Nel 2017 Le Figaro, complice l’uscita di un nuovo libro sul caso, si chiedeva: «È morto annegato o asfissiato nella sua cabina? Il fuoco sul piroscafo Georges-Philippar è accidentale o criminale?». Protagonista della domanda è Albert Londres, celebre giornalista francese, scomparso in quell’incidente mentre tornava in Francia dalla Cina, dove, aveva comunicato al suo giornale, era entrato in possesso di materiale scottante.
È il 1932. Le Figaro lascia intuire, come del resto fanno almeno tre libri sul mistero della morte del reporter, che possa essersi trattato di un evento non casuale: «Dopo aver coperto gli scontri sino-giapponesi a Shanghai da gennaio a marzo, è scomparso: stava indagando sui piani di espansione giapponesi o sui loro collegamenti con le triadi cinesi e il traffico di oppio? Non lo sapremo mai: la sua storia scompare con lui» (Le Figaro, «Albert Londres: la mort suspecte du grand reporter en 1932», 16 maggio 2017).
DIECI ANNI PRIMA Londres si era recato in una Cina in preda al disordine, al centro di guerra civile estenuante, iniziata dopo la caduta dell’Impero e la breve vita repubblicana. Sul lavoro di Londres nel 1922 esce giovedì 19 marzo La Cina nel caos (ObarraO, traduzione di Alessandro Giarda, pp. 166, euro 16). Londres arriva in Cina dal Giappone (anche del viaggio nel Sol Levante esiste un libro pubblicato da ObarraO, In Giappone) e si catapulta immediatamente nell’azione, per diventare il reporter protagonista che si muove a suo agio, baldanzoso, ironico e caricaturale (specie in deliziosi dialoghi o in farfanterie da occidentale alle prese con l’Oriente).
Siamo di fronte al reportage di quello che allora era considerato una leggenda del giornalismo di inchiesta, tra romanzo d’avventura e fumetto («come Corto Maltese e Le avventure di Tintin quest’ultima ideata e disegnata da Hergé, che non ha mai nascosto di essersi ispirato proprio ad Albert Londres nel caratterizzare il giovane reporter belga protagonista delle sue vignette»). Londres deve descrivere per i lettori del quotidiano francese Excelsior un paese allo sbando, nelle mani dei signori della guerra. Deve raccontare e rendere conto di un «lontano» di cui aveva già raccolto impressioni fulminanti in Giappone.
Ma deve misurare questa «lontananza», considerando la situazione che si trova di fronte: un paese malato, asfissiato dagli Occidentali e devastato dallo scontro tra le due «cricche», quella di Zhili (l’odierno Hebei) e quella di Fengtian (l’odierna Lianoning). Uno dei momenti più caotici e terribili nella infinita storia cinese.
IL LIBRO DI LONDRES è fenomenale sotto diversi punti di vista. Partiamo da quello che ha meno a che fare con la Cina e ha più rilevanza di natura stilistica: Londres si può considerare il precursore del genere chiamato «gonzo journalism», nel quale il giornalista diventa protagonista della storia, intervenendo sugli eventi, descritti utilizzando gli espedienti narrativi tipici della fiction e dicendo la sua su quanto accade, proprio in contro tendenza al giornalismo algido e rigido dell’epoca, fondato su una presunta equidistanza di chi osserva (diatriba che vive e resiste anche ai giorni nostri).
L’AMERICANO Howard Thompson è ritenuto il padre del genere (che prende il nome da uno dei suoi nickname) con il noto Paura e delirio a Las Vegas pubblicato nel 1971. Eppure Londres è ben presente nell’immaginario di molti che hanno seguito le orme del fondatore: nel libro Fear and Loathing Worldwide: Gonzo Journalism Beyond Hunter S. Thompson a cura di Robert Alexander, Christine Isage (Bloomsbury Academic, 2018) alcuni autori ammettono di aver letto molto più di Londres che non di Thomposn.
