Africa rossa è la nuova rubrica a cura di Alessandra Colarizi dedicata ai rapporti tra la Cina e il continente. In questo primo numero parleremo, tra le altre cose, di “trappola del debito”, “nuova spartizione africana”, disinformazione sino-russa, e di quanto sta accadendo nelle miniere cinesi tra Ghana e Repubblica democratica del Congo.
In Cina, l’estate del 2022 verrà probabilmente ricordata per le tensioni nello Stretto di Taiwan e la terribile siccità che ha colpito il Sichuan. Lontano dai riflettori, tuttavia, negli ultimi mesi la diplomazia mandarina ha lavorato alacremente per disinnescare due altre potenziali crisi. Stiamo parlando della situazione debitoria in Sri Lanka e Zambia, due paesi enormemente dipendenti dai prestiti cinesi. Per coerenza con il nome della rubrica ci concentreremo sul secondo caso. Ma facciamo un passo indietro.
Recentemente, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha presentato un programma di alleggerimento del debito per 17 paesi africani: la Cina cancellerà 23 prestiti senza interessi scaduti alla fine dello scorso anno. L’annuncio è giunto durante un incontro con i ministri degli Esteri africani, una sorta di follow up rispetto agli impegni presi lo scorso novembre in Senegal, in occasione dell’ottava Conference of the Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC). La notizia ha avuto una notevole risonanza mediatica. C’è chi sostiene fin troppa. Un po’ perché non è stato nemmeno reso noto l’importo dell’operazione. Un po’ perché non è la prima volta che Pechino prende una decisione del genere.
Secondo studi della Johns Hopkins University, dal 2000 al 2019, Pechino ha cancellato almeno 3,4 miliardi di dollari di debito africano. In tutti i casi si tratta proprio di prestiti a interessi zero, categoria che costituisce un porzione infinitesimale dei 130 miliardi concessi dalla Cina al continente nello stesso arco di tempo.
Nonostante le perplessità sollevate dagli analisti, i media statali cinesi non hanno mancato di presentare l’iniziativa come la decisione di una “potenza responsabile” (做负责任的大国). Debiti a parte, dall’incontro sono emerse altre dichiarazioni importanti:
- la Cina ha ribadito il proprio endorsement a un ingresso dell’Unione Africana (UA) nel G20.
- ha confermato di voler reindirizzare all’Africa 10 miliardi di dollari dalle proprie riserve in diritti speciali di prelievo (Sdr) attraverso il Fondo monetario internazionale (FMI).
- è giunta inoltre la promessa di ulteriori aperture del mercato cinese alle importazioni africane, soprattutto di prodotti agricoli. Sul versante commerciale verrà data priorità all’ “economia digitale, sanitaria, verde e a basse emissioni di carbonio”.
- per combattere la fame, Pechino fornirà aiuti alimentari a 17 paesi africani, in particolare nel Corno d’Africa, fortemente colpiti dal blocco delle spedizioni russe e ucraine di cereali (ne avevo scritto approfonditamente qui). Chiara risposta alle accuse americane secondo cui la Cina si starebbe corresponsabile della crisi alimentare africana, proteggendo Mosca con la sua “neutralità strategica”.
- Si è parlato anche di sicurezza, per quanto in mancanza di dettagli sappiamo solo che la Cina “accelererà la consegna degli aiuti militari all’UA e ai paesi regionali per aiutare l’Africa a migliorare la capacità di contrastare il terrorismo e mantenere la stabilità”.
L’ intervento di Wang Yi si è concluso con un appello al mantra della politica estera cinese: la non interferenza negli affari interni. Il capo della diplomazia cinese ha ricordato che la Cina si oppone “a chi fomenta il confronto e il conflitto in Africa per guadagni geopolitici”. Secondo il ministro, le capitali africane vogliono “un ambiente di cooperazione favorevole e amichevole, non la mentalità della Guerra Fredda e dei giochi a somma zero … una cooperazione reciprocamente vantaggiosa per il maggiore benessere delle persone”. Il principio della non ingerenza è uno dei comandamenti della diplomazia cinese dall’epoca di Mao. In Africa ha più risonanza che altrove essendo il continente bastione del Movimento dei non allineati.
