I temi di questa puntata :
- Belt and Road: l’Africa supera il Medio Oriente
- Pechino come vede il Piano Mattei?
- Il pallino americano per le basi militari cinesi in Africa
- Quel pasticciaccio brutto di Sam Pa
- Il nodo gordiano del deficit africano
- Braccio di ferro Cina-Usa sulle ferrovie africane
- L’ombra di Joseph Kabila sulle miniere congolesi
- L’altro mining: l’estrazione dei bitcoin in Etiopia
- Tutti pazzi per i SUV cinesi
- “Nel gioco del Mar Rosso serve un patto Occidente-Cina”
- Si fa presto a dire people-to-people
Belt and Road: l’Africa supera il Medio Oriente
Nel 2023 gli investimenti nella Belt and Road Initiative (BRI) hanno raggiunto il livello più alto dal 2018. A sostenerlo è un rapporto della Griffith University in Australia e della Fudan University di Shanghai, secondo il quale lo scorso anno la Cina avrebbe speso 50 miliardi di dollari per progetti in tutto il mondo. Ben l’80% in più rispetto al 2022. Tra i Paesi beneficiari figurano Corea del Sud, Bolivia e Namibia. Dato interessante: l’Africa ha superato il Medio Oriente, diventando il principale destinatario della BRI – con quasi 22 miliardi di dollari di nuovi progetti – seguita dall’ Asia Centrale. Il continente ha visto i contratti nel settore delle costruzioni aumentare del 47%, mentre gli investimenti sono cresciuti del 114% su base annua.
Nel decennio intercorso dall’annuncio della BRI, l’impegno economico totale della Cina ha raggiunto i mille miliardi di dollari. Negli ultimi cinque anni tuttavia – in particolare con l’inizio della pandemia – si è andata accentuando una predilezione per progetti più piccoli e non più legati prevalentemente allo sviluppo di reti di trasporto: oltre al settore tecnologico (+1046%), il comparto dei metalli e del mining ha evidenziato la crescita maggiore con un +158% su base annua. Questo trend è evidente anche in Africa. In Botswana la cinese MMG Ltd, controllata dalla statale China Minmetals Corp, ha acquisito la miniera di rame di Khoemacau, mentre altri paesi africani ricchi di risorse, tra cui la Repubblica Democratica del Congo (RDC), Namibia, Zimbabwe e Mali, hanno ugualmente assistito a un crescente coinvolgimento cinese nell’estrazione e lavorazione di materie prime grezze, come il cobalto e il litio, essenziali per la produzione di veicoli elettrici.
Il 2023 è stato inoltre il primo anno in cui oltre il 50% delle operazioni finanziarie cinesi nella BRI è avvenuto attraverso progetti dove gli investitori hanno assunto partecipazioni azionarie con rischi più elevati rispetto ai prestiti bancari garantiti. Altro record è stato toccato in termini di progetti energetici “verdi”, pari a 7,9 miliardi di dollari. In Africa, l’impegno della Cina nel campo dell’energia “alternativa” ha raggiunto un massimo storico nel 2023: circa 2,7 miliardi di dollari.
Come sottolinea Bloomberg, le preoccupazioni legate al rallentamento dell’economia cinese non hanno fermato gli investimenti della BRI. Anzi, una diminuzione delle occasioni di business in patria potrebbe spingere sempre di più le aziende cinesi verso i mercati esteri.
Ho chiesto un parere a Ben Shenglin, direttore del Centro studi africani presso la Zhejiang University:
La Cina non si sta allontanando dalle infrastrutture, ma sta diventando più selettiva nella scelta dei tipi di grandi progetti infrastrutturali da finanziare, questo non è insolito per qualsiasi nuovo attore mentre scala la curva di apprendimento. Soprattutto sta cercando di rendere i progetti più sostenibili, termine che sta a significare un’adeguata capacità di rimborso, ovvero opere più fattibili da un punto di vista commerciale. Laddove non dovesse esserci questa condizione, i progetti devono avere un maggiore impatto, incidendo positivamente sulla comunità locale e sui cluster industriali. Questo giustificherebbe ad esempio un possibile sussidio finanziario da parte delle autorità pubbliche per compensare il deficit di rendimenti puramente finanziari.
