Africa rossa – La mediazione cinese, non quella che pensi

In Africa Rossa, Cina by Alessandra Colarizi

Una presunta mediazione nel Sahel, una nuova conferenza di pace nel Corno d’Africa. La Cina mostra una insolita disponibilità a farsi coinvolgere nelle varie crisi africani, seppure a modo suo. D’altronde gli investimenti infrastrutturali nel continente sono ripartiti e l’interesse per le miniere africane giustifica un ripensamento della vecchia postura distaccata mantenuta da Pechino per decenni. Almeno quando i progetti cinesi rischiano di venire compromessi. Di questo e molto altro in Africa rossa, la rubrica su Cina e Africa a cura di Alessandra Colarizi. 

I temi dell’ultima puntata:

  • La mediazione cinese, non quella che pensi
  • Le ferrovie, le miniere, i porti
  • Huawei per un’Africa “più sicura”
  • Dai veicoli elettrici all’acciaio: la triangolazione africana
  • Gli africani preferiscono la Cina agli Stati Uniti
  • Ombre cinesi dietro alla criminalità giovanile in Zambia
  • Tutti pazzi per il kung fu: il soft power cinese in Africa che non ti aspetti
  • Dai droni ai veicoli corazzati: oltre 20 paesi africani comprano armi dalla Cina
  • Anche la Corea del Sud ora ha un vertice africano

 

Se dico “Cina” e “mediazione” qualcuno penserà al negoziato tra Iran e Arabia Saudita, qualcun altro alla proposta di pace per l’Ucraina, o a una potenziale intercessione di Pechino a Gaza. Solo poche persone avranno capito che in realtà mi sto riferendo all’ultimo (in)successo della diplomazia cinese in Africa. La notizia non ha ricevuto l’importanza che merita: a metà maggio, il Benin ha revocato la decisione di bloccare le esportazioni di petrolio greggio dal Niger (senza sbocco sul mare) attraverso il porto di Seme, misura ritorsiva adottata in risposta alle sanzioni imposte dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao) dopo il colpo di Stato del 26 luglio. Dinamiche interne del Sahel, dunque, ma in cui la Cina pare avere svolto un qualche ruolo. Sebbene non sia chiarissimo quale. Quello che sappiamo per certo, però, è che a rompere l’impasse tra i due paesi africani è stato un incontro tra il presidente beninese Patrice Talon e il direttore generale della compagnia China National Petroleum Corporation (CNPC), il 15 maggio. 

Il colosso cinese degli idrocarburi ha investito 4,6 miliardi di dollari nell’industria petrolifera del Niger e la sua controllata PetroChina possiede due terzi del giacimento petrolifero di Agadem, oltre ad aver finanziato e costruito 2.000 chilometri di oleodotto per trasferire il petrolio fino al porto beninese di Seme, sull’Atlantico. Sennonché all’inizio di giugno le autorità di Porto-Novo hanno arrestato cinque dipendenti nigerini dell’azienda cinese per il presunto ingresso nel terminale dell’oleodotto Seme-Kpodji del Benin “con l’inganno” – accuse che il Niger ha respinto, insistendo che il gruppo si trovava lì per supervisionare il carico di greggio in linea con gli accordi. Un nuovo strappo, una nuova patata bollente per la Cina, stavolta chiamata in causa pubblicamente: “Non manderemo più il nostro petrolio attraverso l’oleodotto finché i beninesi non decideranno di onorare il loro impegno e finché il partner cinese non li convincerà a onorare il loro impegno perché, a quanto pare, è l’unico che riesce a farsi ascoltare”, ha affermato il ministro del Petrolio del nigerino Mahamane Moustapha Barke, anticipando una nuova chiusura delle condotte, ufficializzata il 14 giugno dopo la morte di sei soldati nigerini incaricati di sorvegliare l’oleodotto. Solo quattro giorni dopo l’infrastruttura è stata presa di mira dal Fronte di Liberazione Patriottica – tra i principali oppositori del regime golpista – che ne ha sabotato una sezione con lo scopo conclamato di spingere gli investitori cinesi ad abbandonare il progetto. 

