Un gruppo di avvocati ha fatto causa contro il governo cinese per non essere riuscito a contenere il problema inquinamento, come promesso. «Negli ultimi anni molto si è detto sui progressi in materia di inquinamento dell’aria ma quasi nulla è stato fatto», scrive in prefazione alla documentazione Cheng Hai, uno dei cinque legali ad aver sfidato i governi locali di Pechino, Tianjin e della provincia dello Hebei per non aver applicato le leggi ambientali. «Il nostro piano è quello di intraprendere un’azione legale, in attesa di un verdetto entro sette giorni. Se non verrà accolta, ci appelleremo alle autorità superiori».
Da oltre sei giorni, una densa coltre di smog appesta un settimo del territorio cinese coinvolgendo circa 500 milioni di persone. Sono 24 le città del Nordest che martedì hanno dichiarato «allarme rosso», stato di allerta che scatta quando l’air quality index (AQI) è superiore a 200 per più di quattro giorni di fila, attorno a 300 per due giorni o maggiore di 500 per almeno 24 ore. I valori riportati nelle aree più colpite sono pari a sei volte i limiti giornalieri raccomandati dalla World Health Organisation. Mercoledì l’AQI di Fengnan, distretto della capitale dell’acciaio Tangshan (provincia dello Habei), segnava ancora 578, mentre la concentrazione di particelle fini dannose per la salute, note come PM2.5, ha raggiunto l’allarmante soglia di 380 microgrammi per metro cubo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il livello raccomandato è di 10 microgrammi.
Mentre le preoccupazioni maggiori sono rivolte alla salute dei cittadini, non mancano disagi di ordine pratico. Martedì oltre 350 voli su Pechino sono stati cancellati per scarsa visibilità, quasi un terzo del totale previsto per l’intera giornata, mentre il numero dei veicoli in circolazione per le strade della capitale è stato dimezzato con l’imposizione delle targhe alterne. Restrizioni che non hanno mancato di causare rallentamenti nei servizi logistici e di spedizione.
Secondo Chai Fahe, ricercatore della Chinese Research Academy of Environmental Sciences, il carbone – molto utilizzato in inverno per riscaldare le abitazioni – è ancora il principale responsabile dell’inquinamento, con le emissioni di Pechino, Tianjin e Hebei circa cinque volte superiori ai valori medi nazionali.
La Cina ha dichiarato guerra all’inquinamento nel 2014 dopo decenni di crescita a tappe forzate. Una delle crisi più acute risale all’inverno tra il 2012 e il 2013, quando la concentrazione di polveri sottili sulla capitale cinese toccò i 993 microgrammi per metro cubo. Allora la macroregione composta da Pechino, Tianjin e Hebei (Jing-Jin-Ji) si era impegnata a ridurre le emissioni di PM2,5 del 25 per cento entro il 2017. Ma, come ammesso dalle autorità stesse, l’inosservanza dei regolamenti da parte degli impianti tossici e il laissez-faire dei funzionari locali hanno vanificato gli sforzi messi in atto dai legislatori. A ciò si aggiungono i numerosi inciampi del governo nella difficoltosa transizione verso un nuovo modello crescita basato su servizi e consumi, anziché sugli investimenti e l’industria labor intensive. La metamorfosi, che avviene in un momento di prolungato rallentamento dell’economia, procede non senza intoppi. Lo dimostra il dietrofront con cui il governo ha rivisto il preannunciato taglio della produzione di carbone, corretto al rialzo lo scorso ottobre in seguito all’aumento vertiginoso dei prezzi. I massicci investimenti iniettati da Pechino nell’energia pulita (103 miliardi di dollari lo scorso anno) non sono bastati ad alleviare la dipendenza cinese dai combustibili fossili.
«Il legame tra smog e industria è chiaro. A partire dal secondo trimestre di quest’anno, quando i prezzi e la produzione dell’acciaio hanno iniziato a crescere, abbiamo assistito a un peggioramento della qualità dell’aria nel nord-est», spiega al Financial Times Lauri Myllyvirta di Greenpeace con base a Pechino. «E’ il risultato degli stimoli governativi vecchio stile che hanno fatto schizzare il settore industriale». Ma c’è anche chi assolve il governo, chiamando in causa fattori meteorologici, come una diminuzione del vento che di solito aiuta a pulire i cieli cinesi.
Due settimane fa il parlamento cinese ha proposto di inserire l’inquinamento nel novero dei «disastri naturali», scatenando le proteste degli ambientalisti preoccupati per il sospetto tentativo di camuffare le responsabilità umane. Far fronte al problema, per Pechino, è anche una questione di stabilità. Lo smog colpisce tutti, indifferentemente dalla provenienza sociale, e negli ultimi anni proteste «verdi» hanno attecchito tra la classe media, che costituisce lo zoccolo duro del consenso su cui il Partito basa la propria legittimità.
Proprio all’inizio di questo mese, nella città sudoccidentale di Chengdu una protesta contro lo smog è stata repressa sul nascere dalla polizia antisommossa, mentre alcuni artisti impegnati in un sit-in sono stati fermati per un interrogatorio.
Ma «è la prima volta che degli avvocati utilizzano una causa amministrativa per protestare contro l’operato del governo per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico», ha dichiarato al Financial Times Wu Qiang, un ex docente di politica presso l’Università Tsinghua di Pechino, «questo segna una nuova tappa nel movimento ambientalista», anche se probabilmente la corte rifiuterà il caso. Dall’inizio della sua campagna «verde», il governo ha fornito ai cittadini una serie di strumenti legali per perseguire gli inquinatori, a partire dall’istituzione di tribunali speciali per l’ambiente.
Il documento, condiviso in prima battuta su Weibo, il twitter cinese, è poi finito nelle maglie della censura, sebbene nella giornata di mercoledì l’espressione «grave inquinamento» si sia affermata nella top 10 degli argomenti più dibattuti sul social con oltre 230 milioni di interazioni – qualcosa di simile era accaduto lo scorso anno in seguito alla diffusione del documentario Under the Dome. A catturare l’attenzione del web sono state sopratutto gli scatti con cui i netizen hanno immortalato l’airpocalypse, come le foto provenienti da Linzhou, nello Henan, dove lunedì 400 studenti delle medie sono stati costretti a sostenere un esame all’aperto in una densa coltre di nebbia mista a smog. Mentre a Xi’an – dove asili, scuole primarie e medie sono state temporaneamente chiuse – le lezioni si sono spostate dalle aule a WeChat e alle app di live streaming, grazie alle quali i docenti sono in grado di assicurare anche a distanza la continuazione dei corsi senza mettere a repentaglio la salute degli alunni.