Africa

Africa Rossa – In attesa del Piano Mattei, la Cina si allarga in Africa

In Africa Rossa, Cina, Relazioni Internazionali by Alessandra Colarizi

Il Piano Mattei prenda forma: venticinque capi di Stato e di governo, i vertici europei da Ursula von der Leyen a Roberta Metsola, rappresentanti dell’Onu, della Fao e del Fondo monetario. È un parterre decisamente ricco quello che, tra domenica 28 e lunedì 29 gennaio, sarà protagonista a Roma della prima conferenza di alto livello Italia-Africa. Convitato di pietra la Cina, che nel continente è presente in maniera massiccia da oltre venti anni. Nell’ultima puntata della rubrica Africa rossa ci siamo soffermati sul modo in cui sta cambiando la strategia africana di Pechino, oltre a fornire una panoramica delle notizie più importanti dal continente. 

  • LA CINA SI ALLARGA IN AFRICA
  • GAZA E LA RESURREZIONE DEI NON ALLINEATI
  • LA CAUTELA DI PECHINO NELLO SCIVOLOSO CASO DEL SOMALILAND 
  • IL DEBITO AFRICANO E “L’EQUA CONDIVISIONE DEGLI ONERI”
  • IL 2024, L’ANNO DELLA SVOLTA?
  • PECHINO CONTESTA LA NARRAZIONE DEL CALO DEGLI INVESTIMENTI
  • SEMPRE PIÙ AFRICA NELL’AIIB 
  • LO YUAN, UN SALVAGENTE CONTRO IL DOLLARO
  • DALLA TAZARA AL CORRIDOIO DI LOBITO
  • L’UGANDA SEMPRE PIÙ NELL’ORBITA CINESE
  • STAR WARS IN AFRICA
  • TSHISEKEDI II RIPARTE DALLE MINIERE CINESI
  • ETIOPIA, FINE DELLA STORIA (DI SUCCESSO)
  • DALLA “DIPLOMAZIA DEI DOLLARI” ALLE GUANGXI POLITICHE E MILITARI 

Come da trent’anni a questa parte, anche nel 2024 il ministro degli Esteri cinese ha scelto l’Africa come primo viaggio dell’anno. Tra elementi di continuità con il passato, ma anche importanti novità, la recente missione di Wang Yi in Egitto, Tunisia, Costa d’Avorio e Togo dimostra come il continente – corteggiato da Mao ai tempi della guerra fredda – sia tornato a svolgere un importante ruolo politico nell’agenda cinese. Complici il ripiegamento delle potenze occidentali, gli scricchiolii della democrazia africana nonché i riverberi delle numerose crisi internazionali. Dalla guerra in Ucraina al conflitto israelo-palestinese.  

Fatta eccezione per l’Egitto, i paesi visitati da Wang tra il 13 e il 18 gennaio hanno un valore economico limitato rispetto ad altri partner africani (tantè che non è stato firmato nessun grande accordo). Si rivelano invece centrali nella nuova strategia di Pechino nella regione. Quale? Quella che vede nell’Africa un potenziale non più tanto per l’abbondanza di materie prime, quanto piuttosto per consolidare l’influenza cinese a livello geostrategico in un’area del mondo sempre più decisiva nella competizione con l’Occidente: ago della bilancia in sede Onu, centro nevralgico della lotta al terrorismo islamico, ma anche snodo logistico tra Atlantico e Oceano Indiano. 

Mentre prassi vuole che le missioni diplomatiche cinesi seguano un turnover geografico, spicca subito il crescente interesse di Pechino per il Nordafrica e l’Africa occidentale: per il secondo anno di fila ecco che l’Egitto si riconferma tappa del viaggio inaugurale. Avamposto per i commerci nel Mediterraneo, per la Cina, il paese sul canale di Suez funge anche anello di congiunzione con il mondo arabo. Ed è mediatore attivo nei processi di pace in corso in Medio Oriente dove, dopo il negoziato tra Iran e Arabia Saudita, Pechino prova a proporre una propria “pax sinica”. Dal Cairo Wang ha condannato i bombardamenti di Stati Uniti e Regno Unito contro le basi degli Houthi in Yemen. In Tunisia ha auspicato l’affermazione di “un mondo multipolare”; appello tanto più eloquente se intonato da una democrazia in frantumi che l’Ue stenta a supportare. Mentre, in Togo, gli inviti del diplomatico cinese al “rispetto della sovranità” sono stati ricambiati dalla “dinastia” Gnassingbé con un endorsement al principio dell’”unica Cina”.

Non è un caso se la fratellanza Sud-Sud passa sempre più spesso per l’Africa francofona. La Cina aiuterà i paesi emergenti interessati a “esplorare percorsi di sviluppo adatti alle loro condizioni nazionali”, ha affermato Wang a Lomé bacchettando tra le righe l’ingerenza delle vecchie potenze imperialiste. Ma la conclamata solidarietà di Pechino nel continente ha un limite evidente. Non è solo per annacquare l’influenza francese se l’attenzione della Cina si è spostata sull’Africa occidentale: il quadrante gode di una migliore situazione creditizia rispetto ad altre aree interessate dal cosiddetto “neocolonialismo” cinese. 