Londres iniziò la sua carriera nel 1906 nel quotidiano Matin. Poi gli toccano i fronti di guerra europei (Serbia, Grecia, Turchia e Albania), infine nel 1920 è uno dei primi a entrare nella Russia bolscevica. Poi gli spetta la Cina. Eccola: «“Re, ministri, ufficiali, gente del popolo, smontate dai vostri cavalli”. A Pechino, nella cinta del Palazzo d’Inverno, di fronte alla montagna del carbone con i cinque picchi e le cinque pagodine, sopra una stele millenaria in cinque lingue – mongolo, mancese, cinese, turco e tibetano –, l’antica Cina, orgogliosamente, apostrofava così il passante».
LONDRES è un giornalista: fa spettacolo e informazione insieme. Per i lettori francesi non basta la sua verve stilistica. E allora ecco uno dei suoi punti di partenza, una introduzione nella quale spiega quanto accade, pur mantenendo salda la sua presenza all’interno della storia: «La Cina ha perso la testa. In compenso ha due cervelli: Pechino a nord, Canton a sud. Nel Sud, un uomo di nome Sun Yat-sen un giorno si è seduto con decisione su una poltrona di legno nero, sopra la quale c’era scritto: “Presidenza della Repubblica”. Era presidente della Repubblica del Sud come io, in questo momento, sono proprietario del Grand Hotel di Pechino perché, lì, occupo la camera 518. Su cinque province, tre non gli obbediscono e a Canton, la sua capitale, un terzo delle truppe sfuggono al suo controllo».
QUESTO INGRESSO ci apre un varco nei pregiudizi occidentali che Londres finisce per fare incarnare al suo «personaggio», salvo essere smentito a ogni dialogo sui suoi preconcetti. Nel libro ci sono alcuni passaggi davvero rilevanti circa la nostra percezione della Cina e quella che i cinesi hanno dell’Occidente e di sé stessi.
Una sera Londres incontra alcuni giornalisti cinesi: durante la cena, invece di chiedere ai cinesi cosa stesse succedendo nel paese, Londres parla tutto il tempo e spiega ai cinesi cosa stesse succedendo in Cina: siamo di fronte a uno degli atteggiamenti paternalistici più classici dell’uomo bianco occidentale.
Il giornalista francese però sa che deve colpire duro e alla fine della cena la risposta di uno dei colleghi cinesi equivale al rovesciamento del tavolo sulla testa di Londres: «Allora» gridai «dove sta l’anarchia che, secondo ogni mente assennata, divora la Cina?» «L’anarchia sta nel cervello degli uomini della tua specie» rispose sempre il più anziano. «Voi, in Europa pensate di detenere la verità. Poiché i vostri paesi hanno un governo, in prima battuta credete che sia il governo a mandare avanti il Paese, e in seconda che ogni altro Paese, per funzionare, debba avere, come il vostro, un governo. Confessi qui il suo errore. Se i bolscevichi, anch’essi in cerca di un nuovo sistema, ci avessero imitato molto tempo fa, con il chiasso che hanno fatto avrebbero conquistato il mondo.
Loro non si sono accontentati di demolire, hanno voluto ricostruire. È stato il loro sbaglio. Noi non abbiamo più nulla: né suffragio universale, né suffragio di classe, né soviet, né governo, né deputati, né commissari e quanto alle casse dello Stato, sono secche come un fico da tre anni. Lo Stato è morto, ma il Paese vive. Mai il Paese è vissuto meglio come da quando non c’è più lo Stato».
SULLA VOLONTÀ a definire anarchia quella fase cinese, incomprensibile per un occidentale, Londres chiede lumi anche a Zhang Zuolin, uno dei contendenti della partita, e lo intervista in uno dei momenti più esilaranti di tutto il volume.
Ma come al solito ci sono anche delle verità. Alla domanda di Londres, «Sa che il resto del mondo considera la Cina in preda all’anarchia», il signore della guerra sussurra «La Cina è la Cina, il resto del mondo è il resto del mondo». «Signor Maresciallo – allora gli chiede Londres – crede che attualmente in Cina vada tutto alla perfezione?» Zhang risponde: «Le fasi della Cina sono cinesi. Noi le tolleriamo perché sappiamo. Il resto del mondo, invece, crede di sapere».
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.