Il ritiro americano dei Boots on the afghan Ground somiglia un po’ in chiave geopolitica alla Teoria delle Catastrofi di René Thom che vedeva come si creassero laddove si veniva a creare un vuoto che andava in qualche modo riempito e di conseguenza avvenivano sconvolgimenti per il vortice di riempimento che si andava a creare e lo spostamento a cascata. Per gli interessi americani probabilmente le tecnologie di controllo e intervento rapido sono ormai in grado di ritirare le truppe tradizionali da un territorio diversamente colonizzato; per gli interessi cinesi l’Afghanistan ha invece ancora un duplice “tradizionale” interesse, che richiede non truppe, ma accordi con chi deterrà il potere sulle infrastrutture – per le merci del Bri – e sul confine di 75 chilometri condiviso con lo Xinjiang – per poter contenere internamente il nazionalismo uiguro e assicurarsi il controllo del Corridoio del Wakhan.
Questo articolo di Sabrina Moles incentrato sull’analisi degli interessi cinesi per l’Afghanistan si affianca ad altri due interventi contemporanei ospitati sul sito di OGzero, uno di Emanuele Giordana, che documenta la situazione interna e i rapporti di forza attuali nei distretti afgani, e l’altro di Yurii Colombo sugli interessi russi a Kabul, completando la panoramica sulla situazione geopolitica afgana in seguito al ritiro delle truppe americane dal paese che abbiamo intrapreso cominciando da una tavola rotonda che li ha visti partecipi e trasmessa in diretta nella serata del 13 luglio da Radio Blackout.
Colmare gli svuotamenti irresponsabili con il basso profilo strategico
La Cina è apparsa come marginale nelle dinamiche afghane dall’inizio della guerra al terrorismo annunciata dagli Stati Uniti dopo i fatti del 2001, ma ha sempre agito con il basso profilo che ha caratterizzato la diplomazia cinese degli ultimi quarant’anni. Oggi più che mai, però, Kabul torna a risvegliare l’attenzione del vicinato e la dipartita delle forze armate americane contribuisce a lasciare un vuoto nel risiko dei nomi più influenti sull’area. Ecco che allora Pechino ritorna a far parlare di sé e del suo ruolo in Asia Centrale con uno sguardo particolare verso l’Afghanistan.
Guardando la cartina del continente asiatico, la distanza tra la capitale cinese e Kabul è quasi tre volte la distanza che separa l’Italia da Mosca. Eppure, alla Cina importa moltissimo dell’Afghanistan e di quei 76 chilometri di confine che dividono i due paesi. In questa breve striscia di territorio, che per la Cina è spesso sovradimensionata a 90 chilometri, corre la periferia dello Xinjiang. Già epicentro delle accuse della comunità internazionale contro Cina e snodo chiave dei progetti di connettività cinesi in Asia, con il ritorno dell’instabilità questo territorio è diventato un grattacapo per Pechino. Sebbene da un lato quello che la Repubblica Popolare indica come “abbandono irresponsabile” degli Stati Uniti sia un conveniente strumento per posizionarsi come partner regionale intenzionato a mantenere gli equilibri.
Ghani o Talebani, purché sian libere le mani
Gli interessi della Cina, come Pechino dichiara e tiene a ribadire nelle sue esternazioni pubbliche, sono la stabilità declinata attraverso la prosperità economica, il dialogo equo tra attori e il rispetto della sovranità. Non per niente questa posizione ha giovato nel rapporto storico che Pechino intrattiene con i Talebani e che recentemente è stato descritto dal portavoce Suhail Shaheen (anche parte attiva nei negoziati) come un saldo rapporto di amicizia. I rappresentanti dei Talebani sono anche stati ospitati in Cina, ancora non si conoscono i dettagli di questi incontri. L’intesa tra Talebani e Cina risale al dicembre 2000, quando Mullah Mohammed Omarera era capo del gruppo e governatore ufficiale dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Nell’ultimo decennio la Cina ha continuato a tenersi tutte le porte aperte, palleggiando tra il governo riconosciuto di Ashraf Ghani e gli altri attori non statali diffusi sul territorio. Le diverse narrazioni, insomma, hanno una cosa in comune: il contatto dichiarato più o meno apertamente tra la Cina e un ampio ventaglio di attori, compresi quelli non statali.