Cosa pensa Pechino del Piano Mattei?
È così bello vedere alcune iniziative “concorrenti” da parte degli Stati Uniti, dell’Europa e di fatto di qualsiasi altro paese o istituzione, purché contribuiscano alla connettività e alla crescita del mondo e allo sviluppo del Sud del mondo. La Belt & Road Initiative (o qualsiasi altra iniziativa) da sola non risolverà i problemi che affrontiamo, ecco perché non è solo auspicabile ma essenziale che tutte queste iniziative siano coordinate meglio, completandosi a vicenda in modo che l’impatto consolidato sia massimo e ottimale. In Africa, la Cina sta investendo in progetti legati alle infrastrutture, dalle tradizionali strade, ferrovie e aeroporti alle infrastrutture digitali. L’Europa è leader negli standard ESG e di governance dei dati, entrambi saranno di grande valore se incorporati nella progettazione e nelle operazioni dei progetti su cui sta lavorando la Cina.
Braccio di ferro Cina-Usa sulle ferrovie africane
Non è chiaro se verrà etichettato come Belt and Road, ad ogni modo rappresenta uno dei progetti più rilevanti intraprese dalla Cina in Africa, non solo da un punto simbolico: stiamo parlando della TAZARA, la ferrovia costruita da Mao che congiunge Dar es Salaam, in Tanzania, a Kapiri Mposhi, in Zambia. Si tratta tutt’oggi del progetto infrastrutturale più grande costruito dalla Cina all’estero. La scorsa puntata avevo anticipato alcuni recenti sviluppi. Ci sono altre novità: l’ambasciatore cinese a Lusaka Du Xiaohui ha confermato che i lavori di ristrutturazione (costo previsto: 1 miliardo di dollari) verranno finanziati attraverso una public-private partnership, sistema sempre più popolare nel continente. In questo caso le alternative non erano molte dal momento che lo Zambia, indebitato fino al collo, non avrebbe potuto permettersi nuovi prestiti né, probabilmente, Pechino gliene avrebbe concessi. Alla velocità con cui sta procedendo il progetto, in sospeso da anni, potrebbe aver contribuito l’incalzante impegno degli Stati Uniti a sviluppare il corridoio di Lobito, tra Zambia e Angola. Pare che Washington abbia ventilato la possibilità di connettere i due progetti ferroviari (che collegano importanti siti minerari) per creare una linea transcontinentale, ma la Cina ha declinato l’offerta.
Durante un recente viaggio nel continente, Wu Peng, lo zar della diplomazia cinese in Africa, ha confermato che Pechino sosterrà lo sviluppo infrastrutturale in Nigeria. L’annuncio fa seguito a quanto affermato da Xi Jinping durante il terzo Forum BRI di ottobre: ovvero che la Cina è disposta a finanziare e completare i progetti ferroviari Abuja-Kano e Port Harcourt-Maiduguri. L’85% dei costi sarà sostenuto dal gigante asiatico ma non attraverso l’Eximbank, la principale banca di sviluppo cinese. Sarà invece la China Development Bank – che risponde a logiche commerciali – ha fornire credito. Secondo gli analisti, “i prestiti della CDB saranno probabilmente più costosi e avranno termini meno favorevoli”. Chiaramente Pechino non è più disposto a firmare assegni in bianco come un tempo.
