L’Angola è al centro di un nuovo braccio di ferro tra Cina e Usa, stavolta per il controllo sui corridoi minerari africani. “Giochi di potere” da cui un nuovo studio consiglia all’Ue di tenersi lontana. Intanto l’India continua ad avanzare in Kenya, mentre Taiwan rischia di perdere il suo ultimo alleato africano. Di questo e molto altro nella nuova puntata di Africa rossa, la rubrica a cura di Alessandra Colarizi:
- La geopolitica delle ferrovie
- Cina, Usa e il braccio di ferro sui prestiti
- La Global Gateway e i “giochi di potere”
- Ombre cinesi sulle isole Chagos
- Rimuginando sul FOCAC
- Un altro passo avanti sul debito dello Zambia
- Taiwan corteggia il Somaliland, Eswatini vacilla
- L’India avanza in Kenya
- Droni al generale Haftar, blindati a Wagner
- “L’epoca dell’eccesso illusorio”
Da modello per la Cina a modello per gli Stati Uniti. L’Angola si conferma la prima scelta per i paesi intenzionati a consolidare la propria posizione in Africa. Se queste attenzioni diventeranno un asset strategico per Luanda o se daranno seguito alla richiesta di partenariati esclusivi è ancora da vedere. Partiamo dalla notizia: dal 10 al 15 ottobre Joe Biden si recherà nell’ex colonia portoghese, per compiere in extremis quella tante volte annunciata (e rimandata) visita in Africa. Va ricordato che l’ultimo presidente americano a mettere piede nel continente era stato Barack Obama nel lontano 2015. L’annuncio di per sé ha quindi un peso rilevante. La meta scelta da Biden rende la trasferta africana anche più interessante: l’Angola, il paese dove negli anni ‘90 la Cina ha messo appunto la propria strategia per l’Africa: il cosiddetto “modello Angola” che prevedeva l’importazione di petrolio in cambio della costruzione di infrastrutture. Poi estesa ad altri paesi ricchi di materie prime, nel corso di tre decenni quel do ut des ha lasciato Luanda con un debito pari a circa 17 miliardi di dollari.
L’interesse americano per l’ex colonia portoghese (se si esclude il “risiko” con l’Urss durante la guerra civile) è invece piuttosto recente. Chi segue “Africa rossa” sa a cosa mi riferisco. Per i più distratti, rimando alle parole della Casa Bianca, secondo la quale durante la sua permanenza nel paese Biden, tra le altre cose, “celebrerà un progetto distintivo della Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGI) del G7, che promuove la nostra visione comune per la prima rete ferroviaria transcontinentale ad accesso aperto dell’Africa che inizia a Lobito e alla fine collegherà l’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano”.
Esattamente un anno fa, Stati Uniti e l’Ue si sono impegnati a potenziare il cosiddetto corridoio ferroviario di Lobito, che percorrendo 1.300 chilometri collega le cinture di rame e cobalto in Zambia e nella Repubblica Democratica del Congo con il porto di Lobito, in Angola. Il progetto ruota intorno alla vecchia ferrovia del Benguela, caduta in rovina al tempo della guerra civile angolana.
L’opera a guida occidentale sembra piuttosto chiaramente rispondere alla crescente necessità di estendere il controllo sui minerali critici, finora saldamente nelle mani della Cina, che nella RDC detiene la proprietà di 15 delle 19 miniere di cobalto. Che il perno del corridoio di Lobito sia l’Angola è rilevante perché, come dicevamo, il paese è storicamente un “feudo cinese”.
Da alcuni anni tuttavia i rapporti con Pechino si sono raffreddati, soprattutto dopo il ritiro dalla politica di José Eduardo dos Santos, al potere per 38 anni. Nel 2017, il nuovo presidente angolano, João Lourenço, ha avviato un processo di diversificazione dell’economia nazionale troppo dipendente dal greggio. Tanto che nel 2019, riferendosi al “modello Angola”, chiarì che “today we are discontinuing such a practice … advised by the IMF and the World Bank.” A certificare il cambio di passo il numero di cinesi residenti nel paese, scesi dagli oltre 300.000 dei primi anni Duemila, agli attuali 20.000 scarsi. Poi, lo scorso mese, l’ingombrante assenza di Lourenço al Forum Cina-Africa (FOCAC) non ha mancato di suscitare qualche perplessità sulla solidità del rapporto tra Pechino e Luanda.