Dopo aver concesso per vent’anni prestiti facili, oggi il gigante asiatico è più cauto quando investe all’estero. Soprattutto quando lo fa in zone del mondo note per la loro instabilità. Così, sospese le grandi ferrovie nel Corno d’Africa, aumentano invece i progetti portuali cinesi in Costa d’Avorio, dove la crescita del Pil si è mantenuta intorno al 6% malgrado le tensioni politiche. D’altronde, il Golfo di Guinea si presta all’ampliamento di scali commerciali. Ma anche alla potenziale apertura di un’altra struttura militare complementare alla base di Gibuti sulla costa orientale. Avamposto che permetterebbe a Pechino di osservare da vicino (ma non troppo) gli sviluppi turbolenti nel Sahel dopo il ritiro delle truppe francesi.

Per ovvie ragioni il protagonismo della Cina nell’occidente africano non irrita soltanto la Parigi. Anche gli Stati Uniti osservano con preoccupazione l’espansione della presenza cinese verso l’Atlantico. Rompendo la tradizione, la missione di Wang è proseguita in Brasile e Giamaica. Segno di come, se fino a poco tempo fa l’attrazione per la regione del Corno rispondeva alle mire cinesi verso l’Oceano indiano, il riposizionamento della Cina nell’Africa occidentale rispecchia la crescente proiezione verso l’America Latina. La Cina si allarga in Africa, ma è al Sud globale che parla.

GAZA E LA RESURREZIONE DEI NON ALLINEATI

A confermarlo la presenza del vicepremier, Liu Guozhong, al 19esimo vertice del Movimento dei Non Allineati, ospitato dall’Uganda dal 15 al 24 gennaio, nonché al terzo summit del G77.  Da Kampala, Liu ha rinnovato l’auspicio di una riforma per rendere più inclusivi gli istituti multilaterali, come la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale (Fmi) ancora controllati in buona parte dagli Stati Uniti. Il vicepremier tuttavia ha affermato che, sebbene la “crescita collettiva” dei paesi del Sud globale sia “inarrestabile”, l’impatto del vecchio “ordine economico e politico internazionale rimane”. 

Questo è quello che pensa la Cina, ma cosa pensano invece i partner africani? A questo proposito ChinaMed segnala l’importanza attribuita dai media egiziani al pressing diplomatico di Pechino in Medio Oriente, in particolare rispetto alla crisi israelo-palestinese. Alle nostre latitudini si tende a raccontare il recente attivismo cinese nel mondo arabo come “un’ingerenza” esterna. In realtà la visione cinese trova ampia condivisione tra i paesi della regione, che anzi apprezzano la capacità con cui il gigante asiatico attribuisce alle loro istanze un “effetto megafono” in virtù del proprio peso internazionale. Da notare come la decisione del Sud Africa di trascinare Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia per “condotta genocida” è stata accolta positivamente dagli analisti cinesi.

Politica e propaganda a parte, la guerra a Gaza sta avendo effetti dirompenti sui commerci tra Cina ed Europa. A farne le spese è anche il Marocco, diventato da qualche tempo un importante hub per la produzione automobilistica cinese verso il mercato europeo e americano, grazie alla sua collocazione geografica nonché alla firma di accordi di libero scambio sia con l’Unione Europea che con gli Stati Uniti. A causa degli attacchi nel Mar Rosso, i prezzi per il trasporto di container dal Nordafrica alla Cina (e viceversa) a metà dicembre risultavano già aumentati tra il 60 e il 100%. 

LA CAUTELA DI PECHINO NELLO SCIVOLOSO CASO DEL SOMALILAND 

Ribadendo il proprio sostegno “alla sovranità e all’integrità territoriale”, Pechino cerca di mantenersi neutrale nel controverso caso dell’accordo tra Etiopia e Somaliland, che garantisce alla prima l’accesso ai porti del secondo in cambio del riconoscimento dell’indipendenza di Hargeisa. Il ministero degli Esteri cinese si è appellato alla “Carta delle Nazioni Unite” aggiungendo che il Somaliland (stato indipendente dell’Africa orientale senza alcun riconoscimento della comunità internazionale) fa parte della Somalia. La Cina si trova in una posizione scivolosa: gli interessi economici cinesi in Etiopia superano di gran lunga quelli in Somalia. Ma avallare l’intesa tra Addis Abeba e Hargeisa rischierebbe di legittimare indirettamente l’indipendenza di Taiwan. 

L’analisi di Nova Agenzia: “Il memorandum rappresenta infatti uno scacco anche alla Cina, che pure conserva strettissime relazioni economiche e commerciali con Addis Abeba. In tal senso, un avvicinamento dell’Etiopia al Somaliland, ovvero a uno Stato non riconosciuto da Pechino ma che a sua volta vanta relazioni diplomatiche con Taiwan [l’apertura dei rispettivi uffici di rappresentanza nel 2020 non implica l’instaurazione di relazioni diplomatiche. Eswatini è l’unico paese africano cui Taipei ha rapporti ufficiali, ndr], non può certo esser visto di buon occhio dal colosso asiatico. A maggior ragione se si considera che l’accordo consente ad Addis Abeba di bypassare il vicino Gibuti, paese nel quale è presente l’unica base militare cinese operante all’estero, inaugurata nel 2017. Per Addis Abeba, d’altro canto, l’accesso al mare è un obiettivo strategico se inquadrato nel rilancio dell’iniziativa della Nuova via della seta (Belt and road Initiative – Bri), il maxi progetto infrastrutturale promosso dalla Cina e a cui l’Etiopia non intende rinunciare. Senza porti di sua competenza, Addis Abeba rischia infatti di rimanere tagliata fuori da un progetto strategico per la sua economia e, più in generale, di veder indebolita l’influenza da esercitare sulla regione in campo infrastrutturale.”