A questo proposito un interessante studio del Boston University Global Development Policy (GDP) Center chiarisce perché, nei paesi emergenti, Pechino parla di “finanziamenti allo sviluppo” (ODF) anziché di “aiuti”: in pratica, la Cina afferma di perseguire partenariati paritari in cui ciascun partner sfrutta i propri punti di forza in modo da promuovere il proprio sviluppo. Gli ODF sono erogati solo da CDB e CHEXIM. Lo scopo degli swap valutari invece è quello di intervenire durante un breve crisi di liquidità, mentre gli investimenti diretti esteri (FDI) consistono nell’iniettare capitale in un nuovo progetto, oppure acquisire asset esistenti sotto forma di investimenti greenfield o di fusioni e acquisizioni.
Un rapido aggiornamento sul debito dello Zambia: A gennaio alcuni funzionari di Lusaka si sono recati in Cina per iniziare a discutere della ristrutturazione del debito con i creditori commerciali. Il ministro delle Finanze, Situmbeko Musokotwane, si è detto ottimista e ha ipotizzato di riuscire a chiudere i negoziati prima di giugno.
Quel pasticciaccio brutto di Sam Pa
Si riapre a sorpresa il caso Sam Pa, il noto faccendiere cinese arrestato per corruzione nel 2015 e di cui da allora non si è saputo più nulla. Il suo vecchio socio in affari Lo Fonhung a novembre ha rilasciato una deposizione esplosiva presso un tribunale di Hong Kong. Radio Free Asia ha avuto modo di consultare in esclusiva i documenti. Sotto interrogatorio, Lo ha spiegato nel dettaglio come le autorità cinesi avrebbero utilizzato molte delle società sue e di Pa come copertura per entrare in Angola e ottenere concessioni petrolifere. Complice il rapporto personale tra Pa e l’allora presidente angolano José Eduardo dos Santos. “Lavoravo direttamente per il Comitato Centrale del partito“, ha detto Lo aggiungendo che Pechino puntava “a rompere il modello strategico esistente degli Stati Uniti e dei paesi occidentali in Africa e Angola”. Nei primi anni Duemila, il paese dell’Africa occidentale ha rappresentato un tassello fondamentale nella strategia cinese nel continente. Per questo si parla addirittura di “modello Angola”: la formula “petrolio in cambio di infrastrutture”, è stata replicata altrove con alcune varianti a seconda delle materie prime disponibili (rame, cobalto, litio ecc.. in cambio di infrastrutture). Le implicazioni dell’affair Sam Pa sono potenzialmente molteplici, a partire dalla possibile compartecipazione del governo cinese alle accuse di corruzione a carico del China International Fund (CIF), veicolo finanziario controllato da Pa e Lo.
Va poi ricordato che l’Angola deve alla Cina 21 miliardi di dollari, circa il 40% del suo debito verso l’esterno. Secondo gli esperti, Se Pa e Lo non hanno agito come privati ma come emissari del Partito, i leader angolani potrebbero presentare una richiesta al tribunale arbitrale per la cancellazione del debito secondo la dottrina del “debito odioso”, quella teoria di diritto internazionale riguardante la successione tra Stati nel debito pubblico. Col termine ci si riferisce al debito nazionale contratto per perseguire interessi diversi da quelli nazionali nella piena consapevolezza dei creditori e nell’incoscienza dei cittadini.
In occidente da tempo la penetrazione cinese nel continente viene vista con preoccupazione proprio per via della sovrapposizione tra entità statali e private. Il caso di Sam Pa rischia pertanto di alimentare questa convinzione. Il tutto proprio mentre il settore privato è destinato a svolgere un ruolo sempre più centrale nel quadro della Belt and Road. Cheryl Buss, CEO di Absa International, ne ha parlato in una recente intervista a Caixin.
Il nodo gordiano del deficit africano
Dicembre 2021, Dakar: l’ottavo Forum Cina-Africa (FOCAC) si chiude con una promessa. Secondo Xi, nei successivi tre anni, la Cina avrebbe aumentato le importazioni dall’Africa fino a toccare i 300 miliardi di dollari. L’obiettivo era quello di rendere il rapporto, contraddistinto da un ampio surplus cinese, “più equilibrato”. Anche a fronte dei problemi finanziari dei paesi africani che hanno spinto Pechino a ridurre i prestiti infrastrutturali. Il commercio – si disse all’epoca – diventerà il nuovo fulcro dei rapporti tra la Cina e il continente. Impegno che, va detto, il governo cinese ha cercato di portare avanti rimuovendo a più riprese oltre il 90% delle tariffe commerciali per circa una ventina di paesi africani.
