Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca lascia presagire turbolenze un po’ ovunque, soprattutto in Africa dove gli Stati Uniti hanno solo da poco – con Joe Biden – segnalato di voler tornare “seriamente” a investire da un punto di vista diplomatico ed economico. La Cina, con un vantaggio di decenni sul campo, non mancherà di sfruttare il possibile ripiegamento statunitense. Anche se “l’Africa First” di Xi Jinping è spesso più retorica che sostanza.
Questo e molto altro nella nuova puntata di Africa rossa, la rubrica su Cina e Africa a cura di Alessandra Colarizi:
- L'”Africa First” di Xi
- La Cina torna al vecchio amore: le ferrovie
- Il braccio di ferro sui minerali
- L’Africa al G20
- Progetti piccoli, belli e rischiosi
- Il problema del “Made in Africa”
- Lo strano blitz di Xi in Marocco
- Il colosso dei cellulari Transsion ha dei competitor. Cinesi
- Il bias dell’Africa per l’istruzione cinese
L’ex premier keniota Raila Odinga lo ha detto chiaramente: “Se [Trump] non vuole lavorare con l’Africa, l’Africa ha altri amici”. Turchia, Arabia Saudita, ma soprattutto Russia e Cina, sono pronte a capitalizzare il probabile disimpegno internazionale di The Donald. Si sa, il presidente eletto ha un rapporto complicato con il continente. Nel 2018 definì i paesi africani ”shithole countries”. E le dure politiche migratorie, minacciate nuovamente in campagna elettorale, hanno dato connotazioni istituzionali all’insulto personale.
In Africa, gli Stati Uniti hanno una lunga storia di promesse disattese. Eppure, nei trascorsi quattro anni, con Joe Biden qualcosa si è mosso. Per quanto molto coreografico e poco sostanzioso, l’African Leaders Summit ospitato da Washington nel 2022 (per la prima volta dal 2014) ha segnalato la necessità di costruire un rapporto più strutturato, copiando non troppo velatamente la Cina che da tempo dialoga regolarmente con il continente nella sua coralità. Ora, con Trump, anche il simbolismo e la cosmesi sono a rischio estinzione.
Il problema principale è l’”America First”: ovvero come perseguire la strategia isolazionista proponendo all’Africa un’alternativa più credibile/sostenibile agli investimenti e ai controversi prestiti cinesi. Certo, la realpolitik trumpiana è un potenziale assist alle autocrazie africane. Ma che dire invece del pallino per i diritti umani degli altri nuovi inquilini della Casa Bianca?
Va detto che il primo mandato Trump non è stato una completa tabula rasa. Prendiamo “Prosper Africa”: il piano, ancora in vigore, ha lo scopo di “aumentare sostanzialmente il commercio e gli investimenti bidirezionali” con il continente. Ma quanto conta davvero per rilanciare gli scambi, l’African Growth and Opportunity Act (che offre ai paesi africani un accesso preferenziale al mercato statunitense) dovrà essere rinnovato il prossimo anno. Dopo la minaccia di tariffe per tutti, il sentore è che il programma stavolta potrebbe persino non passare, venire ridimensionato oppure strumentalizzato come leva negoziale per estorcere qualche concessione politica; magari a detrimento dei paesi più vicini alla Cina, primo partner commerciale bilaterale del continente.
Che ossessione questa Cina. Quel poco che Biden ha fatto in Africa doveva servire proprio a colmare il divario trentennale con il gigante asiatico. Invece l’ultima decade ha visto Washington inseguire Pechino con soluzioni di dubbia efficacia, coincise peraltro un arretramento dai settori tradizionalmente di pertinenza americana: persino nelle operazioni multilaterali di peacekeeping, tanto celebrate all’epoca di Obama. Ripiegamento che avviene mentre la Cina comincia a spingersi nel comparto della sicurezza con una pervasività senza precedenti.
Dove invece probabilmente Trump non arretrerà è il comparto dei minerali critici. Se non altro per compiacere Elon Musk. Fattore che però parrebbe limitare l’impegno americano in Africa a quei sei sette paesi (su 55) ricchi di materie prime. In questa direzione si muove il Partenariato per le infrastrutture e gli investimenti globali, concertato da Biden in sede di G7, e che ha nel continente il suo progetto di punta: il Corridoio di Lobito, rete infrastrutturale pensata per collegare le ricche regioni minerarie di Repubblica Democratica del Congo e Zambia al porto angolano di Lobito. Il dipartimento di Stato lo ha definito “un nuovo modello di investimento infrastrutturale volto a stimolare il commercio regionale, attrarre investimenti privati e promuovere lo sviluppo sostenibile in vari settori”. Resta da vedere se reggerà alle prevedibili tensioni con l’Ue, ma innanzitutto se sarà conciliabile con il principio dell’”America First”.
