La morte di Kim Jong Nam, fratellastro del dittatore nordcoreano Kim Jong Un, riapre la discussione sulla stabilità del regime di Pyongyang. E nell’ipotesi più sensibile tocca i rapporti con la Cina. Da ormai cinque anni sulla testa di Kim Jong Nam pendeva una condanna a morte. Quando ancora si tenta di capire perché e chi abbia ucciso a Kuala Lumpur il fratellastro maggiore del leader nordcoreano Kim Jong Un, i servizi sudcoreani hanno fatto trapelare la notizia di un ordine partito direttamente dal giovane dittatore. Il primogenito di Kim Jong Il, fino al 2001 indicato come il possibile successore del Caro Leader alla guida del regime, «doveva morire» su indicazione del fratello minore. Così ha ordinato il vertice di Pyongyang, la cui intelligence si stava preparando da tempo per portare a termine l’operazione.
Questa almeno è la versione del capo del Nis (l’agenzia di intelligence della Corea del Sud), secondo quanto riferito dal deputato del Partito democratico, Kim Byung-kee, componente del comitato parlamentare sui servizi segreti. Le dichiarazioni rientrano in uno schema collaudato nelle relazioni tra le due Coree. Tali informazioni sono però viziate dal perdurare dello Stato di guerra tra i due governi, che di fatto rende ogni notizia un’arma di propaganda. Secondo quanto si è appreso finora, Kim Jong Nam è stato avvelenato mentre si preparava a imbarcarsi per Macao, dove si trova la sua famiglia, in partenza dalla capitale malaysiana. La polizia ha fermato una donna con passaporto vietnamita (un seconda donna con passaporto indonesiano oggi) mentre ieri si era detto parlato anche del ritrovamento dei cadaveri delle due presunte attentatrici.
La successione alla guida del regime gli sfuggì di mano quando fu intercettato con un passaporto dominicano all’aeroporto di Tokyo, dove si trovava con il proposito di portare la famiglia a Disneyland. Da allora ha vissuto tra Pechino, Macao e il sud-est asiatico, senza mai rivendicare il trono, ma contestando il passaggio dinastico alla terza generazione. Era il 2010 e le critiche furono formulate in un’intervista alla tv giapponese Asahi. Più di recente ha moderato in toni, si dice anche per non esporsi troppo verso il fratello minore. Sempre secondo riferito dall’intelligence sudcoreana, nel 2012, avrebbe scritto a Kim Jong Un implorandolo di risparmiare la vita sua e dei suoi familiari. Inoltre, nel 2013, a stretto giro dall’epurazione e dall’esecuzione di Jang Song Thaek, zio dei due Kim e uomo di raccordo del regime con la Cina, con il quale il più grande dei due fratelli era in contatto, il figlio Kim Han Sol fu messo sotto tutela della polizia in Francia, dove studiava all’Istituto di studi politici di Parigi.
Quanto accaduto a Kuala Lumpur va inserito in un quadro più ampio. Il mese scorso si è saputo della destituzione del generale Kim Won Hong da ministro per la Pubblica sicurezza e del suo declassamento. Non si tratta di un’epurazione come altre in passato. Quanto accaduto ha però portato gli esperti di Corea del Nord a dare diverse interpretazioni, ricorda Michael Madden sul blog 38North della John Hopkins University. La caduta del generale è stata letta come un segnale di debolezza di Kim Jong Un, che non si fiderebbe più neppure dei suoi alleati, segno quindi della possibile instabilità del regime. Di contro, una seconda interpretazione ritiene che il giovane dittatore sia riuscito a cementare il proprio potere in modo tale da non ritenere più indispensabili neppure i collaboratori più fidati e lasciando intendere alla sua cerchia che chiunque potrebbe essere sostituto.
Negli stessi giorni l’ex vice ambasciatore nordcoreano a Londra, Thae Yong Ho, riparato a Seul la scorsa estate, ha rilasciato una serie di interviste a giornali e televisioni di mezzo mondo, raccontando della crescente insofferenza delle élite del regime, principale bersaglio delle sanzioni internazionali, verso il nuovo corso intrapreso dalla dinastia Kim.
Ma è il quotidiano Hankyoreh a tirare in ballo quella che potrebbe essere lo scenario più «sensibile», ipotizzando che l’omicidio sia legato al deteriorarsi dei rapporti politici con la Cina. Non è un mistero che tra il presidente cinese Xi Jinping e Kim Jong Un ci sia diffidenza. In cinque anni al potere il giovane dittatore non è mai stato in visita a Pechino.
La Cina è di fatto il Paese più vicino al regime, ma sempre meno propenso a difenderne le provocazioni, come ricordano i voti favorevoli alle sanzioni in Consiglio di Sicurezza alla Nazioni Unite. Negli anni dell’esilio Kim Jong Nam è stato sotto tutela cinese. «La sua sicurezza preoccupa il Paese che lo ospita», ha spiegato lo studioso Lü Chao dell’Accademia sociale per le scienze sociali del Liaoning al quotidiano Global Times. Secondo quest’ultima ipotesi pertanto il fratellastro maggiore sarebbe stato il candidato ideale di Pechino per sostituire Kim Jong Un al potere, senza necessariamente far collassare il regime, ma affidandone la guida a una figura più propensa alle aperture.
[Scritto per il Fatto quotidiano online]