Insomma, una volta tanto il tempismo sembra remare a favore dell’iniziativa di Stati Uniti e Ue. Sembra, appunto. Scommettere contro la Cina è sempre pericoloso. Farlo in Africa e quasi un suicidio. Malgrado le difficoltà, i rapporti bilaterali restano infatti strettissimi: anche a fronte di un generico calo delle forniture di petrolio africano, la Cina riceve ancora quasi il 72% delle esportazioni angolane. Secondo la Boston University, dal 2002 a oggi, Luanda ha preso in prestito dalla Repubblica popolare oltre 45 miliardi di dollari, perlopiù destinati al settore energetico. Questa esposizione ai capitali cinesi è però la stessa ragione per la quale difficilmente l’ex colonia portoghese farà una scelta di campo tra Cina e Stati Uniti. Piuttosto, come molti altri paesi africani, giocherà su più tavoli per ottenere da entrambi gli interlocutori le condizioni migliori.
Basti pensare che dal 2023, proprio a Lobito, la China National Chemical Engineering Company (CNCEC) sta costruendo una raffineria da 6 miliardi di dollari. Senza contare che non solo alcuni anni fa la Cina ha finanziato 1,8 miliardi di dollari nel rinnovamento parziale della ferrovia del Benguela, Diverse aziende statali cinesi sono presenti nello scalo portuale di Lobito o partecipano indirettamente alla costruzione dei trasporti ferroviari attraverso quote azionarie nelle società appaltatrici.
D’altronde, l’assenza di Lourenço al FOCAC non è detto vada letta come un distanziamento, soprattutto considerata la visita in Cina di marzo. Firmati di una serie di accordi, in quell’occasione il presidente angolano ha anche concordato con Xi Jinping l’elevamento delle relazioni bilaterali a “partenariato cooperativo strategico completo”. Non esattamente il sintomo di un allontanamento. Certo, gli investimenti occidentali risultano altrettanto graditi. Ma è piuttosto improbabile che lo sviluppo del corridoio basterà ad arginare la presenza pervasiva della Cina negli approvvigionamenti globali di terre rare e altri materiali strategici, dall’estrazione alla raffinazione.
E’ questo il punto. C’è già chi si chiede se abbia senso potenziare uno sbocco sull’Atlantico quando minerali e merci vanno (e andranno sempre di più) prevalentemente verso Est. La, Cina peraltro, non sta a guardare. Durante il FOCAC Pechino ha promesso 1 miliardo di dollari per ringiovanire la vecchia ferrovia Tanzania-Zambia (TAZARA) costruita da Mao. Una delle poche iniziative in deroga al nuovo principio dei progetti “piccoli e belli”. Al di là dell’importanza simbolica, non serve grande intuito per capire che a Pechino l’opera interessa soprattutto per migliorare i trasporti dalle miniere zambiane alle coste della Tanzania. Scorciatoia che permetterebbe di allentare la dipendenza dal porto sudafricano di Durban.
Non che la ferrovia cinese non debba affrontare i suoi problemi. La CCECC, la società incaricata di realizzare l’infrastruttura, sta negoziando una concessione per gestire il progetto per 30 anni ovvero fino a quando non sarà in grado di recuperare i capitali investiti. Poi la proprietà passerà ai governi di Dodoma e Lusaka, che dovranno accordarsi sulla divisione degli introiti e i lavori di manutenzione. Come discusso su The China Global South Project, l’interessamento della RDC (se seguito da un ingresso nel progetto) potrebbe complicare ulteriormente le cose.