Costoso in termini di tempo e finanziamenti (oltre 500 milioni di dollari), il progetto non sembra esattamente il genere di Trump. Senza contare la perplessità già espressa dagli esperti sulla sensatezza di un piano che prevede la spedizione di minerali grezzi laddove la Cina non solo controlla saldamente la fase di raffinazione. A undici anni dal lancio della Nuova via della seta, ha anche già pronte reti di trasporto concorrenziali. A cominciare dalla TAZARA, la storica ferrovia costruita da Mao tra Tanzania e Zambia, che Pechino si è impegnato a ristrutturare.
Salendo la catena del valore, la corsa è senza rivali. Prima produttrice al mondo di veicoli a nuova energia (NEV) e pannelli solari, la Cina sta trainando la transizione energetica dell’Africa, una delle aree del mondo più colpite dal cambiamento climatico. Solo nel 2023, le esportazioni cinesi di NEV verso il continente sono cresciute del 291% mentre continuano ad aumentare gli investimenti cinesi nella mobilità di massa, negli impianti di assemblaggio, così come nella formazione del personale locale. Il tutto mentre Trump prepara un nuovo ritiro degli States dall’accordo di Parigi. E poi c’è la questione degli aiuti sanitari, che il presidente eletto si prevede riporterà a casa. Nei prossimi tre anni la Cina invece ha promesso di “inviare 2.000 medici ed esperti di salute pubblica, lanciare servizi medici gratuiti in 1.000 villaggi e continuare a fornire assistenza contro le epidemie”.
Come scrive Giovanni Carbone dell’ISPI, “per molti leader africani l’ultimo presidente degli Stati Uniti che ha fatto qualcosa per il continente è stato George W. Bush, il cui programma Pepfar ha salvato milioni di vite con la distribuzione di farmaci a prezzi accessibili per curare l’HIV. E in generale, sono rimasti delusi dal fatto che i legami personali di Barack Obama con l’Africa non si siano tradotti in una maggiore attenzione”. Ma il danno che potrebbe infliggere Trump stavolta è anche reputazionale.
Dopo decenni di finanziamenti a nove zeri, pure in Africa, la Cina è ancora indietro in termini di “soft power”. Diversi sondaggi la danno però in rimonta. Soprattutto tra l’opinione pubblica più giovane disillusa nei confronti della democrazia “a stelle e strisce” esportata a suon di ritorsioni. I prossimi quattro anni targati Trump sono l’occasione per provare il sorpasso.
L’opinione di Alberto Magnani, africanista del Sole24Ore:
“Con il ritorno del secondo, non è chiaro come possa evolversi. Trump aveva già espresso, eufemisticamente, il suo disinteresse per il Continente, in un disimpegno che si sposa con le inclinazioni isolazioniste della sua presidenza. Potrebbe essere costretto a ridiscuterle vista l’ansia di contenere la Cina e la centralità di alcuni mercati africani, testimoniata anche da progetti come il cosiddetto Lobito corridor”.
La dettagliatissima analisi di Luciano Pollichieni per Med-Or:
Al suo rientro alla Casa Bianca, il presidente eletto rimodulerà ma non cancellerà le politiche americane in Africa. Il ruolo di Musk e Starlink per contenere la Cina. Dal Sahel ai Grandi Laghi come potrebbe cambiare la posizione degli USA sotto la guida di Donald Trump.
Va poi tenuta in considerazione una variabile indipendente dalle decisioni della prossima amministrazione: lo stato dell’economia cinese influirà in maniera importante sulla propensione di Pechino non solo a investire in Africa, ma anche a importare dall’Africa.
Al netto di eventuali colpi di testa, anche sotto Trump, la strategia americana per il continente resterà probabilmente in buona parte ancorata al Corridoio di Lobito. Ma guardare il progetto solo attraverso la lente della competizione sino-americana è fuorviante dal momento che la sua realizzazione avrà innanzitutto un impatto sui paesi direttamente coinvolti. Secondo Wamkele Mene, Segretario generale dell’African Continental Free Trade Area, l’iniziativa sarà “assolutamente strategica” per le economie della RDC e dello Zambia perché “permette loro di avere accesso a un porto, un porto gestito in modo efficiente. Offre accesso ai mercati globali e anche ai mercati regionali”. Non solo. Sono sempre di più gli analisti a ritenere che i benefici sarebbero amplificati connettendo il Corridoio americano alla TAZARA cinese.