A pochi mesi dal prossimo FOCAC – nonché dei tre anni previsti da Xi – tuttavia, la bilancia commerciale resta sbilanciata a favore della Cina. Stando ai dati ufficiali riportati il 1 febbraio, gli scambi con l’Africa sono lievitati del 5% su base annua, raggiungendo i 282 miliardi di dollari. Ma le esportazioni cinesi si sono attestate a 173 miliardi di dollari, un +7,5% rispetto al 2022, mentre le importazioni dall’Africa sono diminuite di quasi il 7% a 109 miliardi di dollari.
- Le statistiche rivelano ancora una volta che le transazioni Africa-Cina sono trainate da una manciata di paesi: Sud Africa, Egitto e Repubblica Democratica del Congo superano di gran lunga il resto del continente, seguiti da Angola e Ghana.
Cosa è successo? È successo che l’economia cinese rallenta, rallenta l’immobiliare, e rallentano i consumi. Sui numeri pesa in parte il calo dei prezzi delle commodities. Ma è innegabile che l’andamento dei commerci mette in dubbio l’efficacia delle misure cinesi. Con risvolti non solo economici, ma anche politici. C’è molta retorica Sud-Sud dietro l’immagine di una Cina che aiuta l’Africa a migliorare la produzione agricola e a esportare prodotti finiti. La natura politica del rapporto è destinata ad aumentare se, come consigliano in molti, gli Stati Uniti opteranno per potenziare l’African Growth and Opportunity Act (AGOA), un atto emesso nel maggio 2000 dal Congresso teso a promuovere la collaborazione e l’assistenza economica e commerciale nei confronti dei paesi dell’Africa subsahariana.
Un noto account nazionalista su X ha pubblicato un paio di commenti che non sembrano tornare troppo comodi a Pechino…
Nel quadro complessivamente non esaltante c’è però “un’isola felice”: lo Hunan. La provincia della Cina centrale conferma ancora una volta la sua centralità negli scambi con il continente: le importazioni dall’Africa sono schizzate del 90% nel primo trimestre del 2023. Sede dal 2019 del China-Africa Economic and Trade Expo (CAETE), a fine gennaio il capoluogo Changsha ha annunciato l’istituzione di una zona pilota che comprenderà sei centri, tra cui un Centro per la cooperazione transfrontaliera nel commercio elettronico e un Centro per l’assemblaggio e la lavorazione di beni di risorse non naturali. Stando alle autorità locali, entro il 2027 lo Hunan dovrà diventare “un importante piattaforma internazionale per la cooperazione con l’Africa”. Nelle precedenti puntate avevo spiegato perché sia stata scelta la provincia natale di Mao.
Nel 2023 la crescita economica dell’Africa è scesa al 3,2 per cento lo scorso anno dal 4,1 per cento del 2022. Nel suo ultimo rapporto, la Banca africana di sviluppo (Afdb) prevede una crescita più elevata quest’anno per tutte le regioni tranne l’Africa centrale. Secondo l’istituto, l’instabilità politica e il rallentamento economico della Cina stanno aggravando gli shock dovuti alla crisi sanitaria del Covid-19 e alla guerra in Ucraina. Il dato finale per il 2023 è stato inferiore alla crescita del 3,4 per cento prevista dalla Banca nel suo ultimo aggiornamento di novembre.
