Il vertice dei Brics, l’assalto all’ambasciata cinese in Sudan, la prima visita in Cina del presidente della Repubblica Democratica del Congo, il calo dell’appeal di Cina e Stati Uniti tra l’opinione pubblica africana. Di questo e molto altro ci siamo occupati nell’ultima puntata di Africa rossa, la rubrica a cura di Alessandra Colarizi.
- Più Africa nei Brics
- Félix Tshisekedi torna a casa a mani semivuote
- Buon Africa Day!
- Il Sudan, non solo una crisi umanitaria
- La debt trap? “Colpa dell’egemonia del dollaro”
- Una pax africana
- La Cina in Nord Africa tra armi e investimenti
- Scambi commerciali e nuovi trend
- La Cina si espande nell’Africa Occidentale
- Peggiora il giudizio su Cina e Usa tra l’opinione pubblica africana
- I limiti africani dell’amicizia senza limiti tra Cina e Russia
- Il “Piano Mattei, un “Piano Marshall” per l’Europa
Egitto, Algeria e Nigeria. Sono alcuni dei venti paesi interessati a entrare nei BRICS, la sigla che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. I ministri degli Esteri delle nazioni coinvolte si sono riuniti la settimana scorsa per discutere un possibile ampliamento della membership. Ma non solo. In apertura, il capo della diplomazia sudafricana Naledi Pandor ha esaltato il ruolo del blocco come megafono delle economie emergenti. Per riassumere il concetto in una frase: “I paesi sviluppati non hanno mai rispettato i loro impegni nei confronti del mondo in via di sviluppo e stanno cercando di scaricare tutte le responsabilità sul Sud globale.”
Intanto – secondo diverse fonti – il gruppo starebbe valutando se spostare la sede del summit di agosto dal Sudafrica alla Cina o al Mozambico: nessuno dei due paesi ha firmato lo Statuto di Roma e pertanto non sarebbe tenuto a far rispettare il mandato di arresto spiccato dalla Corte penale internazionale contro Vladimir Putin. C’è da dire che Pretoria non è nuova alle “trasgressioni”. Già nel 2015 il governo sudafricano si era rifutato di ammanettare l’allora presidente sudanese Omar al-Bashir, incriminato per genocidio.
Ovunque si terrà il prossimo vertice, pare proprio che i BRICS lo utilizzeranno per valutare se introdurre una moneta comune. Pandor ha ammesso che il progetto segnala la volontà degli Stati membri di sganciarsi dal dollaro americano, per difendersi dagli effetti secondari delle sanzioni occidentali contro la Russia. Tuttavia, il diplomatico ha sottolineato la necessità di procedere con cautela: la questione va discussa “adeguatamente”. “Non credo che dovremmo dare per scontato che l’idea funzioni” ha poi aggiunto riferendosi alla crisi economica generalizzata e alla situazione interna di ciascun paese.
Non è solo il progetto valutario a suscitare qualche perplessità. Su Project Syndacate, Ana Palacio, ex ministra degli Esteri della Spagna con un passato da vicepresidente della World Bank, commenta che “l’abilità dei BRICS a realizzare le sue ambizioni rimane tutt’altro che certa. Nessuno dei suoi membri smetterà di mettere al primo posto gli interessi nazionali, anche se questo è esattamente ciò che ha frenato a lungo i BRICS […]” Tanto per fare un esempio pratico, il ministro degli Esteri Qin Gang non ha presenziato al summit probabilmente a causa delle tensioni con l’India. Ma, secondo Palacio, “la rinascita dei BRICS è inquietante, anche perché il gruppo non ha dimostrato una capacità di vera leadership globale. Le lamentele condivise riguardo l’Occidente – legittime o meno – non possono supportare un ordine mondiale basato su regole. È essenziale [riuscire a formulare] una narrativa coerente per la governance globale, sostenuta da valori chiaramente articolati.” Ma Palacio ammette che il revival del gruppo sia una doccia fredda per i paesi occidentali.