E’ uno scenario improbabile ma non impossibile. Per il CSIS, a Washington ci sarebbe già la disponibilità “se ci viene data l’opportunità di trovare un modo per creare una certa compatibilità e una connettività ad accesso aperto tra il lavoro che stiamo facendo [e] la [TAZARA] e/o altre linee ferroviarie esistenti, faremo sicuramente tutto il possibile per coglierla”. Oltre agli ovvi ostacoli geopolitici, USIP sottolinea l’esistenza di difficoltà tecniche, come la necessità di armonizzare diversi tipi di scartamenti ferroviari nonché possibili complicanze sulle tariffe del trasporto merci, che sono essenziali ai fini del partenariato pubblico-privato costituito per ristrutturare la TAZARA. Ma il vero nodo, come dicevamo, riguarda la lavorazione dei minerali che nel caso del Corridoio di Lobito, arriveranno sulla costa atlantica. Quindi dalla parte opposta rispetto alle regioni dove al momento sono concentrati i processi di raffinazione: Asia e Medio Oriente.
Il braccio di ferro sui minerali
A questo proposito la rivista finanziaria Caixin ha analizzato molto approfonditamente il protagonismo delle aziende cinese nelle miniere della RDC, di cui controllano oltre il 70% della produzione di rame, colmando il vuoto lasciato dalle aziende occidentali. “Per sviluppare le risorse naturali del paese africano è necessario superare sfide ostinate: corruzione, infrastrutture scadenti e fornitura di energia irregolare”. Non tutti sono disposti a rischiare. “A differenza delle aziende occidentali con soglie di investimento elevate, le aziende cinesi non si preoccupano di progetti piccoli, impegnativi e a basso margine, purché siano redditizi“. Ciononostante, il mercato è in evoluzione e le sfide aumentano. Secondo l’analisi, l’impennata della produzione di cobalto nella RDC e in Indonesia ha creato un eccesso di offerta, spingendo i prezzi del metallo al minimo degli ultimi nove anni e costringendo alcuni produttori a interrompere le operazioni.
Al contempo, conscio del semi-monopolio cinese, il governo di Kinshasa sta deliberatamente cercando di attrarre investitori da altre parti del mondo. Postura espressa chiaramente con la decisione di bloccare la vendita di Chemaf Resources Ltd., società mineraria di rame e cobalto sostenuta da Trafigura Group, a Norin Mining Ltd., che ha legami con il settore della difesa cinese.
La questione tuttavia è più complessa e trascende le dinamiche interne alla RDC. Il South China Morning Post spiega ad esempio come l’Unione europea stia faticando a verticalizzare il controllo sui materiali critici, nonostante un recente accordo stretto con la Namibia. Questo perché la Cina ha giocato di anticipo e, ora che i prezzi sono crollati, la produzione di litio in Namibia “potrebbe non supportare più di una raffineria, almeno nel breve e medio termine”.
L’interesse del gigante asiatico per le miniere africane non è declinato esclusivamente alla transizione energetica. Sono sempre di più le aziende cinesi ad acquisire giacimenti e raffinerie di oro, che per il suo valore stabile serve a diversificare le scorte valutarie in previsione di possibili sanzioni americane. Un reportage di AFP fa luce sulla piaga delle miniere illegali nella provincia del Kivu Sud, nella RDC. Secondo il Bureau of Scientific and Technical Study (BEST), una ONG congolese specializzata nella governance mineraria, circa la metà delle cooperative congolesi nella provincia sono associate ad aziende cinesi.