L’approccio ipercompetitivo di Stati Uniti e Unione Europea sembra tuttavia non portare da nessuna parte. Solo pochi giorni fa il vicesegretario di Stato americano Kurt Campbell ha cercato di sminuire l’impegno della Cina in Africa sostenendo (senza citare la fonte) che lo scorso anno la Belt and Road Initiative ha portato nel continente progetti per meno di 10 miliardi di dollari, mentre la Development Finance Corporation americana “nell’ultimo anno solare ha investito 12 miliardi di dollari nel Sud del mondo, gran parte dei quali in Africa”. Poi, rimasticando un luogo comune ormai superato, ha aggiunto che con le iniziative cinesi “una schiera di lavoratori stranieri arriva e poi se ne va con pochissimo valore aggiunto“. Tesi facilmente smentibile considerato lo spazio dedicato alla formazione professionale nei piani d’azione divulgati da Pechino al termine degli ultimi due FOCAC.
Cina, Usa e il braccio di ferro sui prestiti
Secondo Henry Tugendhat, ricercatore associato presso la China Africa Research Initiative presso la School of Advanced International Studies, della Johns Hopkins University, cercare di superare la Cina, diventando più simili ad essa, è un gioco che non porta a nulla. E questo perché le banche cinesi possono facilmente superare in prestiti le controparti statunitensi perché sono meglio strutturate verso questo obiettivo. E forse ancora più importante, “hanno bisogno di prestare denaro a chiunque voglia acquistare beni e servizi cinesi perché la crescita economica della Cina è ora dipendente dal mantenimento di una bilancia commerciale positiva”. “Il modo migliore per offrire una vera alternativa economica alla Cina è che gli Stati Uniti giochino sui propri punti di forza. Ad esempio, se gli Stati Uniti sono seri nel rafforzare le relazioni economiche Usa-Africa, dovrebbero concentrarsi sulle esigenze economiche africane e sui driver economici interni degli stessi Stati Uniti, invece di correre dietro ai prestiti. Potrebbero, per esempio, più facilmente espandere accordi commerciali popolari come l’African Growth and Opportunity Act (Agoa) o il Generalized System of Preferences (Gsp) a vantaggio sia degli esportatori africani che delle famiglie americane” (l’articolo originale su Foreign Policy, sintetizzato in italiano da Formiche).
Per capire il contesto, va ricordato che Washington ha rimosso Uganda, Niger, Gabon e la Repubblica dall’Agoa per violazioni dei diritti umani.
La Global Gateway e i “giochi di potere”
Nel frattempo, a tre anni dal lancio, la Global Gateway, la “nuova via della seta europea”, stenta ancora a prendere forma. Non solo non è in grado di rivaleggiare con l’originale cinese in termini di investimenti. Secondo uno studio realizzato da vari think tank, è l’approccio ad essere sbagliato: “Nel continente africano – recita la ricerca – la competizione UE-Cina è fortemente percepita come un ‘gioco di potere’ tra due forze rivali che potrebbero, in futuro, avere un impatto negativo sulle società africane. Collegare i partenariati di sviluppo alle preoccupazioni economiche e di sicurezza dell’UE implica in effetti che i partenariati di sviluppo nell’ambito del GG siano influenzati da pregiudizi strategici”. Ciononostante gli autori sostengono che il progetto – che nel 2023 contava 90 progetti con altri 138 previsti entro la fine dell’anno – sarà un successo in futuro.
Le isole Chagos e l’ossessione americana per la Cina
Dopo una lunga contesa durata quasi sessant’anni, il Regno Unito ha riconosciuto la sovranità di Mauritius sull’arcipelago delle Chagos, situato a 3.000 chilometri dalla costa africana. L’accordo ha tuttavia già suscitato diverse preoccupazioni negli Stati Uniti, che dagli anni ’70 hanno una base militare sull’isola maggiore Diego Garcia. Ad oggi Mauritius ha avviato 47 iniziative di finanziamento allo sviluppo con la Cina. Il timore a Washington è che Pechino riesca a sfruttare la presenza nel paese per condurre operazioni di spionaggio nell’arcipelago. In tutta risposta il governo di Mauritius ha assicurato che l’accordo include apposite garanzie per impedire alla Cina di mettere piede nelle isole Chagos. La Diego Garcia peraltro rimarrà britannica per almeno 99 anni. Resta da notare come la Repubblica di Maurizio sia l’unico paese africano – insieme a Eswatini – a non aver aderito alla Belt and Road cinese. tanto che, secondo Nosmot Gbadamosi, a trarre vantaggio dalla cessione sarà invece soprattutto l’India, alleata di Washington, che “ha svolto un ruolo silenzioso ma importante sullo sfondo”.