L’episodio sancisce un parziale riavvicinamento tra Pechino e Mogadishu, uno dei pochissimi governi africani ad aver preso in passato posizioni molto critiche nei confronti delle politiche etniche cinesi nel Xinjiang. Ma allo stesso tempo dimostra le difficoltà fronteggiate dal governo cinese, da una parte sempre più incline a proporre nuove soluzioni alle crisi globali, dall’altra restio ad abbandonare la tradizionale politica della non interferenza. Tra vari tentennamenti a metà dicembre Xue Bing, inviato speciale per il Corno d’Africa, è stato in Etiopia – Tigray compreso – dove non solo ha ribadito la disponibilità di Pechino a partecipare alla ricostruzione nazionale dopo anni di guerra civile. Ha anche sottolineato l’importanza di organizzare un’altra conferenza di pace. Ma considerato il dubbio successo della prima (presieduta dalla Cina nel giugno 2022 ad Addis Abeba) non stupisce che l’appello del diplomatico sia stato largamente ignorato dai media, anche da quelli cinesi.

IL DEBITO AFRICANO E “L’EQUA CONDIVISIONE DEGLI ONERI”

Il 26 dicembre l’Etiopia è scivolata in default sovrano per il mancato pagamento di una cedola da 33 milioni di dollari su un’obbligazione da 1 miliardo di dollari, emessa nel 2014 e in scadenza nel dicembre del 2024. È il terzo paese africano a finire in insolvenza sul suo debito estero dallo scoppio della crisi del Covid, seguendo lo Zambia a fine 2020 e il Ghana a dicembre 2022. Il Kenya ha schivato la pallottola per un soffio. 

“La Cina continuerà a svolgere il suo ruolo di guida e di coordinamento come presidente e lavorerà con il Ghana e tutte le altre parti per raggiungere un piano di ristrutturazione che sia in linea con il principio di azioni congiunte e oneri equi”, ha dichiarato il ministero degli Esteri cinese il 10 gennaio commentando i negoziati intrapresi dal governo di Accra. Con l’espressione “equa condivisione degli oneri” la Cina – che detiene solo una minima parte del debito ghanese – sembra ribadire la necessità di una diversa ripartizione delle perdite. Richiesta che ha complicato i precedenti processi di rinegoziazione del debito. 

Caso da manuale è quello dello Zambia, il primo paese africano ad aver dichiarato default dopo l’inizio della pandemia. Il 20 novembre scorso il Fondo monetario internazionale (Fmi) aveva raggiunto un accordo preliminare con Lusaka, anticipando l’erogazione di altri 184 milioni di dollari. Ma pochi giorni dopo Cina e Francia – due dei principali creditori – si sono opposte alla ristrutturazione di una prima tranche da circa 3 miliardi di dollari in obbligazioni denominate in valuta estera, bloccando di fatto i negoziati funzionali all’approvazione finale dei nuovi fondi. Il Financial Times ha pubblicato una lunga analisi che spiega il cortocircuito tra i vari creditori. Riassunto: “La Cina non è disposta a sovvenzionare gli obbligazionisti privati che ritiene abbiano ottenuto accordi troppo vantaggiosi in passato (i creditori privati in particolare non hanno partecipato all’Iniziativa di sospensione del servizio del debito del G-20 del 2020). Allo stesso tempo, i tradizionali istituti di credito bilaterali non sono disposti a sovvenzionare i prestiti cinesi che vengono percepiti come troppo spericolati.” La controversia ruota intorno al concetto di comparabilità del trattamento”, secondo il quale tutti i creditori hanno il diritto di ottenere condizioni comparabili di riduzione del debito. Tale requisito era incluso nei termini del Common Framework del G20, motivo per cui la Cina è riuscita a far naufragare l’accordo con il gruppo di obbligazionisti.

Sul Sole 24 Ore, Alberto Magnani scrive che nel 2024 il rischio di default aumenterà, con 8 economie africane già in sofferenza sul debito. “Si parla spesso della Cina. Ma i problemi nascono – anche – dall’ascesa di creditori privati e un debito espresso nelle loro valute, dollaro in testa, con costi sempre più opprimenti”, precisa Magnani. Intanto la Repubblica popolare ha le sue belle gatte da pelare. Secondo AidData, dopo venti anni di prestiti facili, gli istituti di credito cinesi devono ancora rientrare di una cifra tra i 1.100 e 1.500 miliardi di dollari, esclusi gli interessi. Circa l’80% dei finanziamenti sono stati concessi a paesi in via di sviluppo che oggi affrontano serie difficoltà finanziarie.

IL 2024, L’ANNO DELLA SVOLTA?

Complessivamente il 2024 si prospetta tuttavia piuttosto positivo per le relazioni sino-africane. Anche in vista del prossimo FOCAC, il forum Cina-Africa che si tiene con cadenza triennale e che questa volta sarà ospitato dalla città di Pechino verso la fine dell’anno. Tanto Standard Chartered Plc., quanto la società di consulenza Development Reimagined, prevedono un aumento dei prestiti cinesi in Africa per la prima volta dal 2016, anno in cui è stato sfiorato il picco dei 30 miliardi di dollari. Da quel momento è cominciata una fase decrescente pressoché inarrestabile. tanto che, secondo il think tank Green Finance & Development Center, nella prima metà del 2023 la dimensione media degli accordi BRI a livello globale è scesa a 392 milioni di dollari, il 48% in meno rispetto al 2018. Quest’anno ci si attende un rimbalzo, seppure non più ai livelli di un tempo. Come dicevamo, l’interesse della Cina è ormai direzionato verso i paesi meno indebitati dell’Africa occidentale, oltre a Tanzania, Uganda, Nigeria ed Egitto. Cambiano inoltre le modalità con cui vengono stanziati gli investimenti, sempre più con il coinvolgimento del settore privato.