Secondo African Energy, l’interruzione  permanente del flusso di petrolio priverebbe il Benin di 31 milioni di dollari (28,9 milioni di euro) all’anno delle tasse di transito. Per la Cina il problema non è tanto in termini energetici – fatta eccezione per le esportazioni dal Ciad,  negli ultimi anni il greggio africano è diminuito sensibilmente nel mix delle forniture cinesi. Sono invece i rischi per la sicurezza il vero anatema di Pechino. In Africa e non solo, considerato che il 75% dei progetti legati alla Belt and Road Initiative si trova in zone considerate instabili. Il caso tra il Niger e il Benin evidenzia una maggiore disponibilità della Cina a intervenire nelle crisi locali, anche a costo di derogare alla tradizionale politica della non ingerenza. Per ora in punta di piedi e solo quando la minaccia riguarda direttamente gli interessi economici nazionali. Non è la prima volta che accade (ne avevo scritto più nel dettaglio qui).  Va notato come già a settembre, dopo il colpo di Stato, l’ambasciatore cinese a Niamey, Jiang Feng, avesse espresso l’intenzione di Pechino svolgere la funzione di “moderatore nella crisi politica. Un passo importante per la Cina nel Sahel, regione-polveriera dove fino a oggi ha cercato di tenersi fuori il più possibile (The China-Global South Project ha approfondito la questione nel suo podcast settimanale). Ma il coinvolgimento economico aumenta e di conseguenza la necessità di limitare i rischi per la sicurezza dei propri asset.

Di maggio la notizia che la cinese Ganfeng Lithium ha aumentato la sua quota nella miniera di litio di Goulamina, in Mali, dal 20 al 35%. L’interesse della Cina per l’ex colonia francese non è così scontato. Reduce da due colpi di Stato, il paese africano dal 2012 è sotto la minaccia jihadismo e non è certamente la meta ideale in cui investire. Tuttavia l’arretramento dell’occidente, ai ferri corti con i golpisti, rappresenta un’occasione per la Cina (e la Russia). A dicembre Pechino ha ospitato una delegazione maliana composta da ministri delle Finanze, del Commercio e degli Esteri, terminata con la promessa di rafforzare la cooperazione in vari settori. Spiccano i programmi Mali Digital project e African Solar Belt con lo scopo conclamato di “contribuire a promuovere il processo di pace e di sviluppo in Mali”. Ancora una volta Pechino sembra sperare di riuscire a portare stabilità attraverso il benessere economico.

Lo stesso pare stia cercando di fare in Libia, paese da cui la Cina ha preso le distanze dopo la morte di Gheddafi nel 2011. Secondo il South China Morning Post, Pechino ha in programma di ripristinare servizi regolari presso l’ambasciata a Tripoli, mossa dal forte significato politico che sancirebbe un allontanamento netto dal Governo di Stabilità Nazionale (GNS) del generale Khalifa Hifter dopo anni di “neutralità”. Come detto più volte, negli ultimi tempi la Cina ha mostrato un interesse particolare per il Nordafrica. Tornare in Libia permetterebbe a Pechino di assicurarsi un altro avamposto strategico sul Mediterraneo, oltre a ottenere nuove forniture di petrolio. 

“Sicurezza, sviluppo e governance” è anche il trinomio al centro della seconda conferenza di pace per il Corno d’Africa, ospitata dalla città di Pechino il 24 giugno. All’evento hanno partecipato il vice ministro degli Esteri cinese Chen Xiaodong, l’Inviato Speciale per gli Affari del Corno d’Africa Xue Bing, i rappresentanti del Ministero del Commercio e dell’Agenzia cinese per la cooperazione internazionale allo sviluppo, nonché alti funzionari e diplomatici di Etiopia, Gibuti, Kenya, Somalia, Sud Sudan, Sudan e Uganda. Se il primo incontro di due anni fa in Etiopia era stato a dir poco fumoso, l’ultima edizione non lascia più alcun dubbio sulla natura pelopiù politica dell’iniziativa. Si è parlato di Global Development Initiative, di Belt and Road, di “sviluppo condiviso” nonché di “equità e giustizia internazionale per i paesi in via di sviluppo” . Intanto nelle ultime due settimane di maggio nel Darfur sono morte 123 persone.

Le ferrovie, le miniere, i porti

Nonostante la rimonta del terrorismo islamico e le varie crisi politiche, nel 2023 l’Africa è stata la prima area del mondo per investimenti cinesi: 21,7 miliardi di dollari è l’importo calcolato dal Griffith Asia Institute, tra contratti e promesse di investimenti, pari a un aumento su base annua del 114%. Un risultato forse dovuto alla crescente instabilità del Medio Oriente, regione su cui il gigante asiatico aveva puntato molto nel triennio del Covid. Ma non solo, considerata la concentrazione dei capitali nel mining e nelle infrastrutture di sostegno all’export. 