Rimuginando sul FOCAC
Calato il sipario sul forum, serviranno mesi, forse anni, prima di poter valutare la concretezza delle promesse cinesi. Dagli annunci è comunque già possibile trarre alcune conclusioni. Per Eric Olander di TCGSP, i 51 miliardi di dollari stanziati da Pechino non sono molti considerato che in Africa ci sono oltre 53 Stati. Secondo l’esperto è probabile che a beneficiare dei finanziamenti saranno circa 10-15 paesi, di cui cinque sei a ottenere la fetta più consistente. Se si restringe il cerchio agli IDE, il numero verosimilmente scende a includere solo le economie più solide, come Sudafrica, Nigeria, e Marocco.
Chris Alden e Lukas Fiala di LSE Ideas si sono invece concentrati sugli aspetti simbolici. La Cina è emersa come una “grande potenza esterna in Africa, allontanandosi dal suo status un tempo eccezionale di paese in via di sviluppo e cercando un nuovo linguaggio per riformulare il suo impegno”. In quest’ottica – dicono i due esperti – si inserisce una visione più “conflittuale” del FOCAC che quest’anno ha fatto da sfondo a condanne molto esplicite nei confronti dell’occidente e del passato coloniale. Allo stesso tempo la decisione di descrivere i rapporti con tutto il continente in termine di “all-weather” (aggettivo riservato solo a pochi “alleati” come il Pakistan) e “new era”, secondo Fiala, svela il tentativo di aggiornare la retorica ufficiale al fine di “promuovere una coalizioni nel Sud del mondo nel contesto della competizione con gli Stati Uniti”.
Questa visione riecheggia nelle parole del ministro degli esteri Wang Yi che sulla rivista teorica Qiushi spiega che “il nuovo posizionamento delle relazioni Cina-Africa esprime la ferma volontà di Cina e Africa di rispondere congiuntamente ai cambiamenti mai visti in un secolo. Per molto tempo, Cina e Africa sono state alleate naturali negli affari internazionali, dando importanti contributi alla salvaguardia degli interessi comuni e dei diritti legittimi del Sud del mondo. Attualmente, la situazione internazionale è complessa e grave, con un’egemonia unilaterale che va controcorrente rispetto alla tendenza. Il nuovo posizionamento implica maggiore responsabilità e impegno”.
Questo maggiore attivismo africano sullo scacchiere internazionale rende ormai più che necessario un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Obiettivo su cui gli sforzi di Cina e Stati Uniti una volta tanto convergono. Voice of America si chiede se invece di convergere alla fine gli interessi delle due superpotenze finiranno per collidere.
Il FOCAC secondo l’opinione pubblica cinese
Per quanto poco considerata, anche l’opinione pubblica cinese ha espresso il proprio giudizio sul forum. Dopo aver analizzato centinaia di thread su portali di notizie e social network, TCGSP ha evidenziato tre temi ricorrenti: a cominciare dai dubbi ritorni economici per la Cina. A fronte dei 51 miliardi stanziati da Pechino, molti utenti hanno espresso preoccupazione sul futuro dei prestiti cinesi, soprattutto considerato l’elevato indebitamento dei paesi africani. Critiche anche per la politica degli aiuti internazionali, che priva la Cina di risorse utilizzabili per combattere la povertà e migliorare le proprie infrastrutture.
