad esempio, in Tibet, ed è di fatto impossibile avere rapporti con la popolazione locale. Al contrario che nel resto della Cina, i gruppi dissidenti basati all’ estero non hanno collaboratori locali che, seppur in ritardo e tra mille pericoli, possano far uscire le notizie. La principale dissidente uighura è l’ imprenditrice Rebiya Kadheer, che dopo sette anni di prigione è stata costretta a emigrare negli Usa nel 2005 (in compenso sono stati arrestati e condannati a pesanti pene detentive in processi sommari due dei suoi figli, uno dei quali è gravemente malato e rischia la morte). Rebiya Kadeer, per il prestigio che gode presso la popolazione uighura del Xinjiang viene spesso paragonata al Dalai Lama del Tibet. Al contrario del leader tibetano, che può contare sulla rete dei monasteri per comunicare con la popolazione e per far filtrare le notizie scomode per la Cina, non risulta che Kadeer abbia una struttura di informazione e comunicazione in piedi nel Xinjiang.

I funzionari cinesi parlano poco e malvolentieri della situazione nella regione, limitandosi di quando in quando a denunciare il pericolo del “terrorismo” anche se, a quanto risulta, gli ultimi attentati dei secessionisti risalgono a prima della guerra del 2001 in Afghanistan. Come il Tibet, il Xinjiang è un territorio sul quale le pretese di sovranità della Cina sono storicamente incerte. Snodo fondamentale della Via della Seta, la regione è stata spesso indipendente, o annessa da dinastie diverse da quelle che regnavano sui cinesi “han”. Dal 1862 al 1876, ad esempio, fu governata da Yakoub Khan, un leader tribale che per un breve periodo ebbe il riconoscimento di Gran Bretagna, Russia e Turchia. Negli ultimi anni della guerra civile cinese tra i comunisti di Mao Zedong e i nazionalisti di Chiang Kai-Shek i leader di tre gruppi etnici musulmani – gli uighuri, i kazakhi e i kirghizi – fecero rivivere il sogno di Yakoub Khan, fondando con centro a Kashgar, sull’ estremità orientale del deserto di Taklamakan, la Repubblica del Turkestan Orientale, che ebbe breve vita. Scrive Cooley nel suo libro “Unholy Wars” : “…quello che è avvenuto negli ultimi anni della jihad e dopo la sua conclusione è stata una nuova fiammata dell’ Islam militante, nato dallo spirito nazionalista dei combattenti mandati in Pakistan ad addestrarsi e che sono poi rientrati nel Xinjiang per suscitare malcontento e ribellione in territorio cinese…”. Insomma, come l’ Occidente anche la Cina ha pagato quello che Cooley definisce “un terribile prezzo” per la jihad. Un pugno di militanti uighuri sono stati catturati nel 2001 durante l’ attacco della coalizione occidentale ai Taliban.

Altri sono ancora nel Waziristan. Uno dei loro leader, Hasan Mahsum, è stato ucciso in uno scontro a fuoco da soldati pakistani nell’ ottobre del 2004. Secondo notizie non confermate che sono circolate sulla stampa pakistana e indiana, estremisti uighuri e uzbeki avrebbero presero parte al rapimento dei due ingegneri cinesi. Anzi, lo avrebbero addirittura ideato e “venduto” ai loro compagni pakistani e afghani sospettando i due di essere della spie inviate nella zona per controllare i loro movimenti. Le preoccupazioni cinesi sono aumentate con le violenze etniche che si sono verificate nel 2009 a Urumqi, capitale del Xinjiang, quando giovani uighuri si sono scontrati con la polizia e poi hanno sfogato la loro rabbia sugli immigranti cinesi, che hanno reagito con decisione. Risultato: almeno duecento morti (in maggioranza cinesi), centinaia di arresti (in maggioranza di uighuri) e una raffica di decine di condanne a morte (inflitte esclusivamente a uighuri).