La Cina torna al vecchio amore: le ferrovie
Con calma e discrezione, Pechino sta piano piano tornando al vecchio amore: i progetti infrastrutturali sospesi o ridimensionati negli ultimi anni a causa dei problemi finanziari. Stando al presidente keniota William Ruto, la Cina starebbe pensando di finanziare l’estensione della ferrovia a scartamento standard (SGR) da Naivasha fino a Malaba, al confine con l’Uganda. Uno degli investimenti discussi durante i colloqui con il presidente cinese Xi Jinping in occasione del Forum Cina-Africa (FOCAC) di settembre. “Una rapida implementazione del progetto creerà posti di lavoro, soprattutto per i nostri giovani e le nostre donne”, ha spiegato Ruto. L’annuncio segue la notizia dell’accordo tra il governo ugandese e l’impresa di costruzioni turca Yapi Merkezi per la realizzazione di una sezione di 272 km della ferrovia che collega la capitale Kampala a Malaba. Il progetto SGR fa parte dell’East African Railway Master Plan, volto a rivitalizzare le infrastrutture ferroviarie che servono Tanzania, Kenya, Uganda con l’obiettivo poi di creare nuove reti di trasporto fino a Ruanda, Burundi, Sud Sudan e RDC. Erano diversi anni che Pechino tentennava. Il coinvolgimento della Turchia sembra aver rassicurato il governo cinese sulla sostenibilità economica del collegamento ferroviario. O forse gli ha messo solo un po’ di strizza.
Altro che Stati Uniti e Unione europea. Ankara si sta affermando come uno dei principali competitor della Cina in Africa. Secondo la Turkish Contractors Association, dall’inizio degli anni ’70, le aziende turche hanno completato quasi 2.000 progetti in Africa per un valore di 91,6 miliardi di dollari. Oltre a coltivare i propri interessi economici nel continente, Ankara ha anche esteso la propria presenza diplomatica quasi quadruplicando il numero delle ambasciate (44) e proponendosi come mediatrice in alcuni dei contenziosi regionali, come il recente braccio di ferro tra Etiopia e Somalia.
L’Africa al G20
Al G20 di Rio Xi ha presentato 8 iniziative per il sud globale. Due menzionano nello specifico l’Africa, che quest’anno ha partecipato per la prima volta a pieno titolo grazie all’inclusione dell’Unione Africana nel gruppo delle 20 economie mondiali. Vale la pena ricordare che fu proprio la Cina, al summit di Hangzhou nel 2016, a sollevare per prima la necessità di invitare l’UA.
- perseguire una cooperazione Belt and Road di alta qualità…
- implementare la Global Development Initiative…
- supportare lo sviluppo in Africa…
- supportare la cooperazione internazionale sulla riduzione della povertà e sulla sicurezza alimentare…
- la Cina, insieme a Brasile, Sudafrica e Unione Africana, sta proponendo un’Iniziativa sulla cooperazione internazionale nella scienza aperta per aiutare il Sud del mondo ad avere un migliore accesso ai progressi globali in scienza, tecnologia e innovazione…
Progetti “piccoli, belli” e rischiosi
“Una persona su quattro nel mondo presto sarà semplicemente africana. Il sessantacinque percento di tutta la terra arabile non ancora coltivata nel mondo non si trova in Asia. Non si trova in America Latina, non si trova in Europa, si trova in Africa. Il futuro del mondo dipenderà da cosa accadrà in Africa. Portare capitali in Africa è molto importante”. A parlare è Akinwumi Adesina, presidente della Banca africana di sviluppo, che in un’intervista al Nikkei non solo ha presentato molti buoni motivi per investire nel continente. Dati alla mano, ha anche smentito alcuni luoghi comuni sulla presunta scarsa sicurezza della regione. Secondo Moody’s, che ha esaminato le perdite cumulative sugli investimenti infrastrutturali negli ultimi 14 anni, quelle in Africa sono state appena dell’1,9%, mentre le perdite in Nord America e America latina sono state rispettivamente del 6,6% e del 10%. Nel continente “abbiamo assistito a un aumento significativo di buona governance, responsabilità e buone politiche” chiarisce Adesina ricordando che oggi l’Africa ospita 10 delle 20 economie in più rapida crescita al mondo.
Per molto tempo l’avventurismo cinese ha permesso alla Repubblica popolare di colmare gli spazi lasciati dai competitor occidentali. Quella fase è in parte superata. Un po’ perché l’economia cinese non permette più certi azzardi. Un po’ perché è cambiata la natura dei progetti. Gli investitori istituzionali – ovvero le aziende o le organizzazioni che investono denaro per conto di altri – sono poco inclini a perseguire quelli che Xi Jinping definisce progetti “piccoli e belli” perché sono anche i più rischiosi. I progetti più piccoli senza un servizio bancario finanziario da parte di un’entità più grande sono generalmente considerati più rischiosi.