Risorse succulente per la Bri e concorrenza agguerrita
I due grandi temi che sembrano emergere dal discorso cinese sullo sviluppo e stabilizzazione dell’Afghanistan sono quindi economia e sicurezza, un mix che non è nuovo nella proiezione estera di Pechino, ancora di più se questa coinvolge il vicinato. L’Afghanistan è di fatto una delle gemme incastonate negli ambiziosi piani della nuova Via della Seta (o Belt and Road Inititiative, Bri), la cui instabilità attuale non può essere ignorata da Pechino quando ragiona sull’avanzamento dei suoi progetti lungo il corridoio sino-pakistano. Investimenti che secondo le proiezioni accoglieranno almeno 62 miliardi di dollari da parte cinese. Per non parlare delle attività pensate dentro i confini afghani, dove esistono ancora grandi bacini di risorse sottosfruttate – secondo alcune stime si parla di un triliardo di dollari. Non solo corridoio per far passare scambi commerciali e infrastrutture, quindi: l’Afghanistan è il più grande bacino di rame della regione, oltre a essere ricco di carbone, ferro, gas, cobalto, mercurio, oro, litio e torio. Ci sono inoltre anche altri beni che iniziano a interessare agli investitori cinesi, come i jalghoza, un tipo di pinoli il cui commercio è esploso in Cina negli ultimi anni. Rimane da evidenziare, però, che la Cina è ancora lontana dall’essere il primo partner commerciale di Kabul, settore dove prevalgono Emirati Arabi (le cui importazioni dall’Afghanistan sono cresciute addirittura del 730 per cento tra 2018 e 2019), Pakistan e India.
Reti tribali e infiltrazioni cinesi in rete
A partire dal 2011 si registra una maggiore presenza di investimenti diretti esteri nel settore energetico, con l’ottenimento da parte della China National Petroleum Corporation (Cnpc) dei diritti di perforazione di tre giacimenti petroliferi per 25 anni, per un totale previsto di circa 87 milioni di barili di petrolio. Tra i giacimenti minerari assicurati, invece, figurano i diritti di estrazione del rame a Mes Aynak, nella provincia di Logar.
Infine, il Badakhshan, la provincia afghana che confina con la provincia cinese dello Xinjiang, è una zona di forti traffici illeciti e non – in particolare di pietre preziose. Il caso delle infiltrazioni cinesi nella rete Haqqani dello scorso dicembre 2020 aveva, per esempio, fatto riemergere il tema delle attività “dietro le quinte” dei cinesi in Afghanistan. Tra i principali protagonisti degli attacchi terroristici a Kabul e sulla lista dei gruppi terroristi statunitensi, pare che il gruppo fosse coinvolto in attività di contrabbando di droga e armi, ma anche nella creazione di una finta cellula separatista uigura per incastrare i combattenti in arrivo dallo Xinjiang. È stata l’agenzia di spionaggio indiana Research and Analysis Wing (R&AW) a riferire all’intelligence afghana della presenza di cittadini cinesi sospetti a Kabul, e ora non è chiaro se alcuni sospettati siano rimasti in detenzione nel paese o se siano stati tutti trasferiti nella madrepatria. I progetti cinesi sono spesso soggetti a rallentamenti e non è una novità che possano cadere in un nulla di fatto. Oggi il Pil dell’Afghanistan dipende al 40 per cento dagli aiuti esteri [dati Banca Mondiale], ma si prevede almeno un dimezzamento entro il 2030: si pone quindi l’imperativo di affidarsi a progetti concreti, che permettano al paese di rendersi sempre più indipendente e autonomo sul piano economico.