Paradossalmente, molta meno attenzione è stata data all’accordo raggiunto per la ristrutturazione del debito dello Zambia attraverso il G20 Common Framework (nel 2020, lo Zambia è diventato il primo paese africano a dichiarare default dall’inizio della pandemia). Questa sì, invece, che è una svolta storica. Lo è per diversi motivi: innanzitutto è il primo caso in cui i creditori cinesi si mostrano disposti a cancellare prestiti agevolati o commerciali, non solo a interessi zero. In secondo luogo, hanno accettato di farlo all’interno di un negoziati multilaterale piuttosto che a porte chiuse. Terzo: le contrattazioni con la Cina – che con la Francia presiede il comitato dei creditori – si prevede faciliteranno l’avvio di colloqui con gli obbligazionisti – si stima che dei 17 miliardi di dollari di debito esterno, 6 miliardi siano dovuti alla Cina. A tal proposito andrebbe aperta una parentesi: Zambia’s Chinese debt nearly twice official estimate, study finds.
Punto quattro: un’intesa con il governo di Lusaka fa ben sperare in altre parti dell’Africa. Soprattutto in Etiopia, l’altro paese africano – insieme al Ciad – ad aver fatto ricorso al G20 per ottenere un alleggerimento dei propri debiti. Nel caso dell’Etiopia il primo creditore è proprio la Cina. In entrambi i casi, l’esito dei negoziati con il comitato è funzionale a sbloccare gli aiuti del FMI. La settimana scorsa l’istituto con base a Washington ha assicurato allo Zambia un pacchetto di salvataggio del FMI da 1,3 miliardi di dollari. Contestualmente sono stati annunciati accordi anche con lo Sri Lanka e il Pakistan, entrambi fortemente dipendenti dai prestiti cinesi. E’ interessante notare come gli ultimi sviluppi abbiano già portato a una serie di ripensamenti, tanto dai prestatori quanto dai debitori. Il ministero delle Finanze dello Zambia ha, ad esempio, già ridotto drasticamente i progetti infrastrutturali in cantiere, cancellando 2 miliardi di prestiti ancora da erogare, in gran parte dalle banche cinesi.
Alla luce di tutto ciò fa fatta un’importante considerazione. Secondo Brad Parks, direttore esecutivo di AidData, la Cina comincia a svolgere “un ruolo simile al Fondo monetario internazionale, fornendo finanziamento in situazioni di crisi della bilancia dei pagamenti, piuttosto che finanziamenti agevolati per progetti come fa la Banca Mondiale.” Un altro segno di come, dopo le accuse di “neocolonialismo”, la Belt and Road stia rapidamente cambiando forma.
Le contrattazioni sul debito africano vengono osservate con attenzione anche dentro la Grande Muraglia. La reazione online è stata piuttosto negativa: su Weibo molti hanno constatato come la Cina stia “distribuendo così tanti soldi all’Africa facendo credere ai paesi che siamo ricchi, quando in realtà non lo siamo davvero!”. I media statali, invece, hanno accostato l’accordo con lo Zambia alla possibile interruzione degli aiuti dell’Asian Development Bank alla Cina. Ne ha discusso di recente con il Nikkei Asia Review il presidente dell’istituto, Masatsugu Asakawa. Il nodo da sciogliere è capire se la seconda economia mondiale soddisfa ancora i criteri per restare nel club dei paesi in via di sviluppo.
Sulla cosiddetta “trappola del debito” si è espresso di recente Tang Xiaoyang, uno dei massimi esperti dei rapporti Cina-Sud globale. Tang ha fornito una lunga dissertazione a difesa delle politiche creditizie cinesi, sottolineando come i veri responsabili della crisi africana sono gli obbligazionisti occidentali. Il giornalista cinese Wang Zichen ha riassunto lo studio in inglese.