A proposito di pericoli legati al credito, Adesina ha sottolineato come in Africa i prestiti agevolati erogati dalle banche di sviluppo siano scesi ad appena il 25% del debito complessivo, in calo rispetto al 52% di un decennio fa. Per alleviare la dipendenza del continente dai finanziamenti cinesi, la Banca africana di sviluppo sta ragionando su “come utilizzare i Diritti Speciali di Prelievo del FMI in modo innovativo”. Quantificare quella dipendenza tuttavia non è cosa semplice. Non solo per quanto riguarda i prestiti.
Stewart Petersen , Senior Research Fellow presso la Hinrich Foundation, ha recentemente analizzato la scivolosa questione degli investimenti diretti esteri cinesi, di cui – secondo stime ufficiali – l’Africa rappresenta circa il 7% per numero di progetti, il 15% per valore investito e il 13% dei posti di lavoro creati dagli IDE greenfield cinesi dal 2003 a oggi. Ma Petersen sostiene siano cifre potenzialmente molto sovrastimate dal momento che nel corso del tempo molti dei principali progetti cinesi sono stati silenziosamente accantonati o ridimensionati. Per l’analista, il divario tra stime governative e realtà, tra retorica e dati effettivi, è deliberato e serve a sostenere l’agenda politica di Pechino.
Ci sono settori più soggetti a ritocchi di altri. Quello delle rinnovabili, topic cavalcato dalla propaganda cinese, rischia di diventarlo facilmente. Per ora il trend positivo trova riscontro nei calcoli della società di consulenza Development Reimagined, secondo la quale dal FOCAC del 2021 sono stati concordati 138 nuovi progetti legati al clima, e il numero è aumentato negli ultimi 18 mesi. Numeri supportati anche dalle stime del Global Development Policy Centre, stando al quale nel 2023 i finanziamenti energetici da parte di China Eximbank e China Development Bank sono cresciuti dopo una pausa durata due anni: prestiti per un valore di 502 milioni di dollari sono stati impegnati in tre progetti “verdi”, tra cui un impianto solare in Burkina Faso e una centrale idroelettrica in Madagascar. Per contenere l’esposizione debitoria, le autorità africane stanno spingendo sempre di più per adottare modelli di finanziamento azionario, incoraggiando le aziende cinesi a investire e acquisire quote in progetti di energia rinnovabile.
Il problema del “Made in Africa”
Ormai da anni, rispondendo alle accuse di neocolonialismo, la Cina ha cominciato a dirottare gli investimenti verso la costruzione di impianti industriali. La questione è però più intricata di quanto non sembri. La maggior parte di quanto prodotto nei nuovi stabilimenti è infatti destinata ai consumatori africani. Questo perché è ancora decisamente più economico produrre per l’export in Cina (o in altri paesi asiatici come il Vietnam), piuttosto che nel continente africano. Secondo Theodore Murphy delll’European Council on Foreign Relations, il motivo è che “le impareggiabili capacità manifatturiere” – nonché i sussidi statali – della Cina annullano il vantaggio della manodopera africana a basso costo. Col risultato che il mercato africano è invaso di tessuti, indumenti e altri prodotti venduti a un prezzo inferiore rispetto a quasi tutta la produzione locale.
Discorso a parte vale per i veicoli elettrici. Assemblare auto in Kenya ad esempio potrebbe ridurre i dazi all’importazione e incrementare le esportazioni tramite l’accordo di libero scambio africano AfCFTA e l’AGOA, lo schema che assicura alle merci africane un trattamento privilegiato nel mercato americano. Il gioco di sponda non potrebbe essere più evidente che in Marocco, dove da oltre un anno si stanno riversando le aziende cinesi produttrici di batterie per gli EV.
Lo strano blitz di Xi in Marocco
Stupisce quindi fino a un certo punto che Xi Jinping, di ritorno dal Sud America, sia atterrato a Casablanca per uno “scalo tecnico” non programmato, o almeno non preannunciato. Accolto dal principe ereditario Moulay El Hassan, il leader “ha sottolineato l’impegno della Cina nel sostenere il Marocco nel mantenimento della sua sicurezza e stabilità nazionale e ha espresso la volontà del paese di collaborare con la nazione nordafricana per continuare a sostenersi a vicenda con fermezza su questioni che riguardano i rispettivi interessi fondamentali”. Solo pochi giorni prima, il 13 novembre, Gotion High-Tech aveva firmato un accordo con il fondo di investimento statale marocchino CDG a Hefei, nella provincia di Anhui, per promuovere lo sviluppo di una gigafactory di batterie elettriche a Kenitra, sulla costa atlantica.