L’ombra di Joseph Kabila sulle miniere congolesi
La scorsa puntata avevamo parlato del famoso nuovo accordo minerario strappato dalla RDC. Le aziende cinesi coinvolte nei giacimenti di rame e cobalto locali hanno accettato di investire nel paese 7 miliardi di dollari rispetto agli iniziali 3 miliardi pattuiti. Le infrastrutture costruite dalla Cina per ora valgono appena 822 milioni. The China-Global South Africa sostiene che i nuovi termini concordati restano opachi e difficilmente l’intesa renderà il settore minerario congolese più competitivo. L’accordo sconta la gestione “aumm aumm” del suo artefice originario, Joseph Kabila. L’ex presidente è tornato recentemente sotto i riflettori per tutt’altro motivo: l’Università di Johannesburg ha accettato la sua domanda di dottorato con una tesi dal titolo “Svolta geopolitica: rivalità USA-Cina-Russia e implicazioni per l’Africa”.
Secondo il South China Morning Post (SCMP), tuttavia, la ridefinizione delle condizioni col consorzio Sicomines ha già innescato un effetto domino, come dimostrerebbe l’aumento delle quote ottenute dal governo congolese in altri progetti. Incoraggiato dal successo coi cinesi, Tshisekedi punta ora a scardinare il monopolio anglo-svizzero nelle miniere di Katanga e Mutanda.
Tutto questo movimento non è passato inosservato a Washington.
Dopo una protratta assenza dal paese, per la seconda volta in due anni, alcuni giorni fa gli Stati Uniti hanno firmato un accordo con la RDC: si tratta di un memorandum d’intesa non vincolante che vede partecipi la società mineraria statale congolese Gécamines e l’Organizzazione giapponese per i metalli e la sicurezza energetica (JOGMEC). Nel dicembre 2022 Washington aveva concluso un protocollo d’intesa simile con la RDC e lo Zambia, che però finora non si è concretizzato. Stavolta – secondo Eric Olander di The China-Global South Project – la differenza la fa JOGMEC: l’agenzia statale nipponica è già attiva in Botswana, dove utilizza una tecnologia di telerilevamento all’avanguardia che potrebbe in futuro essere applicata anche alle miniere congolesi.
L’altro mining: l’estrazione dei bitcoin in Etiopia
Anche nel Corno d’Africa si parla di mining. In questo caso però i minatori cinesi non estraggono rame e cobalto, bensì Bitcoin. Da quando due anni fa Pechino ha messo al bando le criptovalute, l’Etiopia si è affermata tra le mete favorite dei miner cinesi per via dell’energia a basso costo e delle normative favorevoli. Nel paese è vietato il commercio di criptovalute ma non il mining. Non guasta che diverse società cinesi abbiano anche contribuito a costruire la gigantesca diga della rinascita, da cui i minatori intendono attingere l’energia necessaria. C’è però un problema: il 40% della popolazione etiope non ha accesso all’elettricità e il discutibile impiego di risorse nazionali rischia di incontrare l’opposizione dei cittadini. Ci sono già i segnali di un ripensamento. La scorsa settimana l’Ethiopian Investment Holdings (EIH) ha annunciato sui social media un memorandum d’intesa per un progetto da 250 milioni di dollari con una filiale del West Data Group, azienda con sede a Hong Kong, ma ha in seguito rimosso i riferimenti al valore del affare e all’identità della società coinvolta.
Tutti pazzi per i SUV cinesi
La notizia ha fatto il giro del mondo: nel 2023 la Cina ha superato il Giappone conquistando per la prima volta il titolo di primo esportatore di veicoli al mondo. In Africa il sorpasso è ancora lontano ma non impossibile.
Nel gennaio 2024, tra le prime dieci case automobilistiche più popolari in Sud Africa, due erano cinesi: HAVAL MOTORS, sottomarchio di Great Wall Motors (GWM), specializzato in veicoli utilitari sportivi (SUV), si è piazzato all’ottavo posto con 1.463 auto vendute. Una posizione subito sotto, al nono posto troviamo CHERY MOTORS, produttore statale di automobili, furgoni, e SUV. Sono cifre molto modeste se raffrontate a quelle di Toyota (oltre 10.000 unità vendute) e Volkswagen (oltre 5.000). Ma l’aumento sta avvenendo velocemente. Soprattutto nella sottocategoria dei SUV, la tipologia più amata dall’establishment africano.