C’è infine chi ha espresso poca fiducia nei confronti dei leader africani, che potrebbero sfruttare i finanziamenti cinesi per scopi personali anziché per il bene del proprio paese. Degna di nota è una generale disillusione nei confronti dell’obiettivo perseguito da Pechino, Secondo diversi commentatori, piuttosto che puntare ad assistere i partner africani, la dirigenza cinese ambisce a strumentalizzare gli aiuti economici per consolidare la propria influenza nel continente a scapito dei competitor occidentali.
Un altro passo avanti sul debito dello Zambia…
Lo Zambia ha raggiunto un accordo con due istituti di credito statali cinesi (China Development Bank e Industrial and Commercial Bank of China) per ristrutturare 1,5 miliardi di dollari di debito. I prestiti dovuti ai due istituti di credito cinesi costituivano il principale ostacolo al processo di risanamento del debito avviato nel 2020 dopo il default.
…ma preoccupa la scarsa trasparenza
Brent Neiman, alto funzionario del Tesoro, ha esortato il Fondo monetario internazionale a esigere dalla Cina maggiore chiarezza sui termini dei suoi prestiti. A preoccupare sono soprattutto gli accordi di swap siglati con i governi inadempienti. Questi accordi consentono ai paesi di prendere in prestito renminbi cinesi e di conservare i fondi nelle loro riserve centrali, così da poter usare le scorte in dollari statunitensi per ripagare i debiti esteri o importare prodotti. Il finanziamento avviene essenzialmente attraverso una linea di credito: il paese mutuatario scambia la propria valuta con i renminbi e accetta di pagare a Pechino un tasso di interesse normalmente elevato. I fondi in renminbi possono anche essere impiegati per ripagare le banche cinesi o acquistare merci dalla Cina. Motivo per cui il sistema – avvertono gli esperti – rischia di aumentare la dipendenza dei paesi già esposti ai finanziamenti cinesi. Negli ultimi anni Pechino ha concesso oltre 200 miliardi di dollari in prestiti di emergenza.
L’India avanza in Kenya
L’aeroporto di Nairobi, in Kenya, si è trasformato in uno dei fronti caldi della partita tra grandi potenze in Africa. Qui il gruppo indiano Adani, di proprietà dell’omonimo imprenditore Gautam, è pronto a investire 1,85 miliardi di dollari in cambio della concessione trentennale dello scalo. Nella notte tra il 10 e l’11 settembre l’Unione dei lavoratori aeroportuali del Kenya ha avviato uno sciopero che ha completamente paralizzato lo scalo, tra i primi dieci in Africa in termini di traffico passeggeri. Il sindacato sostiene che l’accordo con Adani porterebbe a licenziamenti e a un peggioramento delle condizioni di lavoro. Le critiche all’accordo, però, non si fermano qui: secondo gli oppositori, la concessione dell’aeroporto di Nairobi al gruppo Adani priverebbe lo Stato keniota di profitti che, ad oggi, costituiscono circa il 5% del Pil.
Lo scorso maggio il presidente keniota William Ruto è stato il primo leader africano invitato alla Casa Bianca in 15 anni. Nell’occasione, il presidente Joe Biden ha nominato il Kenya “maggior alleato non-Nato”, attribuzione che consentirà a Nairobi di accedere a prestiti nel settore della difesa, programmi di addestramento e attrezzature militari sofisticate di produzione statunitense. A giugno un rapporto dell’Ufficio nazionale di statistica di Nairobi segnalava come l’India abbia ormai superato la Cina quale principale investitore straniero in Kenya. Due anni fa era stato lo stesso Gautam Adani, presidente del gruppo, ad anticipare gli sviluppi attuali. “Prevedo che la Cina, che a lungo è stata vista come campione della globalizzazione, si sentirà sempre più isolata. L’incremento del nazionalismo, la mitigazione dei rischi nelle catene di fornitura globali, le restrizioni alle tecnologie avranno un impatto”, aveva detto il tycoon indiano.