Félix Tshisekedi torna a casa a mani semivuote
Nell’ultimo mese sono successe tante cose. Senza dubbio va segnalata la visita del presidente della Repubblica democratica del Congo Félix Tshisekedi a Pechino. Ne avevo anticipato alcuni probabili sviluppi nella newsletter per i sottoscrittori di China Files. A bocce ferme, il giudizio è che poteva andare meglio. Non è un mistero che Tshisekedi fosse andato a Pechino soprattutto per rinegoziare gli accordi minerari stipulati nel 2008 dal predecessore Joseph Kabila. Stando alla dichiarazione congiunta, le due parti hanno concordato di valutare regolarmente la cooperazione mineraria nell’interesse a lungo termine di entrambi i paesi. Un annuncio vago affiancato da una serie di protocolli d’intesa su infrastrutture, economia digitale ecc…nessuno dei quali però legalmente vincolante. Ha catturato maggiore attenzione tra gli analisti la decisione di rafforzare le esercitazioni militari congiunte. Già a marzo erano circolate voci sulla presunta vendita di droni cinesi da attacco al governo congolese, impegnato in un annoso conflitto con i ribelli del gruppo M23, sostenuti dal Ruanda. Dei risvolti politici della visita – che precede di sei mesi le prossime presidenziali – ho parlato su Radio3 Mondo. Per rabbonire l’opposizione, pare che una volta tornata in patria la delegazione di Tshisekedi abbia fatto di tutto per sostanziare la trasferta cinese: secondo il ministro degli Esteri Christophe Lutundula la visita doveva servire a rimodulare la cooperazione con Pechino dalle infrastrutture verso lo sviluppo industriale in un’ottica più win-win. A questo proposito il governo di Kinshasa occhieggia il lancio di “partnership triangolari” con il coinvolgimento di Stati Uniti e Unione Europea.
BUON AFRICA DAY!
Come ogni anno, il 25 maggio la Cina ha festeggiato l’Africa Day. L’evento di punta, tenutosi a Pechino, è stato presieduto da Qin Gang. Il ministro degli Esteri ha esaltato i comuni benefici dei rapporti storici e ha dedicato parte del discorso a respingere le accuse di “neo-colonialismo” e “trappola del debito”. “Guardando indietro agli ultimi 60 anni, sono i 60 anni in cui Cina e Africa condividono bene e male e si aiutano a vicenda”, ha detto Qin. Nel suo discorso figurano la liberazione dal colonialismo, l’esplorazione del percorso della modernizzazione, nonché la battaglia contro l’Ebola e il COVID-19. “Per quanto cambi la situazione internazionale, la Cina è sempre stata al fianco dell’Africa e non è mai stata assente”, ha concluso il diplomatico. Difficile dissentire a tal proposito: da Mao a Xi Jinping- nel bene e nel male – Pechino è sempre rimasto lì.
Su Twitter Moritz Rudolf della Yale Law School ha sintetizzato i cinque punti proposti da Qin per rafforzare la cooperazione Cina-Africa. Al terzo si parla di “promuovere congiuntamente la riforma del sistema di governance globale”. Quello dell’order shaping è un tema ormai ricorrente quando Pechino si interfaccia con le nazioni emergenti. Questo lungo processo di emancipazione del Sud del mondo passa per le Nazioni Unite, dove Cina e i paesi africani reclamano da tempo una maggiore rappresentanza. A questo proposito si è espresso recentemente il capo della diplomazia cinese Wang Yi. Letteralmente: “La riforma del Consiglio di Sicurezza dovrebbe sostenere l’equità e la giustizia, aumentare la rappresentanza e la voce dei paesi in via di sviluppo, consentendo ai paesi più piccoli e medi di avere maggiori opportunità di partecipare al processo decisionale del consiglio”. “In particolare, [dovrebbe] riparare le ingiustizie storiche contro l’Africa”, ha detto Wang.