Su The Diplomat, Trevor Lwere di Development Reimagined sostanzia la propria previsione per il 2024 con alcune interessanti osservazioni. Innanzitutto secondo l’esperto, “l’espansione dei prestiti esteri per le infrastrutture – in particolare per sostenere il manifatturiero africano – rimarrà fondamentale per la crescita economica a lungo termine della Cina” e pertanto in futuro “tornerà ai livelli pre-pandemici”. Spostando il focus dall’offerta alla domanda, Lwere sottolinea poi come quando si parla di Africa si tende sempre a generalizzare, mentre è bene notare che molti paesi africani non prendono prestiti dalla Cina da molto, moltissimo tempo. Per esempio l’Algeria, la quarta economia più grande del continente, ha chiesto prestiti a Pechino l’ultima volta nel 2004, il Botswana e la Tunisia nel 2010. Tuttavia – aggiunge l’analista – anche nei paesi dove le banche non hanno più concesso nuovo credito la Cina ha continuato a finanziare progetti con aiuti allo sviluppo.

Sono sottili differenze ma sufficienti a evidenziare come ci sia una tendenza a sottostimare ma anche a sovrastimare la presenza cinese in Africa. Come spiega magistralmente Cobus van Staden su The China-Global South Project, nonostante l’avanzata delle potenze emergenti, “l’Africa è bloccata nel XX secolo”. Le quattro principali fonti di investimento dal 2018 al 2022 sono Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Germania. La Cina si classifica solo al quinto posto. In una recente intervista il ministro per il Commercio estero francese ha difeso la politica africana di Parigi: “Possiamo competere ad armi pari con i cinesi e con gli altri concorrenti economici, così come dovrebbe essere”.

DALLA TAZARA AL CORRIDOIO DI LOBITO

Quando si parla di infrastrutture cinesi in Africa non si può non citare la Tazara, la ferrovia costruita da Mao che congiunge Dar es Salaam, in Tanzania, a Kapiri Mposhi, in Zambia. Si tratta tutt’oggi del progetto più grande costruito dalla Cina all’estero. Nel 2022 Pechino ha annunciato di voler riparare e acquisire il controllo sulla gestione della ferrovia entro aprile prossimo. I negoziati sembrano a buon punto, tanto che a dicembre un team di China Civil Engineering Construction Corporation (CCECC) è arrivato sul posto per condurre un’ispezione per definire “modello operativo e gestionale della ferrovia, il piano di finanziamento proposto (che vede coinvolta la China Development Bank), e le politiche fiscali locali. Per la ristrutturazione Pechino ha messo sul piatto 1 miliardo di dollari. Una cifra non astronomica rispetto a quanto investito in passato, ma comunque rilevante tenendo conto che (dovendo far fronte all’indebitamento dei partner) nel 2022 la Cina non ha finanziato alcun nuovo progetto ferroviario in Africa. A questo proposito vale la pena ricordare quanto affermato da Xi a settembre durante la visita del presidente dello Zambia Hakainde Hichilema a Pechino: “La Cina è disposta a sostenere l’ammodernamento e la trasformazione della ferrovia Tanzania-Zambia” purché “in conformità con i principi commerciali e di mercato“. Ergo, stavolta la “solidarietà Sud-Sud” di epoca maoista c’entra poco. La Cina possiede già diverse miniere in Zambia e nella Repubblica Democratica del Congo. Potenziare i collegamenti verso le coste della Tanzania servirà ad aumentare l’importazione di materie prime africane. 

La Repubblica popolare non è l’unico paese ad aver messo gli occhi sulla ferrovia. Come rimarcato su X dall’ambasciata americana a Lusaka, “sebbene la Cina abbia finanziato la costruzione della Tazara, sono stati gli Stati Uniti a mantenerla in funzione fornendo “una sostanziale assistenza tecnica”, oltre che con l’esborso di oltre 45 milioni di dollari per l’acquisto di “nuove locomotive e materiale rotabile”. 

Il braccio di ferro tra Pechino e Washington sulle infrastrutture africane non interessa solo la Tanzania-Zambia Railway. La sovrapposizione tra capitali cinesi e americani è riscontrabile anche nel cosiddetto corridoio di Lobito, un sistema di infrastrutture destinate a collegare la parte meridionale della RDC e la parte nord-occidentale dello Zambia ai mercati commerciali regionali e globali attraverso il porto di Lobito, in Angola. Quindi non solo uno strumento per il potenziamento dei trasporti, ma anche per veicolare in maniera più efficace alcune materie prime critiche abbondanti sia in Zambia che in Congo. A settembre, durante il G20 indiano Stati Uniti e Ue hanno stanziato 1 miliardo di dollari in progetti ferroviari e logistici. Il Wall Street Journal ha contestualizzato il recente attivismo statunitense in Angola nell’ambito della politica “multivettoriale” portata avanti da João Lourenço che, assunta la presidenza nel 2017, ha invertito la linea marcatamente filocinese del predecessore José Eduardo dos Santos. Secondo il quotidiano finanziario, i lavori di manutenzione delle vecchie ferrovie non hanno soddisfatto Luanda, che nel 2022 ha declinato la candidatura dell’azienda di investimenti cinese Cic a favore di un consorzio euro-americano. C’è un però: una delle aziende coinvolte è portoghese ma vanta nell’azionariato una consistente partecipazione cinese.