Le ragioni principali della competitività dei modelli cinesi in Sud Africa sta essenzialmente nel rapporto qualità-prezzo. I SUV cinesi sono dotati di funzionalità come telecamere e navigazione installate senza costi aggiuntivi, mentre i prezzi sono leggermente inferiori a quelli dei competitor. Ma, come ci spiega l’esperto di Afriche Andrea Spinelli Barrile, le macchine cinesi hanno anche un altro vantaggio: sono personalizzabili. “Le customizzazioni delle auto sono un must in Africa. Dalle reti da pesca sul cofano per fare l’effetto grill ai tappetini deluxe in moquette di dubbio gusto, fino ai cerchioni cromati montati su auto cinesi da quattro soldi. Le classiche land rover restano tali, intatte nel loro fascino (per ricchi), le auto cinesi invece invogliano spesso a customizzarle per renderle più belle, più uniche, ma anche per coprire i difetti (e gli incidenti, frequentissimi)”.
Il pallino americano per le basi militari cinesi in Africa
Almeno una volta l’anno il Wall Street Journal ci deve regalare qualche indiscrezione sulle future basi cinesi in Africa. Era il 2021 quando diede in esclusiva la notizia di trattative in corso nella Guinea Equatoriale. L’obiettivo – spiegava all’epoca il quotidiano finanziario – era ottenere una presenza militare sull’Oceano Atlantico. L’unica base cinese all’estero si trova a Gibuti, dalla parte opposta del continente. Espandersi sulla costa occidentale permetterebbe a Pechino di parcheggiare navi da guerra e sommergibili proprio di fronte agli Stati Uniti. Da allora le voci di corridoio sulla base sono rimaste tali, mentre altri studi hanno ampliato la lista dei paesi papabili, dal Camerun alla Namibia. Secondo una recente inchiesta del WSJ, in Gabon l’accordo era già cosa fatta. Lo avrebbe rivelato l’ex presidente Ali Bongo a Jon Finer, il vice-consigliere per la sicurezza degli Stati Uniti. Poi lo scorso agosto il golpe a Libreville e la destituzione di Bongo hanno presumibilmente congelato i piani cinesi.
I limiti della notizia sono abbastanza evidenti: la fonte è sempre la stessa – il Wall Street Journal – così come lo è l’informatore: il governo americano. Quanto c’è di vero, quanto invece incidono i timori di Washington sulla materializzazione di avamposti militari cinesi in Africa? E poi cosa si intende per “base militare”? Una struttura interamente controllata dalla Cina come a Gibuti o un attracco sfruttabile al bisogno, come la base di Ream in Cambogia?
Al netto delle condivise perplessità, la storia è credibile: lo scorso anno le relazioni con il Gabon erano state elevate a “partnership strategica cooperativa globale”. L’avanzata cinese in Africa occidentale è cosa nota. Il colosso delle armi Norinco ha aperto un ufficio in Senegal giusto ad agosto. Trattandosi di un’azienda statale difficilmente l’operazione ha unicamente un risvolto economico. Nei piani di Pechino, armare i legittimi governi (anche quelli corrotti e repressivi) è il modo più semplice per aiutare a stabilizzare la regione; soprattutto dopo il ritiro francese. La questione diventa ancora più dirimente con la conclusione della missione dei caschi blu cinesi in Mali. Secondo esperti consultati dal SCMP, difficilmente Pechino rimpiazzerà le forze di peacekeeping Onu con nuovo personale militare. Piuttosto cercherà di riportare la pace promuovendo sviluppo economico. Quando si tratta di sicurezza, la Cina tende ancora a procedere in punta di piedi. Ne ho parlato con Alberto Magnani per Il Sole 24 Ore.