IL SUDAN, NON SOLO UNA CRISI UMANITARIA
La scorsa puntata ci eravamo lasciati con il generico annuncio dell’evacuazione dei cittadini cinesi dal Sudan. L’operazione è avvenuta con successo: come rimarcato dai media statali è stata la terza volta che la Marina cinese ha inviato navi per svolgere operazioni di evacuazione all’estero, dopo gli episodi della Libia nel 2011 e dello Yemen nel 2015. Pechino ha tratto in salvo più di 1300 connazionali oltre ai cittadini di alcuni paesi “amici”, come il Pakistan. Nel frattempo, mercoledì l’ambasciata cinese a Karthoum è stata presa d’assalto: secondo il Ministero degli Esteri, “la milizia ribelle ha rubato alcune auto diplomatiche dalla sede dell’ambasciata cinese, manomettendo documenti e vandalizzando mobili. Ha anche torturato alcuni lavoratori locali”.
A più di un mese la risoluzione della crisi sembra ancora lontana, ma il governo cinese invita la comunità internazionale a pazientare. Dovremmo “trarre insegnamento dalla situazione in Sudan, mantenere un adeguato livello di pazienza con la transizione politica in certi Paesi, incrementare il sostegno e salvaguardare la complessiva stabilità regionale”, ha dichiarato il vice rappresentante permanente di Pechino alle Nazioni Unite, Dai Bing, durante una riunione del Consiglio di sicurezza. Il diplomatico si è soffermato soprattutto sulla situazione nella regione del Sahel, che “deve affrontare molteplici sfide, tra cui il terrorismo, la crisi umanitaria, la riduzione della povertà, lo sviluppo e il cambiamento climatico”. “La comunità internazionale – ha dunque aggiunto – dovrebbe rispettare la sovranità degli Stati regionali ed offrire un costruttivo sostegno per approfondire la cooperazione locale”.
Ma il conflitto in Sudan non è solo una tragedia umanitaria. Rischia di diventare anche una crisi finanziaria, avendo già portato all’interruzione del programma di riforme economiche sostenuto dal FMI. Per la Cina non si mette bene. Secondo documenti della banca centrale sudanese, all’inizio del 2022 Khartoum doveva al gigante asiatico 5,12 miliardi di dollari. Ma l’importo potrebbe essere molto più elevato una volta aggiunto il debito non dichiarato.
LA DEBT TRAP? “COLPA DEL DOLLARO”
Per la prima volta, il Ministero degli Esteri cinese ha fatto riferimento all'”egemonia del dollaro” come la ragione principale del peggioramento della situazione del debito in molti paesi africani. Come dichiarato dalla portavoce Mao Ning, “Questo non è altro che un doppio standard. In effetti, i massicci aumenti dei tassi di interesse da parte degli Stati Uniti hanno aumentato il costo del finanziamento e del rimborso del debito che devono affrontare i paesi africani. Questa è la causa principale della questione del debito dei Paesi africani”. Sono affermazioni che mettono in luce come i negoziati in corso con il club di Parigi e il FMI – in Zambia e altrove – rischiano di deragliare a causa delle tensioni tra Pechino e Washington.
La questione dell’indebitamento africano pare angosciare talmente tanto la leadership cinese da averla spinta a spiare i paesi mutuatari. È quanto sostiene un’esclusiva della Reuters, secondo la quale hacker di Pechino si sarebbero introdotti nelle infrastrutture digitali dei ministeri e delle istituzioni statali del Kenya. L’ufficio del presidente William Ruto ha risposto che i tentativi di spionaggio informatico non sono un’esclusiva cinese: il governo di Nairobi è stato preso di mira da “frequenti tentativi di infiltrazione” anche da parte di hacker americani ed europei. Il segretario della Sicurezza interna Raymond Omollo ha persino parlato di “propaganda sponsorizzata”, velata accusa alla lunga mano di Washington. The China Africa Project ci vede un possibile ulteriore allontanamento di Nairobi dagli Stati Uniti. Il tutto proprio mentre il Kenya si appresta a firmare un accordo di libero commercio con la Russia.