Droni al generale Haftar
Secondo quanto affermato dalla polizia canadese, funzionari statali cinesi avrebbero cospirato per inviare 42 droni al generale libico Khalifa Haftar, avvalendosi di funzionari corrotti delle Nazioni Unite come intermediari. L’accordo (da 1 miliardo di dollari) proverebbe che “il governo cinese sembra aver approvato una strategia per aiutare la Libia nell’approvvigionamento e nella consegna di equipaggiamento militare tramite aziende designate e approvate per oscurare il coinvolgimento diretto delle agenzie governative”. Le accuse sono contenute in documenti giudiziari presentati a Montreal e relative a un caso di presunta cospirazione che coinvolge due cittadini libici impiegati in Canada presso l’Organizzazione internazionale per l’aviazione civile, un’agenzia delle Nazioni Unite. Non è chiaro se l’intesa su cui stanno indagando le autorità canadesi sia collegata all’intercettazione dei droni sequestrati in Italia a luglio.
Wagner Group al volante
Per anni le forniture militari cinesi in Africa sono state trainate dalle armi leggere. Ora l’export comincia a diventare più vario con l’annuncio della vendita di caccia e veicoli blindati. Trend a cui sembra contribuire il ripiegamento dell’industria bellica russa a causa della guerra in Ucraina. Tanto che negli ultimi anni la Cina è diventata la prima fonte di armamenti per l’Africa sub-Sahariana. A beneficiarne anche i mercenari di Wagner Group (ora Africa Corps). Lo scorso luglio, il gruppo russo ha subito pesanti perdite nel Mali settentrionale, durante un’imboscata dei ribelli Tuareg. Foto e video pubblicati sui social media dagli insorti mostrano trofei di guerra e immagini dei combattenti russi uccisi in azione, con sullo sfondo diversi veicoli blindati VP11 MRAP forniti dalla Cina all’esercito maliano e prodotti dall’azienda statale cinese Norinco. Secondo Janes, ormai sette paesi africani su dieci comprano mezzi militari dalla Repubblica popolare.
L’Egitto ha deciso di acquistare i caccia cinesi J-10C Vigorous Dragon per sostituire la sua vecchia flotta di F-16 Fighting Falcon di fabbricazione statunitense, diventando così il secondo paese, dopo il Pakistan, a operare con questi caccia di generazione 4.5. Pur avendo ricevuto l’offerta degli F-16V aggiornati dagli Stati Uniti, l’Egitto parrebbe aver optato per i J-10C, ritenuti superiori in termini di capacità e costo comparabile.
L’Y-20, un aereo da trasporto multiruolo dell’Aeronautica militare dell’Esercito popolare di liberazione (PLAAF) è stato esposto durante l’Africa Aerospace and Defence Exhibition (AAD 2024), la più grande esposizione aerospaziale dell’Africa, tenutasi dal 18 al 22 settembre presso la base aerea di Waterkloof vicino a Pretoria. Sempre in Sudafrica la Marina cinese ha inviato la fregata CNS Xuchang per partecipare al South African Navy Festival, dove è arrivata anche la russa Neustrashimy.
Mentre le forniture cinesi sono sempre più presenti nel continente, secondo Alessandro Arduino del King’s College, Pechino, tuttavia, ha dimostrato l’intenzione di mantenere il suo vantaggio militare limitando le vendite dei modelli più avanzati del suo arsenale. Nel luglio 2024, la Cina ha ampliato le restrizioni all’esportazione di vari droni e componenti correlate con potenziali applicazioni militari, rafforzando i controlli introdotti per la prima volta l’anno scorso sulle vendite di UAV. La Cina sta anche cercando di evitare di rimanere invischiata in controversie locali come è successo con la vendita di droni armati alla RDC, che ha causato tensioni con il Ruanda.
