Al soft power cinese piace il cinema

In by Simone

Quello cinese è il mercato cinematografico più rapidamente in ascesa al mondo. Con incassi sempre più elevati, il paese ha attirato anche i colossi Hollywoodiani. Ma non sono tutte rose e fiori. Pechino teme la competizione e i valori occidentali, e Washington il soft power dagli occhi a mandorla. Sono lontani i tempi in cui i nemici di Rambo avevano tutti inevitabilmente gli occhi a mandorla. Ancora più remoto appare l’Angolo Rosso, il film in cui il “buddhista da cocktail party” Richard Gere faceva la parte di un avvocato statunitense lasciato solo di fronte al moloch giudiziario cinese.

Oggi Hollywood ha bisogno di Pechino e sul rapporto tra le due sponde dell’Oceano Pacifico viaggiano le politiche del soft power.

Da una parte, si diceva, c’è Hollywood. L’industria cinematografica statunitense da tempo gira un po’ a vuoto: pseudo-blockbuster che si rivelano flop e un più generale calo del giro d’affari.

Per questo motivo, le major Usa fanno grande affidamento sul mercato cinese, dove un’enorme massa di potenziali spettatori potrebbe riempire i cinema in cui si proiettano i loro film.

Nel 2011, gli introiti al botteghino dei film hollywoodiani sono stati in media di 15 milioni cadauno. Il mercato più rapidamente in ascesa del mondo, quello cinese, dovrebbe far salire l’incasso medio a 50 milioni dollari nella stagione 2012. Lo dice Robert Caino, un consulente indipendente, al Wall Street Journal.

I due più recenti casi di produzioni hollywoodiane ringalluzzite dal mercato cinese sono The Avengers (Marvel) – 84 milioni di dollari ai botteghini cinesi sugli 800 totali – e Men in Black 3 (Sony/Columbia): 22 milioni di dollari nel primo week-end in Cina contro i 54,5 degli Usa.

Dall’altra c’è Pechino. La Cina, dovrebbe essere ormai chiaro a tutti, viaggia a colpi di business. La Dalian Wanda Group Corp. ha di recente acquistato AMC Entertainment Holdings, la seconda catena di cinema negli Stati Uniti e Canada: un’operazione da 2,6 miliardi di dollari.

E mentre nel 2011 gli incassi dei box-office Usa e canadesi scendevano a 10,2 miliardi di dollari (meno 4 per cento rispetto all’anno prima), quelli dei corrispettivi cinesi sono saliti a 13,1 miliardi di yuan (2,08 miliardi dollari): più 29 per cento.

Tutti contenti? Non necessariamente. L’ingresso dei blockbuster hollywoodiani penalizza infatti l’industria culturale cinese. Il caso più eclatante fu quello di Avatar, il cui successo (200 milioni di dollari nel Celesto Impero), polverizzò nel 2010 le chance del polpettone locale, Confucio, promosso con campagne degne di Mao Zedong dall’establishment di Pechino.

Per la prossima estate sono in arrivo Hunger Games ( Lions Gate EnTertainment) e Il cavaliere oscuro: il ritorno (cioè il nuovo Batman, Warner Bros): grattacapi in vista per la cinematografia made in China.

La soluzione parziale è stata trovata facendo uscire i film cinesi in occasione del capodanno lunare, cioè a inizio anno, mentre quelli Usa arrivano d’estate. Una spartizione temporale.

Ma il problema vero, lungi dall’essere commerciale, è soprattutto ideologico, culturale, di immaginario collettivo. Su entrambe le sponde.

Se i valori occidentali penetrano oltre muraglia a cavallo della cellulloide, negli Usa c’è già chi lamenta il fatto che i film hollywoodiani, per sbarcare in Cina, debbano “ripulirsi”.

È scattata una vera e propria gara all’autocensura – denuncia il Los Angeles Times – che non richiede il minimo intervento dei burocrati di Pechino. Non solo: le sceneggiature nascono già con la presenza di “eroi positivi” cinesi al loro interno.

In Battleship (Universal Pictures), sono i cinesi a fornire alle autorità di Washington informazioni preziose sugli alieni che assediano la Terra.

Nel catastrofico 2012 (Columbia Pictures), il capo dello staff della Casa bianca esalta i cinesi in quanto “visionari”, dato che la civiltà umana viene salvata da un’arca costruita proprio dagli scienziati di Pechino.

E per alcuni registi l’inserimento di “elementi cinesi” nei propri film è ormai parte integrante del processo creativo.

La Cina c’è, è nelle nostre teste. Kung fu Panda fa scuola, ma anche in Muppets (Disney), uscito l’anno scorso, Miss Piggy, Gonzo e Jack Black si trasformano in esperti di arti marziali, mentre i loro nomi compaiono in caratteri cinesi sullo schermo. Quanto a James Bond, sarà a Shanghai nel prossimo film di 007, Skyfall (Mgm/Columbia).

Come leggere queste produzioni? È l’America che impone al mondo la sua lettura della Cina o il Dragone che subappalta a Hollywood funzioni da ufficio stampa?

Il soft power rimbalza tra le due sponde del Pacifico. Ma forse, più che in termini di conflitto, l’intera faccenda può essere letta come osmosi.

* Gabriele Battaglia è fondamentalmente interessato a quattro cose: i viaggi, l’Oriente, la Rivoluzione e il Milan. Fare il reporter è il miglior modo per tenere insieme le prime tre, per la quarta si può sempre tornare a Milano ogni due settimane. Lavora nella redazione di Peace Reporter / E-il mensile finché lo sopportano.

[Scritto per E il mensile; Foto Credits: settlingmagazine.net]