Come ogni mese, nuovi studi fanno ulteriore luce sulle condizioni creditizie imposte dalle banche cinesi agli Stati coinvolti nella Belt and Road Initiative:
I prestiti concessi da Pechino ai paesi africani sono significativamente più economici di quelli dei creditori commerciali. Ma sono notevolmente più costosi di quelli erogati dagli istituti multilaterali come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale. Lo rivela lo studio condotto da due ricercatori del Kiel Institue for the World Economy, che hanno realizzato un nuovo database indicizzando più di 7.400 prestiti tra il 2000 e il 2020 per un valore di 790 miliardi di dollari.
Rimanendo sul tema, Associated Press si è occupata degli effetti dell’indebitamento nei confronti della Cina sulla spesa pubblica e i servizi essenziali dei paesi mutuatari. Tra le varie cose interessanti il report ricorda come il credito concesso negli ultimi anni sia passato attraverso accordi di swap, diventando ancora meno tracciabile. Lo stesso risultato è stato ottenuto con la creazione di società di comodo a cui è stato erogato il credito per progetti infrastrutturali. Questo ha consentito ai paesi fortemente indebitati – preoccupati dal giudizio delle agenzie di rating – di evitare di aggiungere i nuovi prestiti ai propri libri contabili per parecchi anni.
Intervistato da NPR, il presidente dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), Jin Liqun, ha recentemente spiegato che la strategia di investimento dell’istituto si concentra sullo sviluppo delle infrastrutture, compresi i progetti di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici. A differenza della Banca Mondiale, “la nostra idea non è quella di affrontare direttamente la riduzione della povertà. Cerchiamo di promuovere lo sviluppo sostenibile attraverso investimenti nelle infrastrutture”. Jin ha aggiunto che a partire da questo luglio, tutti i progetti approvati dall’AIIB dovranno essere in linea con l’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici.
Nonostante la maggiore cautela dimostrata negli ultimi tempi, pare che le banche cinesi siano ancora disposte a puntare una fiche sul continente, anche sui progetti ritenuti troppo controversi dai competitor occidentali. Sarà la China Exim Bank a finanziare l’oleodotto dell’Africa orientale, dopo che la Standard Chartered Bank si è tirata indietro in risposta alle preoccupazioni avanzate dagli ambientalisti. Il ministro dell’Energia ugandese Ruth Nankabirwa ha confermato che la policy bank cinese, insieme a “diverse altre banche cinesi”, finanzierà un importo imprecisato tra gli 1,8 miliardi di dollari necessari per costruire l’oleodotto che servirà a trasportare petrolio dall’Uganda occidentale alla costa della Tanzania. L’intesa rafforza inoltre la partnership tra le aziende francesi e cinesi, sempre più spesso fianco a fianco nella costruzione di grandi progetti infrastrutturali in Africa, come anche sta avvenendo per il porto di Lekki in Nigeria.
UNA “PAX AFRICANA”
Il 16 aprile, il presidente del Sudafrica Cyril Ramaphosa ha annunciato che Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky hanno accettato di incontrare, a Mosca e Kiev, un gruppo di sei leader africani, per discutere un potenziale piano di pace, i cui dettagli non sono stati divulgati. Ramaphosa si augura che l’atteso viaggio possa avvenire “il prima possibile”. Putin avrebbe proposto che si svolgesse a margine del vertice Russia-Africa, alla fine di luglio, ma i sei presidenti vogliono che si tenga prima, al massimo entro la fine di giugno. Oltre al Sudafrica prenderanno parte alla missione Senegal, Uganda, Egitto, Repubblica del Congo e Zambia, paesi, fa sapere la Fondazione, scelti per rappresentare le diverse posizioni sulla guerra russo-ucraina all’interno del continente. Come ricorda Nigrizia, l’annuncio arriva in un momento in cui il Sudafrica è al centro delle tensioni tra Stati Uniti e Russia. I suoi rapporti con Washington sono particolarmente tesi dopo che l’ambasciatore americano ha accusato Pretoria di aver fornito armi e munizioni a Putin, e con il comandante dell’esercito sudafricano attualmente in visita ufficiale a Mosca per rafforzare la cooperazione militare tra i due paesi.