Il coinvolgimento di Washington è duplice: oltre ad aver destinato (attraverso l’International Development Finance Corporation) 250 milioni di dollari per rinnovare la Lobito Atlantic Railway – che attraversa l’Angola da est a ovest – l’intesa con l’Unione Europea prevede la costruzione di una nuova linea ferroviaria di 800 km per collegare il paese allo Zambia. Non serve troppa immaginazione per capire da chi hanno preso spunto gli americani. Secondo Lina Benabdallah della Wake Forest University, le autorità statunitensi stanno attingendo generosamente alle modalità di cooperazione adottate dalla Cina nel quadro del FOCAC. 

La Cina ha un vantaggio difficile da eguagliare, avendo già costruito in Africa “6.000 chilometri di ferrovie e 6.000 chilometri di strade”. Peraltro, mentre l’amministrazione Biden ha mostrato una maggiore predisposizione per la cooperazione economica, lo zoccolo duro della presenza statunitense nel continente rimane la sicurezza. Lo ha ribadito il segretario di Stato Antony Blinken, in visita  proprio questa settimana in quattro paesi dell’Africa occidentale (che coincidenza!), compresa la Costa d’Avorio (coincidenza davvero incredibile!). Qui ha promesso 45 milioni di dollari in finanziamenti aggiuntivi per portare stabilità nell’Africa occidentale, dove le insurrezioni jihadiste sono in costante aumento. Quella di Blinken è la quarta visita in Africa dall’inizio della presidenza Biden e segue quella effettuata lo scorso settembre dal segretario alla Difesa, Lloyd Austin, in Angola.


PECHINO CONTESTA LA NARRAZIONE DEL CALO DEGLI INVESTIMENTI

Contestando la narrazione del calo degli investimenti cinesi, a ottobre il ministero degli Esteri cinesi ha pubblicato un report sul tema. Secondo i dati di Pechino, nei primi sei mesi del 2023 la Cina ha effettuato oltre 1,8 miliardi di dollari di investimenti diretti in Africa, pari a un aumento su base annua del 4,4%. Una somma a cui andrebbero aggiunti oltre 400 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali. Nel rapporto viene rimarcato un calo di interesse per i settori tradizionali – come l’edilizia e l’estrazione mineraria – a vantaggio dei settori emergenti quali la logistica, l’economia digitale e l’energia verde.

LO YUAN, UN SALVAGENTE CONTRO IL DOLLARO

A novembre, durante l’ultimo Belt and Road Forum, il presidente Xi Jinping lo ha detto chiaramente: la Cina prevede di utilizzare la BRI per promuovere l’utilizzo dello yuan a livello internazionale e “incoraggerà un maggiore utilizzo” della propria moneta “negli investimenti esteri da parte delle istituzioni finanziarie”. Ecco che Pechino si prepara alla possibile imposizione di sanzioni americane, si dirà. Tutto vero. Eppure va notato come la diffusione della moneta cinese sia percepita dai paesi partner in chiave win-win, non come un’imposizione esterna per fini utilitaristici. Per esempio, l’anno scorso l’Egitto ha emesso i primi panda bond per far fronte alla carenza di valuta forte. Il Kenya sta pensando di fare lo stesso. Secondo gli esperti, utilizzare lo yuan serve ad attenuare i rischi legati al dollaro americano. “Se la Federal Reserve avesse aumentato i tassi in modo significativo e il dollaro si fosse rafforzato, l’Egitto e lo Zambia sarebbero stati molto esposti”, ha spiegato al SCMP Charlie Robertson di FIM Partners. Un pronostico? Secondo Robertson, “in futuro, la Fed conterà un po’ meno e la Banca popolare cinese un po’ di più”.

 

SEMPRE PIÙ AFRICA NELL’AIIB 

Lunedì 15 gennaio il governo del Kenya ha approvato l’adesione all’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), l’istituto di credito lanciato da Pechino nel 2016 per supportare la BRI e fornire ai paesi emergenti un’alternativa alla Banca Mondiale. “Rafforzare la cooperazione regionale e la connettività attraverso l’economia verde” è uno degli obiettivi citati dal governo keniota al momento dell’annuncio. Finora, 13 paesi africani sono diventati membri della banca, sebbene solo tre – Egitto, Ruanda e Costa d’Avorio – abbiano ricevuto finanziamenti. Con 1,27 miliardi di dollari per sei progetti, al momento l’Egitto è il maggiore beneficiario del continente.