Grattacapi per le miniere cinesi
Le miniere restano uno dei temi più controversi dell’attivismo cinese in Africa. Ne avevo parlato nell’ebook di China Files dedicato alla transizione energetica. Da un paio di mesi a questa parte, di mining si è tornati a parlare soprattutto in relazione al caso della China Molybdenum (aka CMOC/China Moly), che ha in gestione Tenke Fungurume Mine (TFM), uno dei giacimenti di cobalto più importanti della Repubblica democratica del Congo. L’azienda mineraria statale Gecamines ha accusato CMOC di aver sottostimato le riserve del prezioso metallo e che pertanto deve miliardi di royalties. Il 22 agosto fornendo i dati relativi al secondo trimestre, CMOC ha sottolineato come “secondo le attuali condizioni fiscali, più della metà dei benefici economici generati dall’intero progetto di TFM alla fine rimangono nella Repubblica Democratica del Congo sotto forma di tasse, royalties e dazi doganali; se aggiungiamo i vantaggi economici derivanti dell’acquisto di servizi locali (ad esempio, l’acquisto di elettricità da una compagnia elettrica statale), più di due terzi delle entrate di TFM rimangono nel paese”.
A CMOC tutto sommato è andata bene. C’è chi deve rispondere di accuse ben più gravi. The Age ha pubblicato un’inchiesta agghiacciante sulla storia della statale Shaanxi Mining Company, accusata dall’australiana Cassius Mining Limited. di aver volontariamente sconfinato dall’area in concessione, sottraendo oro dal giacimento vicino – i siti cinese e australiano distano pochi metri uno dall’altro. Secondo l’indagine, la Shaanxi avrebbe fatto esplodere alcuni tunnel appositamente per impedire che l’azienda australiana conducesse accertamenti sulle presunte attività illecite cinesi: “Un’indagine della Commissione mineraria del Ghana sulla morte dei 16 minatori ha rilevato che le esplosioni non sono state riportate nei registri dello Shaanxi; non c’era un caposquadra che sovrintendesse all’operazione; l’addetto alla ventilazione si era dimesso; e non è stata fornita alcuna valutazione del rischio o avvertimenti prima che le esplosioni fossero esplose. Alla società è stata comminata una multa di 70.000 dollari. Almeno altri 45 minatori sono morti in circostanze simili all’interno delle miniere dello Shaanxi dal 2013”. Secondo Cassius, “il governo del Ghana era a conoscenza della violazione di domicilio e del furto [di oro] da parte della Shaanxi ai danni di Cassius ma non ha fatto nulla a riguardo; ha tentato di ridisegnare i confini a favore dell’azienda mineraria cinese e non ha agito in base alle accuse di corruzione presentate agli alti livelli del governo.”
A proposito di violenze nelle miniere, tempo fa avevo scritto di come “secondo un rapporto pubblicato lo scorso anno dal Business and Human Rights Resource Center di Londra, tra il 2013 e il 2020, si sono registrate 181 accuse di violazioni di diritti umani legate agli investimenti cinesi in Africa.”
Mentre per ora la corsa alle materie prime vede il cobalto in testa, la Cina sta cercando di affrancarsi – non senza difficoltà – dal costoso metallo puntando sul litio. In questo caso l’Africa scivola in fondo alla lista della spesa cinese. Lo dimostra l’impennata di investimenti cinesi a partire dal 2018 nel cosiddetto “triangolo del litio”, tra Bolivia, Cile e Argentina.
“La nuova spartizione africana”?
L’Africa è infatti sempre più al centro delle dinamiche globali. Il continente non fa gola solo alla Cina. Nell’ultimo mese il mini tour africano di Antony Blinken, la visita di Emmanuel Macron in Algeria e l’ottava edizione del forum per la cooperazione Giappone-Africa (TICAD), hanno evidenziato ancora una volta come l’avanzata della Cina nella regione abbia velocizzato la cosiddetta “nuova spartizione africana”. Nel bene e nel male, per controbilanciare il protagonismo cinese, il continente sta ricevendo un’attenzione internazionale senza precedenti. Ora non resta che vedere se le capitali africane saranno in grado di capitalizzare questo rinnovato interessamento dell’Occidente.