Taiwan corteggia il Somaliland, Eswatini vacilla
Taiwan procederà a una donazione di due milioni di dollari alla Commissione elettorale nazionale (Nec) del Somaliland a sostegno delle presidenziali del 13 novembre prossimo. Lo ha annunciato il rappresentante taiwanese nell’autoproclamata repubblica separatista della Somalia, Allen Lou, citato dal quotidiano Taiwan News. Il Somaliland “è un faro di democrazia nell’Africa orientale”, ha affermato Lou, ricordando che Taiwan ha donato due milioni di dollari anche nel 2021, contribuendo così all’acquisto di 2.500 set del sistema di verifica biometrica dell’iride in occasione delle elezioni locali e presidenziali. A quanto riferito da Lou, gli stessi sistemi saranno utilizzati in sei città durante le votazioni del mese prossimo.
Intanto la Cina sta rafforzando i suoi interessi commerciali ed economici in Eswatini, l’ultimo alleato africano di Taiwan. L’ambasciatore taiwanese in Eswatini, Jeremy Liang, ha detto a Semafor Africa che “un numero significativo di cittadini cinesi” si sta riversando nel piccolo paese e col tempo questo trend “minerà” il rapporto speciale tra Taipei e il regno. Una delegazione guidata dal capo dell’autorità mineraria locale, Guduza Dlamini, si è recata in Cina con un importante uomo d’affari locale alla fine del 2023, presumibilmente per coinvolgere investitori cinesi e tracciare una strada per l’instaurazione di relazioni diplomatiche.
“L’epoca dell’eccesso illusorio”
Diciamocelo: l’Africa non è esattamente il primo posto dove un giovane cinese aspira a trasferirsi dopo la laurea. Cao Fengze, ex studente della prestigiosa Tsinghua University molto attivo su Zhihu (知乎), il Quora cinese, è l’eccezione che conferma la regola. Fred Gao su Substack ha tradotto in inglese alcune sue riflessioni pubblicate sulla rivista Wenhua Zonghen (“Il salvataggio reciproco in un’epoca di eccessi illusori”). Cao, che vive da tre anni in Africa, si interroga sul perché, nonostante le abbondanti risorse naturali, il continente non sia stato ancora in grado di emanciparsi dalla povertà:
“I vasti paesi del Terzo Mondo, rappresentati dalle nazioni africane, hanno oggettivamente un bisogno urgente di risorse per la sopravvivenza, ma poiché non controllano direttamente i mezzi di produzione, non possono determinare la produzione sociale e non possono guidare i propri destini. Nella maggior parte dei paesi africani, la classe d’élite e i gruppi dominanti spesso dipendono pesantemente dai paesi sviluppati occidentali, in particolare dalle ex potenze coloniali. Aiutano queste ex potenze coloniali a ottenere risorse come minerali: così le ex potenze coloniali ottengono i benefici primari, mentre i paesi africani ottengono benefici secondari. Le ex potenze coloniali sono responsabili di fornire protezione e supporto alla classe d’élite e al gruppo dominante. Dopo la fine del loro dominio, però questo establishment africano spesso sceglie di emigrare nelle ex potenze coloniali, trasferendo con loro quella ricchezza. Sebbene le relazioni coloniali nominalmente non esistano più, in realtà continuano attraverso schemi consolidati. Questa ricchezza, sia che finisca nelle mani delle ex potenze coloniali sia che vada ai gruppi dominanti locali, non può comunque essere trasformata in ricchezza nazionale né può contribuire alla riproduzione del paese e naturalmente non può essere utilizzata per soddisfare le esigenze di sopravvivenza e sviluppo della gente comune”.
La soluzione? Secondo Cao, smettere di dare all’Africa aiuti materiali e cominciare a investire nel settore industriale locale. Solo così il continente otterrà i mezzi di produzione per poter controllare il proprio destino.
Non sono molti i talenti a lasciare la Cina per l’Africa, ma sono sempre di più i cinesi ad essere incuriositi dal continente. Secondo la piattaforma di viaggi Qunar, durante la festa nazionale del 1 ottobre è stata registrata una crescente domanda di prenotazioni per destinazioni di “nicchia”, compresi i paesi africani.
A cura di Alessandra Colarizi
Per chi volesse una panoramica d’insieme, in libreria trovate “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.