Come detto tante volte su queste colonne, per limitare i rischi la Cina sta usufruendo sempre più spesso delle Public-Private Partnership (PPP), invitando le aziende cinesi ad assumere partecipazioni azionarie e a gestire le infrastrutture costruite per conto dei governi stranieri. Questo dovrebbe garantire la sostenibilità economica dei progetti, inducendo i costruttori a realizzare infrastrutture più utili e di qualità migliore. Effettivamente si sta dimostrando così nel caso della Nairobi Expressway, che in termini di utilizzo giornaliero ha già superato le previsioni per il 2049. Tuttavia, la portata reale del fenomeno PPP parrebbe più modesta di quanto precedentemente stimato. Secondo dati condivisi da AidData con Reuters, mentre gli Special Purpose Vehicle (SPV) cinesi, il mezzo più comune di investimento in infrastrutture PPP, sono cresciuti a livello globale, la proporzione in Africa è quasi la metà rispetto alla media mondiale. Secondo gli analisti, il motivo va ricercato nella mancanza di tutele legali in buona parte del continente e nella conseguente cautela delle aziende cinesi, piuttosto nuove a questo tipo di operazioni finanziarie.

La questione, passata ampiamente inosservata sulla stampa generalista, merita invece attenzione considerata la lenta ripresa delle opere infrastrutturali cinesi in Africa. A sei anni dal lancio, recentemente la Cina ha ceduto alle autorità locali la gestione della ferrovia Etiopia-Gibuti, mentre il prossimo anno dovrebbe avvenire lo stesso con la Mombasa-Nairobi Railway. Nel frattempo, si parla di nuovi progetti ferroviari non confermati in Kenya e Nigeria, oltre a una metrotranvia in Egitto e l’espansione del porto di Kribi in Cameroon. Soprattutto, a fine maggio, Bloomberg ha riportato la notizia di un memorandum tra TransTech, filiale di China Railway Group, e le Ferrovie statali dello Zimbabwe (NRZ) per ricapitalizzare la rete ferroviaria del paese. Per ora si parla di uno studio di fattibilità, previsto per fine giugno, ma l’obiettivo consiste nel ristrutturare completamente le infrastrutture di trasporto su rotaia per facilitare l’export di litio e altre materie prime di cui il paese è ricco. C’è solo un problema: Harare fronteggia un debito estero di 6,7 miliardi di dollari; 2,1 miliardi sono in mano cinesi, di cui un terzo composto da arretrati.  Difficile pensare che Pechino abbia voglia di erogare altro credito dopo la richiesta (pare disattesa) da parte delle autorità locali di una riduzione/cancellazione di quanto dovuto. Il ministro delle Finanze Mthuli Ncube non perde la speranza: “Ci aspettiamo che l’accordo verrà annunciato durante il prossimo Forum Cina-Africa”, ha dichiarato facendo riferimento all’evento, confermato recentemente per il  3-8 settembre. 

A proposito di debito, analizzando le passività contratte dai paesi in via di sviluppo,  The One Campaign ha scoperto che durante il periodo 2018-2022 i creditori cinesi hanno rappresentato solo il 6,7% dei costi del servizio del debito; una percentuale significativamente inferiore al 66% rimborsato dai paesi emergenti agli obbligazionisti, perlopiù occidentali. Secondo dati della Banca Mondiale, la percentuale cinese raddoppierà tra il 2023 e il 2025, ma rimarrà comunque molto al di sotto del 54% che andrà rimborsato ai prestatori privati.

Resta sempre la solita incognita legata alla scarsa attendibilità dei numeri forniti dalla Cina e dai governi africani. Per questo ha suscitato un certo interesse l’annuncio di un accordo tra l’Angola e la China Development Bank, il principale creditore della Repubblica popolare: al paese africano verrà concesso di utilizzare la liquidità trattenuta in un conto di deposito come garanzia per un precedente prestito. Questo dovrebbe permettere a Luanda di utilizzare 150-200 milioni di dollari al mese per pagare gli interessi sui prestiti, sebbene la Cina pretenderà fondi extra se il prezzo del petrolio salirà a 60 dollari al barile.