Ho chiesto un parere ad Andrea Spinelli, cofondatore di Slow News ed esperto di Afriche: “Vedremo, qualsiasi cosa dica Ramaphosa va prima visto accadere (spesso è smentito dal suo stesso ufficio). Negli ultimi anni i diplomatici di molti paesi africani si sono super-specializzati nelle trattative sui conflitti (capirai!), magari può veramente diventare qualcosa di concreto. Prima dobbiamo vedere cosa succede con la riunione dei Brics in Sudafrica però, quello secondo me sarà un momento chiave (la questione dell’arresto di Putin)”. La Cina, che a modo suo sta tentando una mediazione tra Russia e Ucraina, ha apprezzato l’iniziativa africana così come allo stesso modo ha lodato il piano di pace dell’Indonesia.
Nel mio libro “Africa Rossa: il modello cinese e il continente del futuro” racconto come – tra aumento del debito africano e rallentamento economico globale – l’interesse di Pechino per il continente sia sempre più politico. In questo nuovo corso sino-africano rivestono un ruolo crescente i rapporti a livello di élite. La Mwalimu Julius Nyerere Leadership School, con sede in Tanzania, è una delle istituzioni lanciate dalla Cina per coltivare i legami con l’establishment africano. Recentemente Xi Jinping in persona ha intrattenuto uno scambio epistolare come i 120 partecipanti al primo workshop intitolato “Nuovo sviluppo nella nuova era: esplorazione e scambi tra il PCC e gli ex movimenti di liberazione dell’Africa meridionale”. Scopo conclamato dell’iniziativa: imparare dalla Cina come modernizzare il proprio paese. Ma l’economia non è l’unica materia impartita da Pechino all’establishment africano. Secondo uno studio dell’Africa Center, tra il 2018 e il 2021, oltre 2.000 poliziotti e uomini delle forze dell’ordine africani hanno seguito corsi di formazione in Cina. Il Ministero della Pubblica Sicurezza cinese (MPS) è uno dei dipartimenti più attivi nella creazione di legami istituzionali con le autorità del continente. Diverse agenzie di pubblica sicurezza cinesi hanno accordi con 40 paesi africani, compresi 13 trattati di estradizione rispetto agli zero nel 2018. Lo scopo principale di questo tipo di sinergie è tutelare i connazionali (o rimpatriare i fuggiaschi) presenti in Africa. Ma l’aspetto politico è ugualmente rilevante.
LA CINA IN NORD AFRICA TRA ARMI E INVESTIMENTI
L’Egitto si rifornisce principalmente di armi da Russia, Francia e Germania, ma sta cominciando a guardare più seriamente alla Cina. Complice la guerra in Ucraina e il rallentamento della produzione russa di hardware militare. Secondo un rapporto pubblicato Tactical Report, l’Egitto è in trattative con la Cina per acquisire il caccia multiruolo Chengdu J-10C. La notizia riguarda l’Africa ma non solo. Secondo The China Africa Project, l’Egitto diventerebbe il primo paese ad aggiudicarsi gli aerei cinesi dopo il Pakistan. Segno di come l’export militare cinese abbia raggiunto “i più alti livelli del mercato internazionale delle armi, con implicazioni strategiche per i governi di tutto il Sud del mondo”.
Ma l’interesse di Pechino per l’Egitto resta prevalentemente economico. La posizione strategica, all’imboccatura del Mediterraneo e con affaccio sul Medio Oriente, ha reso il paese una meta particolarmente appetibile. Solo negli ultimi mesi le aziende cinesi hanno investito oltre 8 miliardi di dollari nella Zona economica speciale del canale di Suez, realizzata congiuntamente dalle autorità egiziane e cinesi nell’ambito della Belt and Road Initiative. Nel vicino Marocco, invece, la sino-tedesca Gotion High Tech ha deciso di aprire uno stabilimento per la produzione di batterie per veicoli elettrici, puntando sulla presenza consolidata di un’industria automobilistica locale e dell’accesso facilitato ai vari materiali critici. Il progetto dovrebbe creare 25.000 posti di lavoro in dieci anni.