TSHISEKEDI II RIPARTE DALLE MINIERE CINESI

Sabato 20 gennaio 2024, il presidente della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi, ha prestato giuramento per un secondo mandato quinquennale, dopo aver largamente vinto (non senza polemiche) le elezioni dello scorso 20 dicembre. Tra le prime affermazioni rilasciate da Tshisekedi spicca il presunto negoziato con Pechino per un finanziamento da 7 miliardi di dollari da destinare allo sviluppo dei giacimenti congolesi Ultimo atto del faticoso accordo con cui il nuovo vecchio leader punta a strappare condizioni più favorevoli rispetto a quelli concordate originariamente dal predecessore. L’intesa firmata da Joseph Kabila nel 2008 prevedeva 3 miliardi di dollari in progetti infrastrutturali ripagati alla Cina con i proventi dell’estrazione di rame e cobalto. Il 28 gennaio le aziende cinesi coinvolte nel progetto hanno confermato il nuovo importo dell’investimento, sebbene la struttura della partecipazione nella joint venture rimarrà invariata. Tshisekedi aveva spinto per aumentare la quota del governo congolese dal 32 al 70%.

The China-Global South Project ha intervistato Geraud Neema, editor di CGSP Africa, per tentare di capire come la riconferma di Tshisekedi influirà sugli interessi minerari della Cina in Congo. 

  • “Credo che la Cina debba preoccuparsi maggiormente della situazione della sicurezza nella regione del Katanga. Recentemente, il governo centrale ha inviato truppe militari nella regione temendo minacce alla sicurezza – disordini sociali e militari – nella regione all’indomani delle elezioni”.
  • “Una cosa è certa: [Tshisekedi] ha espresso la volontà di vedere diversi attori entrare nel settore minerario della RDC. Quindi, ci aspettiamo che sempre più paesi del Medio Oriente, degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita diventino sempre più presenti in quel settore nella RDC”.
  • “L’approccio del presidente Tshisekedi al settore minerario nel suo complesso dipenderà dalla sua agenda politica”. Se si candiderà a un terzo mandato “dovrà acquistare lealtà attraverso il clientelismo, il che significa più malgoverno nel settore minerario le cui entrate alimentano l’apparato politico. In tale contesto, potrebbe fare più affidamento sulle aziende cinesi”. 

Non è rinomata quanto le miniere di cobalto congolesi, ma è ugualmente di importanza strategica: stiamo parlando di Simandou, una catena montuosa nella foresta della Guinea sud-orientale, dove è localizzata la più grande riserva al mondo di minerale di ferro di alta qualità. Da tempo la Cina – che dipende dalle forniture dell’Australia – punta a metterci le mani sopra, ma l’instabilità politica del paese e il deficit infrastrutturale hanno ritardato i lavori di estrazione. Ora sembra veramente tutto pronto: entro il 2024 il progetto verrà avviato da un consorzio che comprende l’australiana Rio Tinto, il governo guineano e almeno altre sette aziende, di cui cinque cinesi. Secondo gli esperti non è un caso che il gigante cinese dell’acciaio Tsingshan Holding Group stia costruendo contestualmente uno stabilimento siderurgico da 1 miliardo di dollari nello Zimbabwe.

Il binomio Cina-mining fa sempre molto parlare. E quasi mai bene. La comunità diasporica cinese ha le sue belle responsabilità nell’alimentare la cattiva fama del paese in Africa. Caso da manuale è quello dell’imprenditrice cinese Aisha Huang, condannata a dicembre a quattro anni e mezzo di carcere l’Alta Corte di Accra (Ghana). L’accusa è di estrazione mineraria illegale, reato che ai sensi di una nuova legge entrata in vigore nel 2019 le sarebbe costata tra i 15 e i 25 anni dietro le sbarre.

L’UGANDA SEMPRE PIÙ NELL’ORBITA CINESE

Da quando a maggio l’Uganda ha approvato una legislazione che punisce l’omosessualità con pene severissime – inclusa la pena di morte – i principali istituti di credito internazionali hanno chiuso i rubinetti dei prestiti al governo di Yoweri Museveni. In soccorso è corsa la Cina che negli ultimi mesi ha concesso 150 milioni di dollari per espandere la rete internet del paese, oltre ad aver cominciato a costruire (e finanziare) il controverso oleodotto dell’Africa orientale che pomperà petrolio greggio dai giacimenti del Lago Alberto, nel nord-ovest dell’Uganda, fino alla penisola di Chongoleani nel porto di Tanga, sulla costa dell’Oceano Indiano della Tanzania. Gli ambientalisti sono preoccupatissimi per i potenziali danni ambientali. Non solo con la Cina perché in realtà il 62% della pipeline è della multinazionale petrolifera francese TotalEnergies…

“Infrastrutture verdi, energia verde e trasporti verdi”. Durante il Belt and Road Forum, Xi Jinping ha utilizzato la parola “verde” innumerevoli volte. Considerati i precedenti, però, rendere il futuro della BRI ecosostenibile potrebbe non essere così facile. Secondo uno studio del Global Development Policy Center dell’Università di Boston, dal 2000 al 2022, le due principali banche di sviluppo cinesi, China Exim Bank e China Development Bank, hanno finanziato grandi investimenti energetici, superando per importo persino la Banca Mondiale. C’è solo un problema: la maggior parte dei progetti in questione riguardava l’esplorazione e l’estrazione di petrolio, carbone e gas naturale, nonché la produzione di energia convenzionale.

STAR WARS IN AFRICA

Con l’invasione russa dell’Ucraina, il rischio di un ritorno a un mondo diviso in blocchi contrapposti in stile “nuova guerra fredda” non è più un’ipotesi così remota. Da una parte c’è l’ Occidente a guida americana, dall’altra Cina e Russia, un tempo acerrime rivali, oggi si spalleggiano nella ridefinizione di un ordine internazionale in grado di rappresentare più equamente i nuovi equilibri politici ed economici mondiali. Una missione che non per nulla vanta l’endorsement del Sud globale, sempre più inclinato verso l’orbita sino-russa.