Intanto l’Asian Infrastructure Investment Bank ha annunciato l’intenzione di investire 1 miliardo di dollari per sette progetti infrastrutturali in varie parti dell’Africa, di cui una parte importante andrà al settore delle rinnovabili e agli approvvigionamenti idrici. Senegal, Tanzania e Mauritania stanno finalizzando le procedure per aderire all’istituto, che al momento conta 16 membri africani. Va tuttavia notato come ad oggi in Africa sia finito solo circa il 4% dei 52 miliardi di dollari stanziati dalla superbanca cinese. 

Recentemente, il Carnegie ha pubblicato un denso report dal titolo How Is China’s Economic Transition Affecting Its Relations With Africa?, in cui tra le altre cose evidenzia come stiano aumentando i prestiti denominati in yuan; sia attraverso la New Development Bank (la cosiddetta “banca dei Brics”) e la China Development Bank, sia attraverso accordi di swap e stanze di compensazione a Hong Kong e Shanghai.

Huawei per un’Africa “più sicura”

Huawei Egypt ha firmato un memorandum con l’autorità nazionale per la regolamentazione delle telecomunicazioni egiziana per rafforzare la sicurezza informatica. Il protocollo d’intesa mira a salvaguardare i dati sensibili e a garantire un ecosistema digitale sicuro attraverso “lo scambio di competenze”. In Uganda, invece, il colosso di Shenzhen ha fornito la tecnologia necessaria a sviluppare un sistema di sicurezza CCTV intelligente da 126 milioni di dollari in grado di catturare volti e le targhe delle auto in transito.

Dai veicoli elettrici all’acciaio: la triangolazione africana

Le tariffe sugli EV cinesi ventilate da Bruxelles stanno spingendo sempre più aziende automobilistiche a delocalizzare in Africa. E’ quanto sta avvenendo in Marocco, dove nell’ultimo mese la sino-tedesca Gotion, specializzata in batterie, è diventata la terza azienda legata alla Cina a investire nel paese per sfruttare l’accordo di libero scambio tra Rabat e l’Ue. A fine maggio, Samaila Zubairu, chief executive dell’istituto finanziario Africa Finance Corporation, lo ha detto senza giri di parole: da tempo l’Africa spinge per trattenere in loco i processi di raffinazione a più alto valore aggiunto, oggi in buona parte gestiti in Cina. In ottica “win-win”, mantenere la lavorazione nel continente permetterebbe a Pechino di attutire le accuse dell’occidente riguardo l’export di sovracapacità industriale. Non si parla solo di auto elettriche. Il Sud globale sembra destinato ad assorbire le eccedenze nei comparti legati alla transazione ecologica. Basti pensare che nel 2023 il Sudafrica ha quadruplicato le importazioni di pannelli solari dalla Cina per far fronte ai frequenti blackout. Qualsiasi variazione (all’insù o all’ingiù) nelle vendite del “made in China” avrà un impatto notevole sull’Africa, che rifornisce la Repubblica popolare dei metalli e dei minerali utilizzati nell’industria “verde”. 

Va detto che la Cina – ben prima di Stati Uniti ed Europa – ha cominciato a investire nella raffinazione e nel manifatturiero, come chiesto dai partner africani. Pochi giorni fa in Zimbabwe è stato inaugurato un impianto siderurgico da 1,5 miliardi di dollari, che servirà a produrre ghisa, un’importante componente dell’acciaio. Situata a 200 chilometri dalla capitale Harare, quella di Mvuma dovrebbe diventare la più grande acciaieria integrata di tutta l’Africa.

Punta invece su materie prime come caffè e legno di bambù l’Etiopia che a maggio ha inaugurato la prima zona economica speciale, nella regione di Oromia. Diverse aziende cinesi collaboreranno allo sviluppo di un’area di libero commercio (FTA), parte del progetto. Secondo le autorità di Addis Abeba, negli ultimi dieci mesi la Cina ha rappresentato il 50% degli investimenti diretti esteri finiti nel paese africano. Commentando la notizia, l’agenzia di stampa cinese Xinhua ha definito la FTA  “un’importante fonte di occupazione per la crescente popolazione giovanile del paese”.

