“Contro la dittatura, l’autoritarismo, il nazismo e il populismo. Contro Donald Trump, il maschilismo, la società patriarcale e feudale. Contro le discriminazioni, il Confucianesimo e le religioni. Contro il fascismo, la malvagità e le diseguaglianze. Cerco giustizia e correttezza.” Così si descrive su Twitter Yue Xin, studentessa della Peking University balzata agli onori delle cronache per aver rilanciato il fenomeno di #METOO in Cina, riaprendo un caso di molestie tra le mura universitarie risalente a una ventina di anni fa e culminato nel suicidio della vittima. Un attivismo con sfumature insolitamente “rosse”, costatole minacce e pressioni da parte del personale universitario. “Se abbiamo scelto nella vita una posizione in cui possiamo meglio operare per l’umanità, nessun peso ci può piegare, perché i sacrifici vanno a beneficio di tutti”, scriveva tempo fa sulla bacheca del dormitorio studentesco citando un passo tratto dagli scritti giovanili di Karl Marx, il cui pensiero – filtrato attraverso la rilettura leninista – ha ispirato la nascita del Partito comunista cinese nel 1921.
Si può essere liberale, femminista, individualista, pro-democrazia e al contempo marxista? Sì, secondo Yue, purché si torni al nucleo teorico originario, così distante da quanto insegnato nei testi universitari e professato dalla leadership al potere.
Figlia della classe media pechinese e iscritta in uno degli istituti più criticati dalla Commissione disciplinare del partito per la sua “debolezza ideologica”, apparentemente Yue non ha le credenziali dell’attivista marxista. Eppure da tempo utilizza i social per occuparsi dei diritti dei lavoratori e delle diseguaglianze sociali, attingendo a un repertorio di valori marxisti tra i più anticonfuciani. In un articolo firmato con lo pseudonimo Mutianwuhua, Yue racconta di essersi avvicinata al marxismo dopo aver conosciuto Gu Jiayue, una studentessa di medicina con background familiare analogo, dichiaratamente marxista e particolarmente schierata in difesa del ceto operaio. “All’epoca mi preoccupavo soltanto del controllo sulla libertà d’espressione e pensavo che la Cina dovesse adottare una democrazia costituzionale. Solo conoscendo Jiayue ho capito che ogni problematica andava estesa al concetto di classe”, spiega la leader femminista.
Gu Jiayue è stata arrestata alla fine del gennaio 2018 con l’accusa di “disturbo dell’ordine pubblico” per aver partecipato a gruppi di discussione su temi controversi come la censura, il movimento democratico dell’89 e la repressione dei diritti dei lavoratori, organizzati da alcuni studenti della Guangdong University of Technology di Guangzhou. Oltre a Gu, sono almeno quattro i giovani attivisti finiti in manette e poi rilasciati su cauzione; altri sono ancora ricercati dalla polizia. Sette degli otto si definiscono apertamente maoisti, un termine che tutt’oggi – nonostante i costanti richiami dell’attuale presidente Xi Jinping al Grande Timoniere – risveglia il ricordo di uno dei periodi più turbolenti della storia cinese recente. Tanto che ormai i nostalgici della rivoluzione comunista possono dare libero sfogo ai propri sentimenti politici soltanto a Hong Kong, l’unico spicchio di Cina dove è ancora lecito celebrare l’anniversario della Rivoluzione Culturale.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.