La scelta del termine astronomico non è un artificio retorico. Così come il rinnovato “bipolarismo” si esplicita ormai puntualmente in sede Onu, anche nei cieli l’asse Pechino-Mosca esercita un notevole potere attrattivo tra i paesi emergenti. Non a caso lo spazio viene considerato da molti la nuova frontiera della competizione tra vecchie e nuove potenze. E l’Africa è sempre più nel mezzo. 

A inizio dicembre l’Agenzia spaziale egiziana ha accettato di cooperare alla Stazione internazionale di ricerca lunare lanciata dalla Cina – con il sostegno della Russia – e che dovrebbe entrare in funzione intorno al 2030. L’accordo tra Pechino e Il Cairo segue di appena una settimana l’ingresso dell’Angola negli Accordi di Artemide,  insieme di principi non giuridicamente vincolanti proposti da Washington per un’esplorazione responsabile e sostenibile dello spazio.

A inizio gennaio Hong Kong Aerospace Technology Group Ltd (legato a Huawei) ha firmato un memorandum d’intesa con il governo di Gibuti per la costruzione di uno spazioporto che, se ultimato, darà al piccolo stato africano la possibilità di rivendicare un posto d’onore nell’industria spaziale globale. Si tratterebbe infatti dell’unica struttura del genere in tutto il continente: i francesi, che avevano uno spazioporto in Algeria, lo hanno abbandonato dopo l’indipendenza del paese nel 1962, mentre l’Italia ha dismesso il suo in Kenya dopo aver aderito all’Agenzia spaziale europea.

Cina investe nel cavo elettrico sottomarino tra Marocco e Regno Unito

La società statale cinese Ningbo Orient Wires & Cables, uno dei principali produttori di cavi sottomarini al mondo, ha acquisito circa l’11% del capitale della società britannica Xlinks First Limited, che sta sviluppando il mega progetto di cavi sottomarini per l’interconnessione elettrica tra Marocco e Regno Unito. Lo ha riferito il sito britannico “Tradingview”, secondo cui l’azienda cinese prevede di investire 15 milioni di sterline (circa 17 milioni di euro). L’azienda ha lanciato un progetto di cavo sottomarino che partirà dalla città marocchina di Dakhla verso il Regno Unito col sostegno del governo britannico. Xlinks punta a produrre 3,6 gigawatt di elettricità da fonti rinnovabili per fornire energia elettrica a 7 milioni di abitazioni britanniche nel 2030. 

ETIOPIA, FINE DELLA STORIA (DI SUCCESSO)

Tasse troppo alte e difficoltà a ottenere valuta estera dalle banche locali. Sono alcune delle motivazioni fornite dalle numerose aziende cinesi che recentemente hanno deciso di lasciare l’Etiopia a causa delle “cattive condizioni commerciali”, secondo un report pubblicato su WeChat dall’Africa Research Group, che attribuisce le cause all’inefficienza del governo etiope. Le notizie che arrivano dalla regione del Corno non sono solo una faccenda locale: come racconto in “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro”, l’Etiopia è stata a lungo considerata “un’indiscussa storia di successo per gli investimenti cinesi nella produzione africana. Alcune realtà, nate dalla collaborazione virtuosa tra capitali cinesi e forza lavoro locale, oggi realizzano prodotti sia per il mercato interno che per marchi statunitensi”.

DALLA “DIPLOMAZIA DEI DOLLARI” ALLE GUANXI POLITICHE E MILITARI 

Meno economia, più ideologia. Così avevamo cominciato e così chiudiamo questa puntata. Per anni si è sostenuto fosse l’ascendente economico di Pechino a spingere i partner africani su posizioni “filocinesi”. Per farla molto (troppo) semplice: la Cina investiva, l’Africa ricompensava l’aiuto appoggiando l’agenda politica di Pechino ai tavoli internazionali. Da diversi studi sembrerebbe che lo stesso obiettivo viene sempre più spesso perseguito grazie alle guanxi (i contatti personali) anziché con gli yuan. Questi contatti non necessariamente vengono coltivati attraverso canali ufficiali. D’altronde, l’informalità è di casa in Cina. Prendiamo le care e vecchie mazzette. Il 27 dicembre il ministro degli Esteri dello Zambia Stanley Kakubo si è dimesso dopo essere stato immortalato in un video mentre maneggiava denaro contante insieme a un imprenditore cinese.

Senza arrivare a tanto il rischio collusione è evidente anche nel modo in cui Pechino sfrutta il controllo di alcune organizzazioni internazionali particolarmente coinvolte nel continente. Sul manifesto l’esperto di Afriche Andrea Spinelli Barrile solleva qualche perplessità sulla visita del premier etiope alla Fao. Abiy avrà un incontro a porte chiuse con il direttore generale, il cinese Qu Dongyu. Fonti non confermate rivelano che gli sarà attribuito un riconoscimento informale per la sua lotta contro la fame, un’iniziativa personale di Qu, visto che l’unico premio FAO è il Champion Award e viene consegnato in giugno. È curioso riconoscere al capo del governo etiope degli sforzi per combattere la fame: secondo l’Ufficio delle Nazioni unite per gli Affari umanitari (OCHA), oggi in Etiopia oltre 20 milioni di persone hanno bisogno di aiuti umanitari e, tra loro, appena un terzo li riceve regolarmente.