Gli africani preferiscono la Cina agli Stati Uniti

Secondo un sondaggio di Gallup, condotto in 36 paesi, per la prima volta la Cina ha superato gli Stati Uniti nell’indice di gradimento dell’opinione pubblica africana: il gigante asiatico ha  guadagnato sei punti laddove gli Stati Uniti hanno perso il 3%. Un cambiamento netto considerato che Washington ha mantenuto un vantaggio quasi ininterrotto dal 2007; il risultato peggiore è stato il pareggio del triennio 2016-2019. Il balzo più rilevante, la Cina lo ha riportato nell’Africa occidentale – in particolare in Ghana (+15 punti), Costa d’Avorio e Senegal (+14 punti ciascuno) – regione diventata prioritaria nell’agenda di Pechino dopo l’ultimo FOCAC di Dakar. Gli Stati Uniti invece, sebbene in miglioramento in Ghana (+15 punti), Tunisia (+12 punti) e Mozambico (+11 punti), hanno accusato forti perdite in Uganda (-29), Gambia (-21) e Kenya (-14). Sì, anche in Kenya, paese a cui Biden a maggio ha concessione lo status di maggior alleato non-Nato. L’occasione si è presentata durante la visita di Stato del presidente William Ruto a Washington, la prima di un leader africano in 15 anni. Il governo di Nairobi rappresenta un partner strategico per controbilanciare l’avanzata cinese nel continente, ma anche quella russa visto che il Kenya fa parte del Gruppo di contatto per la difesa dell’Ucraina. 

Ombre cinesi dietro alla criminalità giovanile in Zambia

Va notato inoltre come gli States battano la Cina, seppur di poco (22 a 19), anche in Zambia, paese storicamente amico di Pechino e che Gallup ora definisce “conteso”. Pesa la storiaccia del debito ma non solo. Da qualche tempo il gigante asiatico viene associato all’incremento della criminalità giovanile,  come conferma il caso della Golden Top Support Services, azienda cinese situata alla periferia di Lusaka che ha assunto “ignari” zambiani di età compresa tra i 20 e i 25 anni per condurre “conversazioni ingannevoli con utenti mobile su varie piattaforme come WhatsApp, Telegram, e altre app utilizzando dialoghi programmati”.  Si tratta del più grande giro di criminalità informatica mai registrato in Zambia. Senza contare che anche il gioco d’azzardo è gestito perlopiù da cinesi. 

Stando al Centro di informazione finanziaria, 2,8 miliardi di dollari legati a transazioni sospette sono stati inviati dallo Zambia verso la Repubblica popolare solo nel quarto trimestre del 2023. La massiccia presenza fisica dei forestieri rende più frequenti attriti e incomprensioni. Circa 30.000 cittadini cinesi risiedono in Zambia, dove sono registrate oltre 300 aziende provenienti dalla Repubblica popolare. Come sottolinea The Africa Report, esiste uno scollamento tra la percezione dell’élite locale, solitamente più favorevole nei confronti della Cina, e la pancia del paese. Questo è vero un po’ in tutto il continente. La condotta dei nuovi arrivati non è sempre ineccepibile A inizio maggio il video di un uomo cinese intento a frustare brutalmente due adolescenti africani ha ottenuto 30 milioni di visualizzazioni su X e altre piattaforme di social media.

Tutti pazzi per il kung fu: il soft power cinese in Africa che non ti aspetti

La Cina sconta anche la diversità culturale, esacerbata dall’isolamento a cui sono sottoposti gli immigrati cinesi mandati in Africa per lavoro. A migliorare la conoscenza del paese potrebbe prima o poi contribuire una particolare forma di soft power: il kung fu, tanto nel formato cinematografico quanto nella pratica sportiva, sta impazzando in varie parti del continente. Nel 2017, in Camerun, il 79% dei cinefili intervistati ha dichiarato di essere interessato al kung fu mentre l’85% ha affermato di aver cominciato a praticare le arti marziali cinesi dopo aver visto un film. Scuole di Kung Fu stanno aprendo un po’ ovunque, dal Sud Africa ad Addis Abeba. Proprio lo Zambia ha recentemente ospitato i primi Giochi africani di Shaolin Kung Fu, con la partecipazione di oltre 150 atleti provenienti da 23 paesi.