Intanto mentre si discute di una possibile futura ipotetica base militare cinese, in Somalia, il 15 febbraio gli Stati Uniti hanno firmato un memorandum d’intesa per la costruzione di ben cinque basi militari per la brigata Danab, l’unità d’élite dell’Esercito nazionale somalo (Sna) addestrata dagli Usa.
“Nel gioco del Mar Rosso serve un patto Occidente-Cina”
“Siamo davanti al Grande gioco del Mar Rosso. C’è lo Yemen in crisi, le azioni degli Houthi, anche il Sudan in difficoltà. Il trasporto marittimo è minacciato gravemente. La regione è in fermento e le onde del Mar Rosso non devono venire agitate ulteriormente”. A parlare è il presidente della Somalia Hassan Sheikh Mohamud, che il 31 gennaio è stato intervistato da Repubblica. “Con la Nuova Via della Seta la Cina si è focalizzata sulle infrastrutture, senza le quali non può esserci sviluppo economico”, ha proseguito Mohamoud: “Costruisce strade, porti, aeroporti, ponti, dighe, tutte cose di cui l’Africa ha bisogno e che i cittadini vedono crescere giorno dopo giorno. Per questo l’Occidente sì, fa bene a occuparsi di democrazia e diritti umani, ma dovrebbe scommettere anzitutto sulla sicurezza alimentare e sull’energia, e anche aiutarci ad accedere ai finanziamenti per affrontare le conseguenze del cambiamento climatico”. “Quando i tuoi vicini sono instabili, anche la tua casa è instabile. Qualche anno fa abbiamo avuto i pirati somali, che minacciavano il trasporto marittimo internazionale, e fermarli è costato molto. Oggi ci sono gli Houthi. I nuovi pirati vengono dalla terra e non dal mare. E quindi il problema va risolto sulla terra, in Yemen. Servono Paesi stabili su tutti e due i lati del Mar Rosso. E c’è bisogno – conclude il presidente – di una soluzione politica e diplomatica globale, su cui si mettano d’accordo i Paesi della regione e le potenze più influenti, a partire dall’Occidente e dalla Cina, che hanno un interesse economico a una soluzione nel Mar Rosso”.
Si fa presto a dire people-to-people
Ascoltare gli africani è sempre molto interessante. Soprattutto oggi che si è tornati a parlare di una “nuova guerra fredda” tra occidente e Sud Globale. A questo proposito consiglio la lettura del dossier ISPI “Is Africa Turning Against the West?”, a cura di Giovanni Carbone e Lucia Ragazzi. Due contributi indagano, il primo la percezione dell’opinione pubblica africana su Cina e Stati Uniti, e il secondo il risentimento anti-cinese. Il punto di partenza del primo studio è già di per sé illuminante: buona parte dei rispondenti ha dichiarato semplicemente di non avere una conoscenza dei fatti sufficiente per esprimere una preferenza.
Il rapporti people-to-people restano il tasto dolente. Come nel resto del mondo, la comunità cinese in Africa non brilla per capacità di integrazione. Discorso a parte vale per le isole Mauritius, l’unico posto del continente dove il Capodanno lunare viene considerato ufficialmente festa. L’emittente statale cinese ha trasmesso un servizio sulle celebrazioni. Non mi sono documentata sul perché la festività sia osservata proprio nell’arcipelago, ma immagino sia dovuto al contesto locale multietnico e multiculturale.
Intanto su Douyin, il Tik Tok cinese, continuano a emergere nuovi influencer africani. Un cantante del Ruanda, noto con il nome d’arte di Bobo, ha accumulato oltre 6,5 milioni di follower e più di 85 milioni di Mi piace con un video in cui canta in ottimo mandarino, lingua che ha studiato presso l’Istituto Confucio di Kigali. Non sono mancati commenti razzisti…
A cura di Alessandra Colarizi
Per chi volesse una panoramica d’insieme, in libreria trovate “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.