Delirio securitario in attesa di liste di proscrizione comuni
La protezione dell’infiltrazione economica cinese in Afghanistan non può non prescindere dalla stabilità lungo il confine, ecco quindi che anche la tutela del territorio e l’incolumità dei cittadini cinesi diventano prioritari. Il ritorno a una situazione di relativa instabilità non giova alla Repubblica Popolare, che durante il mese di luglio 2021 ha evacuato 210 connazionali con voli charter. La Cina può ancora offrire aiuti nel processo di sviluppo e ricostruzione afghano, ma lo farà alle sue condizioni, in primis la sicurezza degli asset finanziati di banche e imprese cinesi. Sul piano della sicurezza, quindi, non spaventa tanto il cosiddetto “vuoto di potere” lasciato dagli Stati Uniti, quanto un generale senso di instabilità lungo il confine sino-afghano.
In questo senso la ripresa dei Talebani diventa sia motivo di apprensione, che di sollievo. Tutto dipenderà dalla relativa stabilità che riusciranno a creare nel paese: anche per questo la Cina non chiude le possibilità di dialogo con nessuno. Gli accordi con i Talebani sono incentrati sulla promessa che le milizie controllino e impediscano gli ingressi degli uiguri dal confine con lo Xinjiang, e viceversa: la provincia occidentale cinese che condivide il breve tratto di confine con l’Afghanistan deve essere protetta dall’ingresso delle milizie di tutti i gruppi terroristici, da al-Qaeda allo Etim.
Il Badakhshan è stato infatti rifugio storico del Movimento indipendentista del Turkestan orientale (Etim), gruppo separatista di matrice islamica nato nel 1993 con l’obbiettivo di rendere lo Xinjiang uno stato indipendente da Pechino. Secondo le ultime stime il movimento raccoglierebbe poche centinaia di individui, che nell’ultimo periodo si sarebbero stabilizzati in Siria e che oggi starebbero invece ritornando in Asia Centrale. A complicare la situazione, però, è arrivata la bagarre diplomatica tra Cina e Stati Uniti sul tema Xinjiang. Mentre ai Talebani viene riconosciuto questo ruolo di “poliziotti oltreconfine” e l’Etim rappresenta per la Cina uno scomodo impiccio, gli Stati Uniti hanno deciso di rimuovere il movimento dalla Us Terrorism Exclusion List nel novembre 2020. L’Etim era stato schedato da Washington nel 2002, ma oggi gli Usa affermano che non esistono prove concrete dell’esistenza del gruppo oggi. Inoltre, la mossa arriva anche per lanciare un segnale a Pechino, finita nell’ultimo anno sotto lo scrutinio internazionale con l’accusa di internare gli uiguri in campi di lavoro forzato – accuse che si sono trasformate in sanzioni da parte di Unione Europea e Usa, a cui la Cina ha risposto con altrettante sanzioni a individui e società. La scelta statunitense non è piaciuta alla Repubblica Popolare, che ha accusato gli americani di portare avanti una logica di doppio standard sui diritti umani in Asia e «utilizzare [la lotta al terrorismo] fin quando fa comodo e poi scartarla quando non serve più». Anzi: secondo alcuni osservatori cinesi gli Usa hanno deliberatamente preso questa decisione per incoraggiare i miliziani dell’Etim a destabilizzare le attività cinesi nella regione.
Scommesse sul cambiamento dei Talebani
Altri analisti cinesi invece cercano di contrastare quella che chiamano una «strategia occidentale di esporre le presunte paure della Cina», ovvero: sarebbe tutto un tentativo mediatico per ridurre gli interventi della Repubblica Popolare a piani di difesa contro un pugno di terroristi uiguri. La situazione è molto più complessa. Cao Wei, un esperto di studi sulla sicurezza internazionale presso l’Università di Lanzhou, ha dichiarato al “Global Times” (megafono mediatico di Pechino in lingua inglese) che è altamente improbabile che estremisti e gruppi terroristici entrino in Cina dal corridoio del Wakhan. Per il dottor Wei i talebani sono molto cambiati e dovranno prima o poi fare i conti con un paese da gestire oltre lo stato di guerra civile: il Badakhshan è già sotto il loro controllo, e per questo motivo la Cina dovrà fare più attenzione alle infiltrazioni dello Etim da altri paesi dell’Asia centrale.