Dai droni ai veicoli corazzati: oltre 20 paesi africani comprano armi dalla Cina

Amici storici ma anche aspiranti amici. Secondo l’Economist sono sempre di più i paesi africani ad acquistare armi cinesi. Dalle navi da guerra vendute a Gibuti e Mauritania, fino ai droni consegnati a Nigeria e Congo: secondo calcoli del SIPRI, non meno di 21 paesi dell’Africa sub-sahariana hanno ricevuto importanti forniture cinesi tra il 2019 e il 2023, mentre, per Janes, ormai sette eserciti africani su dieci schierano veicoli corazzati fabbricati in Cina. Mentre cresce la popolarità di armi pesanti, gli aeromobile a pilotaggio remoto restano uno degli articoli made in China più apprezzati e più utilizzati in contesti controversi: se ne è servita l’Etiopia nel Tigray, e se ne servono le Forze di supporto rapido per combattere il Coordinamento delle forze civili democratiche (Taqaddum) in Sudan. 

Secondo il South China Morning Post, un altro segmento promettente è quello degli obici. La Cina ha sviluppato i modelli PCL-181 e PLZ-45 calibro 155 mm attenendosi agli standard NATO. Stando agli esperti, Africa e Medio Oriente sono i principali destinatari di questo tipo di artiglieria, che “ha un costo relativamente basso rispetto agli aerei e ad altri sistemi d’arma avanzati, ma è molto utile contro gli avversari sul terreno”. 

Come detto spesso, gli scambi militari non hanno solo natura difensiva. Spesso vengono sfruttati per cementare le relazioni diplomatiche con i paesi partner. Ecco perché da metà giugno 2024 a metà gennaio 2025, la nave ospedale della Marina Militare cinese, Ark Peace, visiterà 13 paesi (Seychelles, Tanzania, Madagascar, Mozambico, Sud Africa, Angola, Repubblica del Congo, Gabon, Camerun, Benin, Mauritania, Gibuti e Sri Lanka) per fornire servizi sanitari alla popolazione locale nell’ambito della Missione Harmony-2024 V. Intanto continuano a emergere indizi in merito a una nuova base militare nella Guinea Equatoriale. A sostenerlo è l’analista Ovigwe Eguegu, secondo il quale la pistola fumante è l’innalzamento delle relazioni bilaterali tra Pechino e Conakry a “nuovo partenariato strategico globale”. L’annuncio era avvenuto a maggio durante la visita a Pechino del presidente  Teodoro Obiang Nguema Mbasogo. 

Stando alle informazioni ottenute dall’Environmental Investigation Agency (EIA), il contrabbando di legname dalle foreste del Mozambico alla Cina sta contribuendo a finanziare l’insurrezione dello Stato Islamico nella provincia settentrionale di Cabo Delgado. Si tratta di un commercio illecito del valore di 23 milioni di dollari all’anno, che vede coinvolto il palissandro, spedito in Cina per la costruzione di mobili di lusso nonostante sia protetto da trattati internazionali.

Anche la Corea del Sud ora ha un vertice africano

Il primo Vertice Corea del Sud-Africa segna l’inizio di una nuova era di cooperazione tra la quarta economia asiatica e il Continente africano. Lo ha dichiarato il presidente coreano Yoon Suk Yeol durante il discorso di apertura dell’evento di due giorni tenutosi a Seul dal 5 al 7 giugno e a cui hanno partecipato 48 paesi africani. Yoon ha sottolineato la necessità per la Corea del Sud di giungere rapidamente alla firma di accordi di sviluppo commerciale con i Paesi africani, inclusi accordi di partenariato economico e il Quadro di promozione del commercio e degli investimenti. Il summit si è concluso con la promessa di aumentare il proprio sostegno allo sviluppo dell’Africa a 10 miliardi di dollari entro il 2030, e di stanziare 14 miliardi di dollari in finanziamenti all’esportazione alle aziende sudcoreane. Il presidente ha inoltre affermato che la Corea del Sud contribuirà ad agevolare il commercio intra-continentale attraverso l’Area di libero scambio continentale africana. Corea del Sud e Africa supereranno insieme le sfide transnazionali incorporando le ricche risorse minerarie dell’Africa e la giovane popolazione del continente con l’esperienza e la tecnologia avanzata della Corea del Sud, ha affermato Yoon. Non tutti condividono l’ottimismo del leader sudcoreano. “South Korea-Africa Summit: A Disappointing Outcome?” si chiede Ovigwe Eguegu su The Diplomat 

A cura di Alessandra Colarizi

Per chi volesse una panoramica d’insieme, in libreria trovate “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.