Meno appariscente è invece l’impiego dei “service center”, uffici apparentemente “indipendenti” che servono ad affiancare gli expat cinesi nelle difficoltà quotidiane e nel disbrigo di pratiche amministrative. Secondo Axios, che ha visitato il centro di Dar es Salaam e intervistato in esclusiva il direttore, questo tipo di uffici non solo è finanziato dall’ambasciata cinese. Condivide persino il personale con alcune organizzazioni legate al partito comunista accusate negli Stati Uniti di perseguitare i dissidenti. Esiste poi una seconda tipologia di centri, il cui scopo è promuovere la cooperazione tra autorità e diaspora. In questo secondo caso gli uffici sono generalmente istituiti dal Ministero della Pubblica Sicurezza, l’FBI cinese. Alcuni hanno rapporti ufficiali con i governi dei paesi ospitanti, come nel caso del Sud Africa. In Europa e negli Stati Uniti però pare abbiano assunto funzioni di “stazioni di polizia”, o almeno così sostiene l’ong Safeguard Defenders.

Di sinergie securitarie si è occupato più concretamente l’Africa Center for Strategic Studies, che ha dedicato uno studio al cosiddetto “lavoro politico militare” (jundui zhengzhi gongzuo; 军队政治工作). Uno strumento a metà tra il soft e l’hard power che permette di raggiungere obiettivi politici, ideologici, non solo strettamente militari.  Secondo l’autorevole analista Paul Nantulya, tra il 2018 e il 2021, circa 2.000 poliziotti africani e personale delle forze dell’ordine si sono formati presso le scuole della Polizia armata popolare (PAP) che, come l’Esercito di liberazione popolare (PLA), è gestito dalla Commissione militare centrale del partito comunista cinese. Per Nantulya questo modello di collaborazione rappresenta una potenziale minaccia per la scricchiolante democrazia africana, tra brogli elettorali e veri e frequenti colpi di stato.

Il fatto è che gli studenti africani iscritti alle accademie militari cinesi vengono esposti alla visione del mondo della Cina, inclusa la cultura strategica del PLA, e il modo in cui il partito unico interagisce e controlla le forze armate cinesi. Verosimilmente imparano anche come riadattare le politiche interne cinesi ai loro paesi. L’impatto dell’osmosi resta comunque tutto da verificare. Se non altro per via dei numeri piuttosto contenuti: la formazione militare professionale rappresenta infatti appena tra il 4 e il 6% delle borse di studio concesse da Pechino negli ultimi tre anni. Ma le vie del Pcc sono infinite. Potenzialmente più efficaci sono i programmi che riguardano gli scambi politici in senso proprio. Fondata in Tanzania nel 2022, la Scuola Mwalimu Julius Nyerere è il primo istituto del genere finanziato da Pechino all’estero. Avvalendosi dei docenti della Scuola centrale del Pcc, punta a formare i leader di sei partiti associati agli Ex Movimenti di Liberazione dell’Africa Australe (FLMSA). Tutte formazioni politiche che, sebbene coinvolte nella lotta contro il giogo coloniale, nel corso degli anni hanno mantenuto una netta tendenza a soffocare, limitare e persino smantellare l’opposizione. Tra queste spicca il Zimbabwe African National Union – Patriotic Front (ZANU-PF), partito di governo dall’indipendenza e accusato di brogli alle elezioni dell’agosto 2023.

Proprio in Zimbabwe le due strategie – politica e militare – convergono in maniera impeccabile. Basti pensare che il presidente Emmerson Mnangagwa è stato tra i primi funzionari africani a venire addestrato in Cina negli anni ‘60. Amicizie così radicate nel tempo tendono a perpetuarsi fino al giorno d’oggi. A dicembre Pechino ha donato ad Harare nuove attrezzature militari per un valore di 200 milioni di yuan (28 milioni di dollari). L’equipaggiamento comprende veicoli blindati, veicoli trasporto personale, ambulanze, depuratori d’acqua motorizzati, motovedette, minibus, fucili di precisione, mitragliatrici e pistole a mano. Secondo gli esperti, data la tipologia di attrezzature, si tratta anche in questo caso di un gesto simbolico. Obiettivo: riaffermare il sostegno di Pechino al paese sotto sanzioni internazionali dai primi anni Duemila. In realtà – come spiega Stephen Chan della SOAS – il governo di Mnangagwa “ha già i mezzi per mettere a tacere l’opposizione”. 

Va detto però che la cooperazione militare è il sintomo di un interesse più generalizzato per il paese, ricco di minerali critici. Basti pensare che nel terzo trimestre del 2023 le aziende cinesi hanno ottenuto l’approvazione per 2,79 miliardi di dollari di investimenti, dieci volte la cifra stanziata nello stesso periodo dell’anno precedente. In confronto gli Emirati Arabi Uniti, il secondo principale investitore, ha ottenuto licenze per 498,5 milioni di dollari. C’è un però: un recente studio del China Overseas Security Research Institute (Renmin University) rubrica lo Zimbabwe (insieme alla Sierra Leone) tra i paesi a “rischio estremo” in termini di sicurezza. Uganda, Guinea Equatoriale ed Eritrea sono inoltre considerati potenzialmente instabili a causa del progressivo invecchiamento dei leader locali a fronte di regimi monopartitici che per il momento non sembrano lasciare spazio a una successione morbida. 

A cura di Alessandra Colarizi

Per chi volesse una panoramica d’insieme, in libreria trovate “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.