Restando nell’area, il cosiddetto Governo di stabilità nazionale (Gsn) designato dalla Camera dei rappresentanti della Libia, non riconosciuto dalla comunità internazionale, ha firmato a Bengasi un accordo di cooperazione con un consorzio di aziende cinesi e britanniche teso a realizzare progetti di ricostruzione in diverse città del paese. La firma è avvenuta dopo una serie di incontri tra i rappresentanti delle società Bfi Limited Company, Arup Group Limited, e China Railway International Group, e prevede la ricostruzione nelle città e nei villaggi libici, “in particolare nei settori delle strade, dei trasporti, degli ospedali e altri progetti che riguardano la vita dei cittadini libici in tutte le regioni del Paese”.
SCAMBI COMMERCIALI E NUOVI TREND
Le importazioni cinesi dall’Africa sono crollate dell’11,8 per cento su base annua nel primo quadrimestre, una tendenza attribuita dagli analisti all’indebolimento della domanda di minerali e al calo dei prezzi delle materie prime. Il tutto dovuto in parte alla lenta ripresa economica, in parte alla disputa sulle concessioni minerarie nella Repubblica Democratica del Congo. Il valore delle importazioni si è attestato complessivamente a 35,5 miliardi di dollari nel periodo di riferimento. Intanto la rivista finanziaria Caixin, ha notato come nell’ultimo anno siano aumentate notevolmente le esportazioni cinesi verso i paesi in via di sviluppo compresi nella Belt and Road. Nei primi quattro mesi dell’anno, le spedizioni verso l’Africa sono schizzate del 36.9%, il valore più alto dopo quello dell’export verso gli Emirati Arabi. Quel che più rende i numeri interessanti è il fatto che si tratta soprattutto di prodotti intermedi, ovvero semilavorati utilizzati nell’industria manifatturiera e nel settore delle costruzioni. Secondo la rivista, “molti paesi emergenti si trovano oggi in una fase di sviluppo simile a quella della Cina degli anni ’80 e ’90. Nella loro spinta a sviluppare industrie manifatturiere, non sono più interessate all’importazione di prodotti finiti.”
Recentemente il South China Morning Post si è soffermato sull’incredibile protagonismo dello Hunan negli scambi con l’Africa, cresciuti del 90% nei primi quattro mesi dell’anno. Ne ho parlato diverse volte su queste colonne, soprattutto in riferimento alla cooperazione agricola. A quanto pare la provincia della Cina centrale starebbe cercando, da una parte di sfruttare i suoi legami storici con il continente, avendo dato i natali tanto a Mao Zedong (che ha gettato le basi per i rapporti con l’Africa) quanto a Yuan Longping, il padre del riso ibrido, e al capo della Fao Qu Dongyu. Dall’altra, lo Hunan può vantare una sua vasta rete fluviale grazie alla quale riesce – nonostante la collocazione geografica poco favorevole- a direzionare l’export agricolo verso le coste. La provincia cinese “diventa così un modello per le economie africane senza sbocco sul mare”, spiega Lauren Johnston, del South African Institute of International Affairs.
A questo proposito l’accademico keniota David Ndii ha espresso un giudizio molto interessante in un paper dal titolo eloquente: “Africa’s Infrastructure-Led Growth Experiment Is Faltering. It Is Time to Focus on Agriculture.” “Più che il deficit infrastrutturale, il vero ostacolo alla crescita in Africa è la bassa produttività agricola”, scrive Ndii. Anche Pechino sembra pensarla allo stesso modo.