Gli sviluppi più interessanti arrivano dalla spedizione del segretario di stato americano in Sudafrica, Repubblica democratica del Congo, e Ruanda. Durante il viaggio Blinken ha annunciato una nuova politica statunitense che ambisce a soppiantare “Prosper Africa”, la fallimentare strategia di Donald Trump. Il cambiamento più rilevante sta nel riconoscimento dei paesi africani come player attivi e nella posizione defilata assegnata alla Cina, laddove in passato Washington aveva adottato un approccio paternalistico con l’intento conclamato di strappare l’Africa dalle grinfie di Pechino.
Il motivo, secondo The China-Global South Project, è semplice: l’attenzione degli States è ora tutta focalizzata sulla Russia e gli effetti della guerra ucraina sulla crisi alimentare. Le operazioni dei mercenari russi di Wagner Group preoccupano più delle possibili future basi cinesi lungo le coste africane. Mosca, d’altro canto, ha messo in chiaro di voler partecipare alla partita africana. A giugno con la visita nel continente del ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, e il mese seguente con l’apertura in Sud Africa di un ufficio di Russia Today, l’emittente foraggiata dal Cremlino e bandita dall’Unione europea.
Novità anche sul versante Giappone. Presenziando da remoto a causa del Covid, il premier nipponico Fumio Kishida ha rilanciato il TICAD annunciando finanziamenti per 30 miliardi di dollari nell’arco di tre anni. Prendendo le distanze dal modello cinese, Tokyo promette di investire in uno sviluppo sostenibile, con particolare interesse per il settore sanitario, la sicurezza alimentare e la formazione professionale dei giovani africani.
Secondo Kyodo News, Kishida “ha usato il suo discorso per sottolineare l’importanza di investire nelle persone, una parte fondamentale della sua spinta a creare una nuova forma di capitalismo. Il premier ha ribadito che crescita e distribuzione della ricchezza dovrebbero andare di pari passo.” Qualcuno dissentirà nel leggere il giudizio così formulato. Infatti sostenibilità, formazione professionale e sanità, sono tutti punti su cui anche Pechino insiste da diverso tempo. Ovvero da quando gli effetti collaterali della Belt and Road hanno cominciato a manifestarsi anche attraverso le lamentele dei paesi partner (Bangladesh’s finance minister warns on Belt and Road loans from China). Kishida si è inoltre espresso a favore dell’assegnazione all’UA di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Peter Fabricius del think tank sudafricano Institute for Security Studies spiega le principali differenze tra l’approccio cinese e quello nipponico: nonostante alcune sovrapposizioni, il FOCAC e il TICAD si distinguono per i partner coinvolti e il modo di intendere il concetto di sviluppo economico. Secondo il giudizio del Nikkei Asian Review, Tokyo deve dotarsi di “una strategia a lungo termine per il mercato africano e monitorare i continui cambiamenti nel continente”. Il quotidiano cita tra i settori più promettenti quello dell’IT e delle energie rinnovabili, concludendo che “il Giappone deve continuare ad aiutare le nazioni africane ad affrontare problemi di vecchia data, come la forte dipendenza dal cibo importato e la mancanza di contromisure efficaci contro le malattie infettive.”
Intanto continua il ricambio ai vertici della diplomazia cinese nel continente. Pochi giorni fa Liu Yuxi, capo della delegazione cinese all’UA, è diventato rappresentante speciale per gli Affari africani. Si tratta dell’ultimo rimpasto dopo l’arrivo di nuovi ambasciatori in Ruanda, Malawi, Zambia e Gabon. Un cambio di strategia all’orizzonte? Non sembra. Gli esperti sono abbastanza concordi nel sottolineare come l’arrivo di nuovi volti sia piuttosto da leggere nell’ottica del XX Congresso del Pcc.