Wakhan, ancora tomba degli imperi?
L’attenzione sul corridoio del Wakhan non è una prerogativa esclusivamente cinese: nella “tomba degli imperi” si alternano tanti attori diversi, ognuno con interessi differenti e che spesso cerca nella Cina una spalla su cui contare. Talvolta, è la Cina stessa che prende l’iniziativa, soprattutto ora che l’addio degli Stati Uniti rischia di far precipitare la situazione in tutta la regione.
Il Pakistan, alleato ad ammansire gruppi ribelli diversamente minacciosi
Ecco, quindi, che tra i primi nomi in lista compare quello del Pakistan, storico partner economico di Pechino con cui porta avanti un dialogo trilaterale insieme all’Afghanistan dal 2015. Il Pakistan lavora su tutti i fronti per porre in sicurezza il confine con l’Afghanistan e la Cina è stata di aiuto nel gestire, per esempio, quella che sembra la ristrutturazione del gruppo Tehreek-e-Taliban Pakistan (Ttp) nella provincia afghana Paktika. E qui ritorna la Cina, perché proprio i talebani e la rete Haqqani con cui dialoga Pechino sono strumentali anche per Islamabad a tenere sotto controllo la minaccia terroristica. Il Ttp è inoltre dichiaratamente antagonista della Cina, che condanna per la persecuzione degli uiguri. A sua volta, il premier pakistano Imran Khan ha ripreso il dialogo con i gruppi ribelli del Belucistan che si oppongono alla Belt and Road Initiative cinese: una mossa non scontata che potrebbe facilitare le cose a Pechino. In questo senso, per la Cina è importante il rapporto con il Pakistan (che viene definito tie gan “ferreo, solido come una roccia” – una nozione ancora dibattuta ma che tende a evidenziare la solidità che Pechino vede nella relazione) nel contesto mutevole dell’Afghanistan postritiro statunitense.
Mosca e gli “stan”: partner fondamentali nella questione afgana
Sempre parlando di politiche di vicinato, la Cina ha avviato da tempo il dialogo con i cinque stati centrasiatici sulla situazione afghana per combattere quelli che chiama i “tre grandi mali”: terrorismo, estremismo e separatismo. Gli stessi elementi che ricorrono nel discorso cinese sul terrorismo internazionale e i rischi a esso associati nella regione dello Xinjiang. In questo 2021 di cambiamenti per Kabul e, di conseguenza, per chi con l’Afghanistan condivide confini instabili e porosi, sono diventate centrali le visite del ministro agli affari esteri Wang Yi e il dialogo congiunto multilaterale. Talvolta questi incontri sono inseriti nel più ampio meccanismo di sicurezza regionale fondato dalla Cina e che vede partecipe anche la Russia: la Shanghai Cooperation Organization. La Russia rimane un importante alleato da mantenere nella regione, in quanto a sua volta promette di non cedere all’interventismo di stampo neoliberale promosso dagli Usa. Importanti per entrambi i giganti le partnership strategiche su tutto il territorio, dove contano sicurezza e interessi economici, ancor meglio se corredato di una buona relazione con gli stati centrasiatici. A essere favorita da entrambi rimane la soluzione politica del conflitto afghano, attraverso negoziati tra le parti. Rimane però un vuoto nella sostanza di queste operazioni, dove per ora sembra che Mosca e Pechino vadano ad agire individualmente.
La Cina appare cauta nei confronti dei gruppi di potere di matrice islamica, ma i fatti dimostrano una disposizione a scendere a patti mediata da negoziati in grado di soddisfare le parti. Lo scacchiere afghano dei mesi a venire rimane un ambiente molto complesso da interpretare, dove non si esclude che possano ancora avvenire dei cambiamenti decisivi. Per ora, quindi, niente rapporti di ferro definiti per Pechino, ma flessibili palleggiamenti tra gruppi di potere.
Di Sabrina Moles
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.