A Yiwu ha aperto il centro di clearing per le transazioni in yuan tra Cina e Africa. Intervistato dal Global Times Liu Hongwu, preside dell’istituto di studi africani presso la Zhejiang Normal University, “ha affermato che la mancanza di dollari è stato il singolo problema più grande che ha impedito il commercio in rapida crescita tra Cina e Africa negli ultimi due anni”.
LA CINA SI ESPANDE NELL’AFRICA OCCIDENTALE
La Cina ha donato una motovedetta alla Sierra Leone per contrastare la pesca illegale e la pirateria al largo dell’Africa occidentale. “E quindi?”, potrebbe chiedere qualcuno. La notizia è più rilevante di quanto sembri. La Repubblica popolare è infatti a sua volta massicciamente coinvolta nella pesca illegale lungo le coste dell’Africa occidentale. Secondo la Environmental Justice Foundation (EJF) con sede nel Regno Unito, almeno il 90% dei pescherecci industriali che operano in Ghana sono di proprietà di società cinesi, in violazione delle leggi ghanesi che imporrebbero che la pesca avvenga solo su imbarcazioni locali. Una parte sostanziale di queste navi – che operano attraverso società di comodo – è impegnata in pratiche illecite e gravi violazioni dei diritti umani.
Più in generale la notizia è degna di attenzione perché conferma il crescente impegno della Cina nell’Africa Occidentale, ben oltre la pesca. Commentando i recenti accordi minerari In Sierra Leone, Guinea e Liberia, Lauren Johnston , ricercatrice presso l’Istituto sudafricano per gli affari internazionali di Johannesburg, ha affermato che la Sierra Leone è storicamente vicina al Regno Unito e ospita il porto naturale più profondo tra il Marocco e Città del Capo, in Sudafrica, mentre la Liberia è uno stretto alleato del Stati Uniti in Africa. “Sarà interessante vedere se questi cambiamenti dinamici faranno sì che tre dei paesi più poveri dell’Africa diventino finalmente un po’ ricchi con la Cina che acquista il loro minerale di ferro”, conclude Johnston.
PEGGIORA IL GIUDIZIO DI CINA E USA TRA L’OPINIONE PUBBLICA AFRICANA
Un nuovo sondaggio dell’Africabarometer misura l’appeal cinese e americano nel continente. Ne esce fuori un pareggio: secondo la ricerca – effettuata tra il 2021 e il 2022 – in 28 paesi africani la metà degli intervistati valuta positivamente l’influenza economica e politica di Cina e Stati Uniti. In Camerun, prevale il sostegno per la Cina, mentre in Ghana l’influenza degli Stati Uniti si fa sentire maggiormente, con un 45% dei rispondenti più favorevole all’America contro il modesto 25% riscosso dalla Cina. Complessivamente il trend è in declino per entrambe le superpotenze: la Repubblica popolare sconta la riduzione degli investimenti infrastrutturali nella regione, gli States gli aut aut ideologici. Soprattutto in questa fase storica in cui la democrazia sta perdendo terreno nei paesi africani.
Negli ultimi anni il soft power cinese ha potuto contare su un’altra leva strategica: sono sempre di più gli africani a studiare in Cina. Anche grazie alle borse di studio foraggiate da Pechino. Ma pure questo settore comincia a fare acqua. Come racconta a Semafor C. Geraud Byamungu del China Global South Project, l’esperienza nel paese asiatico non viene un granché apprezzata in patria. Secondo una sua recente ricerca, oltre il 77% di chi si è laureato nelle università cinesi è dovuto tornare nel proprio paese d’origine appena concluso il percorso di studio a causa delle “rigorose” regole sui visti di lavoro cinesi. E una volta a casa non trovano l’accoglienza sperata. Stando a una ricerca pubblicata su China International Strategy Review nel 2021, gli africani laureati in Cina spesso “non vengono incanalati nei progetti Africa-Cina e non sono nemmeno in grado di competere nel mercato del lavoro”. Nei loro paesi d’origine rimangono disoccupati per lunghi periodi. Per Byamungu “è un’occasione persa per i governi africani” che più volte hanno dimostrato scarsa abilità negoziale nel trattare con i cinesi.