La Cina al centro delle elezioni in Kenya e Angola
In Kenya e Angola si sono tenute da poco le presidenziali. In entrambi i paesi la Cina è stata indirettamente protagonista: più o meno tutti i candidati hanno sfoggiato in campagna elettorale toni molto duri nei confronti del gigante asiatico. Secondo dati dell’Economist, l’Angola è il secondo paese più indebitato nei confronti della Cina dopo Gibuti. Tanto che il FMI stima che nei prossimi anni il 70% delle entrate governative dovrà essere utilizzato per ripagare i 73 miliardi di dollari presi in prestito (non solo dalla Cina). La riconferma del People’s Movement for the Liberation of Angola, il partito che guida il paese da 50 anni, assegna automaticamente un altro mandato al presidente Joao Lourenco. Lourenco è noto per aver preso le distanze dal modello “petrolio in cambio di investimenti” che ha caratterizzato le relazioni con la Cina a partire dai primi anni 2000. “Il miglior esempio di una marcata riduzione della presenza cinese in Angola può essere ravvisabile nel numero di cinesi che vivono oggi in Angola, sceso a meno di 20.000 unità dalle oltre 300.000 della fase di ricostruzione seguita alla guerra civile.” Non c’è motivo di pensare che ci saranno grandi cambiamenti in proposito.
Il Kenya, invece, continua ad essere scosso dalle polemiche per le condizioni contrattuali accettate dall’ex presidente Kenyatta al momento dell’accordo per la costruzione della ferrovia Mombasa-Nairobi. Cosa aspettarsi da William Ruto, il nuovo presidente eletto? Se manterrà la parola, verrà fatta chiarezza sui progetti cinesi e l’immigrazione in arrivo dalla Repubblica popolare sarà sottoposta a più controlli.
La Cina punta sul “word power”
Il 26 agosto si è concluso il 5° Forum sulla cooperazione mediatica Cina-Africa. Nel mio libro Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro racconto come la strategia mediatica cinese in Africa abbia attraversato fasi alterne. Lo studio del Global Development Policy Center “Telling Chinese Stories Well: Two New Mechanisms of Chinese Influence on Foreign Media” restituisce la complessità del tema analizzando i casi del Sud Africa e del Kenya per capire se i finanziamenti cinesi sono stati in grado di comprare il silenzio degli organi d’informazione locali. Tra le varie considerazioni occorre tenere presente che “i giornali nei paesi che hanno preso prestiti dalla Cina hanno criticato meno lo stato dei diritti umani [in Cina] e sono stati leggermente meno propensi a farlo negli anni in cui il loro governo nazionale ha ottenuto prestiti. Tuttavia, questa associazione [tra prestiti e mancata condanna dei diritti umani] è molto più debole dell’influenza esercitata dai prestiti infrastrutturale sull’aumento della copertura mediatica dei temi infrastrutturali.”
Joe Webster, che tiene la rubrica China-Russia Relations su The China Project, segnala come i media cinesi stiano rilanciando la disinformazione russa in Africa. Ne avevo scritto anche in proposito della crisi alimentare. Più di recente, il Quotidiano del Popolo ha criticato l’Occidente per aver reintrodotto il carbone nel mix energetico e disatteso gli impegni presi nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Per parte sua gli Stati uniti nella Strategia ufficiale per l’Africa subsahariana, pubblicata all’inizio di agosto, ha affermato che la Cina sta cercando di utilizzare la regione per “promuovere i propri ristretti interessi commerciali e geopolitici, minare la trasparenza e l’apertura e indebolire le relazioni statunitensi con i popoli e i governi africani”.
Avocado come se piovesse
45 tonnellate di avocado importate dal Kenya sono arrivati a Shanghai. Si tratta del primo lotto di importazioni su larga scala di avocado africani. Rafforzare l’export di prodotti agricoli era uno degli obiettivo fissati lo scorso dicembre durante il FOCAC di Dakar. Un recente report del China-Africa Business Council e Development Reimagined mette in evidenza come la nuova politica della “green lanes” venga portata avanti in buona parte dalle province cinese con un approccio “bottom-up”. L provincia dello Hunan
Recentemente Pechino ha annunciato di aver rimosso le tariffe sul 98% dei prodotti esportati da 16 dei paesi più poveri al mondo. 12 sono paesi africani.
Di Alessandra Colarizi
Per chi volesse una panoramica d’insieme, il 2 settembre è uscito in libreria “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.