Nel corso del Congresso del Pc cinese emerge anche il tema della cultura. Intesa però come soft power. Così mentre si rafforza l’apparato militare sono nate 528 case editrici, 850 studi cinematografici ed è stata compiuta la trasformazione delle compagnie teatrali e dei giornali in attività business oriented.
La notizia di ieri è il presunto scoop del South China Morning Post, secondo cui a fine congresso il presidente Hu Jintao, insieme alle altre cariche, rinuncerebbe anche a quella di capo della commissione militare centrale. Sarebbe un’innovazione non di poco conto: a differenza del suo predecessore Jiang Zemin, che dismessi gli incarichi politici prolungò di due anni il proprio controllo sull’Esercito popolare di liberazione, Hu andrebbe infatti definitivamente in pensione e, così facendo, renderebbe più fluida e meno arbitraria la trasmissione dei poteri tra una generazione di leader e l’altra. Sarebbe il classico punto di non ritorno su piano istituzionale.
La scelta di Hu, riferisce il giornale di Hong Kong, potrebbe essere dovuta sia al temperamento dell’uomo – la sua gestione degli affari di Stato è meno personalistica di quella di Jiang – sia ad autentico amor patrio: il presidente vorrebbe infatti consegnare immediatamente le chiavi dell’esercito al futuro leader Xi Jinping per non depotenziarne il ruolo in una fase di tensioni internazionali con i Paesi limitrofi. Il conflitto a bassa intensità con il Giappone per le isole Diaoyu/Senkaku incombe. Si dice che Xi propenda per una soluzione assolutamente accomodante del problema, ma sul medio-lungo periodo, è il probabile attivismo del neoeletto Barack Obama in estremo Oriente a preoccupare. Una Cina militarmente efficiente, compatta, forte, che non si lasci sorprendere dalle mosse altrui è del resto quanto auspicato dallo stesso Hu nel suo discorso a inizio congresso.
I più disincantati tra gli osservatori sostengono che, avendo già piazzato i propri protetti ai vertici dell’esercito, il presidente in carica non avrebbe inoltre necessità di occupare il ruolo in prima persona.
La notizia giunge curiosamente nello stesso giorno in cui Bloomberg esce con un lungo articolo che sostiene la tesi diametralmente opposta: Hu resterà in carica proprio per garantire il proprio feudo personale e per evitare che la corrente capitanata da Jiang Zemin assuma troppo potere nei futuri assetti. Non resta che aspettare qualche giorno.
Restando nei corridoi del potere, si parla molto della “dama in viola” che, unica rappresentante del suo genere, compare nella prima fila dei dignitari cinesi presenti al congresso. Si chiama Liu Yandong, è la sola donna tra i venticinque rappresentanti del Politburo e, secondo alcune voci, potrebbe addirittura entrare nel comitato permanente dell’ufficio politico: il club di soli uomini, nove o sette si vedrà, che di fatto governa la Cina. Sarebbe la prima volta nella storia.
Sessantasettenne nativa del Jiangsu, Liu sarebbe il perfetto compromesso tra le correnti che si confrontano dietro le quinte: è stata infatti iniziata alla politica da Jiang Zemin ed è considerata vicina alla corrente dei “principini” per interposto marito, Yang Yuanxing, tychoon di un’azienda elettronica; d’altra parte, ha fatto carriera nella Lega dei giovani comunisti, feudo di Hu Jintao, di cui è stata vice. Come Hu, ha studiato all’università Tsinghua e con il beneplacito dell’attuale presidente nel 2007 è entrata nel Politburo. Nell’attuale organigramma si occupa di salute, istruzione, scienza e sport.
Nel giorni scorsi si parlava invece molto di Peng Liyuan, moglie di Xi Jinping e nota cantante “patriottica”, che impazza nei gran gala della televisione di Stato ed è anche maggiore dell’Esercito popolare di liberazione. Ci si chiedeva se una first lady così in vista, in un Paese in cui le mogli dei leader restano nell’ombra, potesse rappresentare un segnale di modernità “all’occidentale”. Oggi gli osservatori riferiscono di una Peng che mantiene un bassissimo profilo durante i fatidici giorni del congresso.
Chi sarà dunque la futura first lady della Repubblica Popolare? La Frau Merkel in viola o la Carla Bruni nazionalpopolare? Forse nessuna delle due, se si considera che “l’altra metà del cielo” (definizione di Mao Zedong) è rappresentata solo al 6 per cento nell’attuale comitato centrale del Partito e che, secondo un sondaggio del 2010, il 62 per cento degli uomini e il 55 per cento delle donne cinesi sostiene che il posto della donna sia la casa: un aumento del 7 per cento tra gli uomini e del 4 per cento tra le donne rispetto al decennio precedente. Due donne con ruoli diversi, due donne da tenere d’occhio per capire che tipo di aperture, anche sul piano culturale, si imporrà dopo il congresso.
Proprio la cultura torna per altro a far parlare di sé con le dichiarazioni che Sun Zhijun, vicecapo del dipartimento di Propaganda del Partito, rilascia al Global Times, spin-off in salsa pop del Quotidiano del Popolo. Da un anno a questa parte, la Cina si è imbarcata nella campagna dello “sviluppo culturale”, un’operazione volta a ricreare una specie di narrazione condivisa all’interno e a promuovere il “prodotto Cina” all’esterno. Da un lato bisogna fare i conti con il vuoto lasciato dalla fine del maoismo e da sessant’anni di rimozione della cultura tradizionale: con il maoismo stesso, nei primi trenta, con il turbocapitalismo, nei successivi. Dall’altro lato bisogna competere con gli Stati Uniti sul piano del soft power, quel fascino sottile che ti permette di far fare al resto del mondo quello che vuoi tu, senza colpo ferire. Percorrendo il modello che l’ha resa forte, la manifattura votata all’export, la Cina ha quindi scelto di investire massicciamente nella cosiddetta “industria culturale”.
Oggi Sun tira le somme del primo anno, in cui gran parte delle attività non-profit sono state trasformate in profit “senza l’appoggio economico del governo”: sono nate 528 case editrici, 850 studi cinematografici ed è stata compiuta la trasformazione di quasi tutte le compagnie teatrali e dei giornali in attività business oriented. Nel processo di razionalizzazione del settore, Sun fa anche riferimento alla cancellazione di “oltre 6.900 soggetti giuridici a scopo di lucro nel settore culturale”. Esuberi culturali.
Ricorda inoltre che la cultura deve svolgere un ruolo “positivo”, e che le imprese e le istituzioni del settore devono “assumere responsabilità sociale, sostenere l’etica migliore e salvaguardare l’unità e l’armonia sociale”. Tutto torna: il controllo si può esercitare anche con semplici strumenti di mercato, non è necessario imporre sempre la censura politica. Ma in questo, la Cina ci assomiglia parecchio.
[Scritto per Linkiesta; fotocredits: cnn.com]