Da un lato la nuova legge antiterrorismo varata da Pechino, dall’altro l’espulsione di una giornalista francese rea di non avere definito "terrorismo" ciò che la Cina si aspetta che venga riconosciuto come tale. Due notizie che dicono molto sullo Stato di diritto secondo caratteristiche cinesi. Con tempistica quasi perfetta rispetto a trend e paranoie globali, la Cina ha varato domenica la sua legge antiterrorismo. Due sono i punti più controversi dalla nuova normativa passata attraverso l’Assemblea Nazionale del Popolo.
Il primo riguarda l’obbligo, per le industrie tecnologiche che operano in Cina, di dare alle autorità accesso ai propri sistemi. Si tratta di aiutare la sicurezza cinese a decrittare le informazioni incorporate nei prodotti high-tech anche se – così pare – si è scampato l’obbligo di mettere a disposizione le cosiddette backdoor: “porte” che permettono di aggirare le procedure di sicurezza di un computer o un sistema informatico. Questa norma ha comunque suscitato parecchie preoccupazioni in Occidente, non tanto per i diritti civili minacciati, quanto per il terrore che i cinesi la usino strumentalmente per trafugare innovazione e prodotti coperti da copyright. Da Pechino, hanno risposto che anche gli altri Paesi applicano simili procedure di controllo – vedi l’utilizzo Usa di multinazionali dell’informaton technology per spiare il mondo intero – e che eventuali intromissioni non violeranno il diritto d’autore. Al momento, bisogna credere a queste assicurazioni sulla parola: “mei banfa”, come si dice a Pechino e dintorni, non c’è niente da fare.
L’altro punto notevole è il via libera dato all’Esercito Popolare di Liberazione per compiere missioni antiterrorismo all’estero. È, questo, un grande cambiamento rispetto alla tradizionale linea politico-diplomatica cinese di non intervento in terra straniera, vedremo se e come sarà attuato. finora la Cina ha compiuto solo pattugliamenti antipirateria nel Golfo Persico, di concorso con altri Paesi, e fornito effettivi ai caschi blu dell’Onu. Molti dubitano sulla sua capacità di intervenire davvero fuori dai confini nazionali.
Le nuove regole antiterrorismo si inseriscono in un contesto di proliferazione legale. Guardando al recente passato, ricordiamo la legge dello scorso luglio che mette alla voce “sicurezza nazionale” praticamente tutto: dall’esercito alla cultura, poi internet, finanza, ambiente. Ha in qualche modo anticipato la normativa odierna stabilendo che tutti i sistemi infrastrutturali e informatici debbano essere “sicuri e controllabili”. Un pacchetto legale compenetra e completa l’altro.
Ricordiamo anche la legge sulle Ong che è in discussione proprio ora e che dovrebbe rendere più difficile la vita alle organizzazione straniere che operano in Cina e a quelle cinesi che sono finanziate dall’estero.
Si può così intravedere la natura profonda del cosiddetto nuovo “Stato di diritto secondo caratteristiche cinesi”: intende offrire, sì, regole certe, messe nere su bianco e non lasciate alla discrezione dei singoli funzionari; ma queste non sono finalizzate a tutelare o reclamare diritti individuali, bensì a conservare il potere dello Stato e del Partito nel nome della cosiddetta “società armoniosa”. È dura lex sed lex.
Con la sua legge antiterrorismo, la Cina cavalca del resto la paura globale innescata dagli attentati di Parigi del 13 novembre.
Le nuove norme prevedono anche limiti al diritto dei media di riferire su eventuali attacchi terroristici. Una disposizione particolare vieta a testate tradizionali e social media di riportare i dettagli di eventi che potrebbero suscitare desiderio di emulazione. È proibito anche mostrare scene “crudeli e disumane”. Il controllo sulla stampa non è che una ratifica dell’esistente, ma adesso viene messo nero su bianco. “È per il bene comune che i media stranieri in Cina, nonché quelli nazionali, devono conformarsi a tali norme e dare il proprio doveroso contributo alla lotta globale contro il terrorismo”, commenta l’Agenzia Nuova Cina.
In questo contesto, diventa esemplare la vicenda della giornalista francese Ursula Gauthier, corrispondente di Nouvel Observateur, che dovrà lasciare Pechino entro il 31 dicembre perché il ministero degli Esteri cinese non le ha rinnovato la tessera da giornalista, necessaria per ottenere il visto. È un’espulsione di fatto, la prima dal caso di Melissa Chan nel 2012. Ma, la grande novità consiste nel fatto che per la prima volta viene invocato il contenuto di un articolo scritto da Gauthier come motivo della sua cacciata.
La “colpa” di Ursula è stata quella di firmare un pezzo, datato 18 novembre, in cui vedeva “secondi fini” nella solidarietà espressa da Pechino alla Francia per gli attentati parigini. Secondo la giornalista, la leadership cinese cerca di infilare il proprio problema Xinjiang – il conflitto a bassa intensità tra han e uiguri della regione autonoma – nel calderone del “terrorismo” internazionale. La mossa ebbe successo già nel 2001, all’indomani dell’attentato alle torri gemelle di New York, quando Pechino ottenne l’inserimento del Movimento Islamico del Turkestan Orientale – un gruppo di cui non si conosce la reale consistenza – nel listone dei gruppi terroristici internazionali stilato da Washington. Gauthier, nel suo articolo, ha sottolineato le differenze tra gli attentati di Parigi e il recente attacco a una miniera in Xinjiang, che ha provocato una cinquantina di morti: “Per quanto possa essere sanguinoso, l’attacco di Baicheng non assomiglia per niente agli attacchi del 13 novembre. È stata una esplosione di rabbia localizzata, di quelle che si verificano sempre più frequentemente in questa provincia distante i cui abitanti, gli uiguri turcofoni e musulmani, subiscono una repressione spietata”.
Senza dilungarci su ciò che la Cina chiama “due pesi e due misure” (l’Occidente giudica terrorismo solo ciò che colpisce se stesso), va detto che buona parte dei corrispondenti stranieri a Pechino ha prima o poi scritto un articolo in cui si sostenevano tesi analoghe a quelle di Gauthier. Ma ciò che tre anni fa ti costava una pioggia di critiche da parte di netizen cinesi inviperiti sui social network, oggi si paga con l’espulsione; che è arrivata, nel caso di Ursula, dopo un attacco ad personam scatenato dal Global Times, giornale fortemente nazionalista.
Che i tempi siano cambiati, lo rivela anche il fatto che le autorità francesi non hanno assolutamente difeso Gauthier. Nel 2009, il giornalista Jean-Yves Huchet fu sul punto di essere espulso in circostanze simili (nel suo caso, si trattava di un documentario scomodo su Piazza Tian’anmen). All’epoca, il ministero degli Esteri francese intervenne, minacciando la cacciata di due giornalisti di Xinhua residenti in Francia, se Huchet fosse stato costretto a lasciare Pechino. Le autorità cinesi finirono per rinnovargli il visto. È come se, nel nome della lotta a un indistinto “terrorismo internazionale”, i due poli di Eurasia si fossero nel frattempo avvicinati. La Cina teorizza esplicitamente il controllo della stampa per ragioni di sicurezza, l’Europa l’asseconda.