I LIMITI AFRICANI DELLA PARTENRSHIP SENZA LIMITI TRA CINA E RUSSIA
Non c’è forse luogo al mondo dell’Africa – oltre all’Asia centrale – dove sono più evidenti i molti limiti dell’”amicizia senza limiti” tra Pechino e Mosca. Avevo già accennato all’insofferenza di Pechino per le scorribande di Wagner Group nel continente. L’ultimo episodio controverso riguarda una campagna Twitter contro le miniere illegali cinesi divampata recentemente in Nigeria. Mentre il coinvolgimento della Cina nei siti estrattivi illegali è un problema reale, come notato da The China Global South Project, la cosa strana è che la maggior parte dei post con hashtag #STOPCHINESEILLEGALMINING sono partiti da account indiani e russi anziché nigeriani. A mettere in dubbio l’autenticità dell’iniziativa è anche la provenienza delle immagini circolate in rete, molte delle quali piuttosto vecchie.
Che sia opera della propaganda russa? Difficile a dirsi. Certo è che l’influenza del Cremlino in Africa è aumentata dall’inizio della guerra in Ucraina. Lo attesta il numero esponenziale di visite ufficiali verso e da il continente; da ultima quella del presidente dell‘Eritrea, Isaias Afwerki, a Mosca. Secondo Nova, la missione del presidente eritreo, che ricambia la visita effettuata ad Asmara nel gennaio scorso dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, ha l’obiettivo di rilanciare un asse di ferro tra il Cremlino e uno dei suoi più stretti alleati: basti ricordare che l’Eritrea è l’unico Paese africano – insieme al Mali – ad aver votato contro la condanna dell’invasione russa dell’Ucraina da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e contro l’esclusione di Mosca dal Consiglio Onu per i diritti umani. La visita di Afwerki, peraltro, segue di poche settimane quella effettuata a Pechino, l’altro grande “sponsor” di Asmara. A ben vedere, si tratta dunque di una duplice missione che sancisce, una volta di più, la piena appartenenza del Paese del Corno d’Africa – guidato da 30 anni da Afwerki – all’orbita sino-russa.
A dimostrazione di come il continente sia diventato lo scacchiere di un risiko geopolitico, nella giornata di mercoledì il governo ucraino ha annunciato di voler aprire di 10 ambasciate, partendo dal Ruanda e il Mozambico. “Siamo ansiosi di costruire solide partnership basate sul principio delle 3M: rispetto reciproco, interesse reciproco e vantaggio reciproco”, ha spiegato il ministro degli Esteri Dmitro Kuleba. “L’Ucraina non è una vittima e non è un mendicante che viene a chiedere aiuto. Veniamo dagli amici africani offrendo collaborazioni reciprocamente vantaggiose”.
IL “PIANO MATTEI”, UN PIANO PER L’EUROPA
Il Piano Mattei deve essere parte di “un grande piano Marshall” europeo. Lo ha detto il ministro degli Esteri Antonio Tajani alla presentazione dello studio del Parlamento europeo sui costi della non Europa “Il valore aggiunto di agire a livello Ue per far fronte alle grandi sfide globali” organizzato lo scorso maggio a Roma. “L’ho ribadito agli ambasciatori africani in vista del vertice Italia-Africa che si terrà in autunno”, ha detto. “Vogliamo far sì che tutta l’Europa venga coinvolta in un’azione verso l’Africa. Se vogliamo risolvere il problema dell’immigrazione e del terrorismo, dobbiamo investire come tutta Europa. Se lo fanno la Cina e la Russia rischiamo di scontrarci con interessi divergenti e spesso di stampo colonialistico”, ha aggiunto Tajani. Solo pochi giorni fa Giorgia Meloni e il cancelliere Olaf Scholz hanno concordato la costruzione di un gasdotto per l’idrogeno tra Nord Africa ed Europa.
A cura di Alessandra Colarizi
Per chi volesse una panoramica d’insieme, il 2 settembre è uscito in libreria “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.