Considerata la mini guerra tariffaria con l’Ue, il blitz di Xi sembra mirato proprio a rafforzare la già estesa presenza cinese nel mercato africano dei veicoli a nuova energia che, come detto, si estende dal mining fino alla realizzazione del prodotto finito, passando per la formazione del personale locale impiegato nella fase di assemblaggio. La vera stranezza non è quindi forse tanto l’arrivo inatteso del presidente cinese quanto piuttosto la decisione di dedicare al Marocco solo un fugace pitstop. La crescente importanza del Nord Africa nell’agenda diplomatica cinese sarebbe bastata a giustificare una trasferta più ampia, articolata in varie tappe… Invece pare che Xi non abbia in programma di visitare la regione per un po’.
In effetti, nonostante l’enfasi attribuita dai media ufficiali alle relazioni Sud-Sud, in realtà il presidente cinese ha dato priorità ad altre parti del mondo. Questo è quanto sostiene la Jamestown Foundation, che dall’inizio del primo mandato ha calcolato solo 7 visite di stato in Africa (meno di una all’anno, di cui tre in Sudafrica) rispetto alle 23 effettuate in Europa – senza contare le 4 in Russia, il paese in cui si è recato più volte di qualsiasi altro. Lo stesso vale per i normali scambi diplomatici: Pechino ha inviato più delegazioni in Europa che in qualsiasi altro continente, il 50% in più rispetto alle missioni in Africa. E anche se in Cina ultimamente c’è stato un notevole via vai di leader africani, l’Europa è numero uno anche per numero di visite condotte in senso opposto.
Il colosso dei cellulari Transsion ha dei competitor. Cinesi
Da anni la cinese Transsion si mantiene in testa alla classifica dei principali venditori di smartphone in Africa. Le cose stanno tuttavia cambiando. La forte flessione dei profitti riportata dall’azienda nel terzo trimestre certifica – oltre ai maggiori costi delle forniture – la crescente concorrenza nel mercato africano. Chi sono i concorrenti? Oppo, Realme e soprattutto Xiaomi, che ha riportato un aumento del 45% nelle spedizioni di telefoni raggiungendo una quota di mercato del 12%. Insomma, anche con un aumento dei player, la competizione nel continente resta tutta cinese.
Il bias dell’Africa per le lauree cinesi
Chi trascorre periodi medio lunghi in Cina di solito resta impressionato dal numero di studenti africani presenti nel paese. È così da un bel po’ e lo sarà sempre di più considerato che gli occidentali – fuggiti al Covid – stentano a tornare. Secondo un’indagine della Beijing International Talent Exchange Association, la percentuale di americani ed europei è scesa dal 16% del 2019 all’attuale 12%, mentre gli africani rappresentano ora il 31% della forza lavoro straniera, in aumento rispetto al 26% di cinque anni fa.
Un interessante evento organizzato dal Afro-Sino Centre of International Relations (ASCIR) ha fatto luce su aspetti spesso trascurati quando si parla di Cina e Africa. Alla domanda “perché proprio la Cina?” molti dei professionisti hanno affermato che il paese asiatico non era la loro preferenza iniziale. Lo è diventato piuttosto per via della disponibilità di borse di studio sovvenzionate dal governo cinese. Scelta che però hanno pagato cara al ritorno a casa, dove l’istruzione e le qualifiche cinesi sono percepite negativamente. Secondo un sondaggio condotto in Ghana, mentre il 70,7% dei laureati è tornato a casa nel 2018, solo il 20% nel campo medico ha trovato impiego. Il restante 50,7% è rimasto disoccupato.
Se per gli africani la Cina non è la chiave del successo, così l’Africa non lo è per i cinesi in cerca di fortuna. Xiao Nie (小聂说事儿), commentatore cinese residente nel continente da dieci anni riporta i connazionali con i piedi per terra. In un post, pubblicato il 1° novembre su WeChat, spiega che molte storie di facili guadagni sono prodotte dai governi provinciali cinesi per rafforzare i legami con la diaspora in Africa. In realtà, mentre effettivamente un tempo era più facile farsi strada, ora i migranti cinesi nelle principali città africane sono talmente tanti che la crescente competizione rende il successo tutt’altro che scontato.
A cura di Alessandra Colarizi
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.