Le solite voci parlano della recente espansione nel Xinjiang di uno dei più settari e più violenti gruppi dell’ Internazionale islamica, l’ Hizbut Tehrir. L’ importanza che la Cina attribuisce alla sua alleanza col Pakistan è riflessa con chiarezza in un articolo del professor Li Xiguang della Tsinghua University di Pechino pubblicato il 12 ottobre del 2010 dal quotidiano cinese Global Times. “Non ci sarebbe assolutamente stabilità in Xinjiang e in Tibet senza la solida fratellanza del Pakistan”, ha scritto Li. Il Pakistan sembra dunque in procinto di assumere per conto della Cina il ruolo che ha svolto per conto degli Usa fino alla fine della jihad antisovietica in Afghanistan e alla successiva nascita dei Taliban. Vale a dire quello di controllare gli estremisti islamici che gli USA hanno usato in funzione antisovietica e che oggi si sono trasformati nei loro peggiori nemici. Senza dimenticare che sono loro, i mujaheddin dell’ Internazionale Verde, che tengono aperto il problema del Kashmir, continuando ad attaccare l’ India con la guerriglia e con i micidiali attentati nelle città come quelli del novembre 2008 a Mumbai. Pechino, in altre parole, sta cavalcando la tigre integralista in un gioco che agli USA è costato il dramma del 9/11.

Come quello americano negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, l’esercito cinese ha contatti stretti e frequenti con quello pakistano. La differenza è che i cinesi hanno molti più uomini sul terreno e conoscono bene il doppio gioco dell’ ISI, ormai diventato di dominio pubblico. Ma è tutt’altro che garantito che questo li metterà al riparo dalle iniziative delle frange estremiste che non sono sotto il controllo dei “minders” pakistani. Oggi le relazioni tra i due paesi si sono ulteriormente approfondite e il processo di passaggio del Pakistan dalla sfera d’ influenza americana a quella cinese è vicino al suo compimento. Per il Islamabad, la sostituzione della Cina agli Usa come protettore del Paese ha molti vantaggi.

Prima di tutto, la rivalità della Cina con l’ India è ben radicata nella storia e nella geopolitica e rimarrà uno dei dati politici di fondo dell’ Asia qualsiasi governo sieda in futuro nei palazzi del potere di Pechino e di New Delhi. Gli americani, invece, sono stati “nemici” dell’ India solo in quanto era alleata dell’ URSS e oggi hanno tutto l’ interesse – maturato pienamente con le presidenze di George W. Bush e di Barack Obama – a uno stretto rapporto di collaborazione, anche militare, con New Delhi. La rivalità con l’ India e la liberazione (cioè, in termini pakistani, l’ annessione) del Kashmir sono il punto centrale intorno al quale ruota tutta la politica estera di Islamabad. In parte a spingere i pakistani – questo vale sicuramente per la maggior parte della popolazione, compresi molti politici e militari – è la sincera volontà di aiutare i “fratelli” kashmiri a liberarsi della spietata repressione con la quale l’ India mantiene il controllo del territorio. Ma il pericolo di un attacco del potente e ostile vicino è anche il collante che tiene insieme popolazioni diverse e spesso rivali come quelle che compongono la popolazione del Pakistan: il Paese è nato per differenziarsi dall’ India e nei decenni seguiti all’ indipendenza la classe dirigente non è riuscita a creare un’ identità nazionale positiva. 
La guerra strisciante ma non troppo per strappare il Kashmir all’ India deve quindi continuare e Pechino appare seriamente intenzionata a sostenere il Pakistan in quest’impresa. Come amico del cuore del Pakistan, rispetto agli Usa, la Cina ha anche il vantaggio di essere governata da una dittatura che non deve rispondere a un Parlamento (l’ Assemblea Nazionale del Popolo prende ordini dall’ Ufficio Politico del Partito Comunista) e a una stampa libera. Nessuna voce si leverà da Pechino per difendere i diritti delle minoranze etniche e religiose e delle donne pakistane. Tanto meno per denunciare la “guerra coperta” contro l’ India. Pechino ha fatto della “non interferenza negli affari interni” degli altri Paesi uno dei principi chiave della sua politica estera. Un lusso che forse, in Pakistan, non potrà permettersi a lungo.